martedì 14 gennaio 2020

Ripeness is all







Al Teatro Eduardo dell’Officina Pasolini di Roma, Andrea Bosca. diretto da Paolo Briguglia (ma era una prova, la regia si potrà meglio considerare quando lo spettacolo andrà in scena ad Asti) ha tenuto una prova aperta del suo monologo tratto dalla Luna e i falò di Cesare Pavese. Una bella sfida. E per me una grande emozione: ho letto il bellissimo romanzo di Pavese, il suo ultimo, che avevo 18 anni, comprato di notte alla stazione di Padova (eh sì, allora giornalai e librerie delle stazioni erano aperti anche di notte) nel viaggio di ritorno a Roma da Cortina D’Ampezzo: non riuscivo a dormire, stipato nello scompartimento di prima classe, invece che su una cuccetta, e il treno rimase fermo per un po’ nella stazione di Padova. Lo cominciai subito a leggere e lo lessi quasi d’un fiato, perché due giorni dopo, tornato a casa, l’avevo già finito e cominciai a leggere tutti gli altri, e i racconti, dei quali mi colpì, mi confuse, prima di intenderne il senso, Nudismo. Era, invece, come poi capii, una chiara confessione di complicato panteismo.

Bravissimo Bosca a sintetizzare il romanzo in un’ora e mezzo. Che libro disperato, La luna e i falò! Una bella sfida, dunque, questa di Andrea Bosca. Vinta. Pavese è il solo scrittore italiano, insieme a Calvino, che abbia visto, al di là delle proprie convinzioni ideologiche, e capito, senza scappatoie, la spaccatura, non solo politica, ma culturale, che divide gli italiani e la sua insanabilità. A raccontarla, questa spaccatura, Pavese adotta una lingua apparentemente fredda, obbiettiva, distaccata, sembrerebbe un’applicazione della ricetta neorealistica, in realtà è una prosa lacerata da interne crepe musicali, da pensieri spiazzanti, da immagini improvvise di un’evidenza feroce, proprio quando si tratta di raccontare una lacerazione. La sua poesia - pochi romanzieri sono come lui poeti - è di un'attualità che ancora oggi fa male. E se si pensa a quanto dolore, fin dalle origini, abbiano suscitato negli scrittori italiani le divisioni degli italiani, da Dante a Petrarca, da Machiavelli a Leopardi, temo che anche questo dolore di Pavese accompagnerà la coscienza di molti italiani per molto tempo ancora, forse per secoli, almeno fino a quando una fantasmagorica comunità che si autoproclama Italia esisterà ancora.

"Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero". Così si chiude La casa in collina, del 1948. E nel 1949 La luna e i falò si apre con una confessione disarmante: "Qui non ci sono nato ...non c'è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch'io possa dire: 'Ecco cos'ero prima di nascere' ". Nostalgia del borgo natio e insieme estraneità a qualunque angolo della terra coincidono in un unico sentimento di estraneità dal mondo. Unico legame, unica uguaglianza, tra gli uomini, il dolore. E viene da pensare al primo coro dell’Agamennone di Eschilo, sul quale certamente Pavese, che amava così profondamente la poesia greca, avrà più volte riflettuto (guarda caso, lo stesso testo sul quale dolorosamente riflette Pasolini, e lo traduce). Veramente non solo il mare tra Cipro e la Grecia, come è scritto nei Dialoghi con Leucò, è tutto "intriso di lacrime e di sperma", ma anche la terra, qualunque terra è solo il sostegno di una disperazione senza uscita, una lacerazione individuale, culturale, sociale e politica. Il contrasto tra l’oppressione fascista e l’ansia di libertà degli antifascisti appare inconciliabile, perché al di sotto del contrasto politico, c’è un’incompatibilità umana tra l’io che s’impone, senza nessuna consapevolezza del male di esistere, e che anzi crede di vincerlo, soffocarlo, con il sopruso sugli altri, con l’affliggerlo agli altri quel male che o non vede o vuole evitare, e l’io che, consapevole invece del dolore dell’essere (di questo si tratta: Pavese è molto più metafisico di quanto appare), non ha armi per opporsi alla prevaricazione di quell’io violento che lo schiaccia.

Questo groviglio, questo groppo è la materia della narrazione di Pavese. Nelle novelle, nei romanzi, nelle poesie, nel diario. Bosca ce lo restituisce, ce lo fa sentire con commosso distacco, come un dolore sordo che sta là sotto, come una malattia, da cui non si guarisce. La sua voce è un sussurro più che una voglia di conversazione, una confessione davanti allo specchio di sé stesso. L’ascoltatore immaginario – il pubblico – sta là forse, da parte dell’attore, più come voglia di una somiglianza che come ricerca di una mente che capisca, più come un altro sé stesso a cui confessare la propria sofferenza di esistente che non esiste che come pubblico al quale mostrare la propria bravura. 

 

Finalmente, mi dico, trovo un attore che non recita, ma che parla, che dice, senza enfasi, senza urlarlo, il dolore immedicabile di vivere. Ma, naturalmente, è invece la forma più alta possibile di recitazione: quella che imita la vita, ma non riproducendola realisticamente, questo lo sanno fare in molti, e appaiono tutti uguali, bensì con la grazia di un ritmo musicale interiore, per la quale il linguaggio si fa musica, e la musica ti penetra nel cervello, lo occupa, e raccontandoti il proprio disagio ti fa conoscere il tuo. Probabile che Pavese parlasse così. Perfino con la stessa cadenza, e non perché Bosca sia nato nella sua stessa valle del Belbo in cui è nato Pavese. Ma, chi sa, forse anche per questo.

Grazie, Andrea! Indimenticabile la tua voce che si sostituisce a quella di Pavese. Diventa la voce di un Andrea/Cesare che, credimi, mi sta ancora dentro. Mi starà, credo, per molto. Forse solo perché Pavese è una voce di me che mi porto dentro da quando avevo 18 anni. Lo hanno spesso, proprio per questo tono adolescenziale, accusato di essere solo la voce di un adolescente. Ma quanti hanno detto lo stesso di Tasso, di Leopardi! Benedetto Croce pensava anzi, con quest’accusa, di svuotarlo, demolirlo, il pensiero leopardiano. Era tuttavia adolescente anche Rimbaud. Ma ha visto più lontano di tanti adulti. E qui, scrivendo queste parole, lo riconosce uno che da quei 18 anni in cui ha letto per la prima volta Pavese, ne ha vissuti altri 60. Ma quella voce, e quello sguardo, non li ha più dimenticati.

Di nuovo: grazie Andrea! Mi hai fatto scavalcare più di mezzo secolo: e non so se quest’oggi è peggiore di quell’ieri o migliore. Ma ritornando a quella notte, capisco che già allora sentivo ciò che sento adesso e che Pavese sa raccontare con una voce inconfondibile. E questa voce inconfondibile, tu, Andrea, hai saputo indossarla come fosse la tua. Davvero “ripeness is all”. Non perché si diventa adulti. Ma perché adulta diventa la sofferenza, non più soltanto sofferta, vissuta, ma pensata, consapevole, e dunque ormai insopprimibile.

OFFICINA DELLE ARTI
Pier Paolo Pasolini
Teatro Eduardo De Filippo
Ripeness is all, appunti per una Luna e i falò
Prova aperta con Andrea Bosca
Regia di Paolo Briguglia

Roma, 13 gennaio 2020

Nessun commento:

Posta un commento