domenica 15 settembre 2019

Calder /Kentridge: la mobilità e la fugacità dell'essere




TEATRO DELL'OPERA DI ROMA

WORK IN PROGRESS
di Alexander Calder

immagini teatrali coordinate da Giovanni Carandente
e presentate da Filippo Crivelli
su musiche elettroniche di Niccolò Castiglioni, Aldo Clementi, Bruno Maderna

ALLESTIMENTO TEATRO DELL’OPERA DI ROMA

WAITING FOR THE SIBYL
ldeazione e regia di WILLIAM KENTRIDGE
Con musica composta ed elaborata da Nhlanhla Mahlangu e Kyle Shepherd
Regista associato NhlanhlaMahlangu
Proiezioni Zana Marovié
Costumi Greta Goiris
Scene Sabine Theunissen
Luci Urs Schiinebaum
Video Du§ko Marovié
lngegnere del suono Gavan Eckhart
Sartoria Emmanuelle Erhart

INTERPRETI

Nhlanhla Mahlangu {voce e danza)
Xolisile Bongwana (voce e danza)
Thulani Chauke (danza)
Teresa Phuti Mojela (danza)
Thandazile'Sonia' Radebe {danza)
Ayanda Nhlangothi (voce)
Zandile Hlatshwayo (voce)
Siphiwe Nkabinde (voce)
Sbusiso Shozi (voce)

NUOVO ALLESTIMENTO
Co-commissionato da The Royal Dramatic Theater di Svezia e Les Théàtres de la Ville de
Luxembourg
Produzione esecutiva THE OFFICE performing arts + film




Un teatro di figure. Ma non marionette o burattini o disegni animati. Nello spettacolo immaginato da Calder, Work in Progress, ci sono anche uomini che fanno cerchi sul palcoscenico correndo in bicicletta, e nel visionario dramma di una coscienza interiore figurato da Kentridge, Waiting for the Sibyl, appaiono uomini e donne che parlano e che cantano. Divide i due spettacoli lo spazio di quasi 50 anni, 1968-2019. Abbastanza per fingersi, come si va dicendo, e da qualcuno anche con soddisfazione, che le avanguardie sono morte, non esistono più. Ecco invece l’idea geniale del Teatro dell’Opera di Roma di accostare allo storico Work in Progress di Alexander Calder, voluto dall’allora direttore del teatro Massimo Bogianckino, uno spettacolo, ugualmente figurativo, visionario, di William Kentridge, Waiting for the Sibyll. Kentridge ci aveva già sorpreso e fatto ammirare a Roma con le figure disegnate sugli spalti del Lungotevere, ma destinate col tempo a svanire, sorta di rivisitazione negli anni 2000 della meraviglia barocca, che proprio a Roma era nata: Bernini costruì in legno la facciata di Palazzo Farnese, la collocò davanti al palazzo e la fece bruciare di modo che chi guardava avesse l’impressione che bruciasse il palazzo. La sorpresa barocca è costruita sul sublime, quella contemporanea sulla fatuità, l’effimero barocco è una riflessione sulla fugacità del tempo e delle cose, l’effimero di oggi al massimo riflette sulla nostra insignificanza. L’effimero delle avanguardie novecentesche, a cominciare dal Dada, ma soprattutto poi nel secondo Novecento, e in particolare nei decenni dagli ultimi anni ‘50 agli ultimi ‘70, in contrasto con questa fatuità, rappresentava invece la mutevolezza dell’essere, perfino nel cinema: 8 e ½ di Fellini, L’eclisse di Antonioni, ultimo stadio, nella sua filmografia, della dissoluzione del racconto. In letteratura c’era Antonio Pizzuto. 

 

Le sculture mobili di Calder, i mobiles (che, si badi, non sono cellulari!), sono già di per sé stessi teatro, figure in movimento. Immaginiamoci allora una serie di scene in cui le figure mostrano sempre nuove disposizioni di questo movimento. A un certo punto compaiono ciclisti con tute attillate variopinte che girano in circolo sulla scena, combinando in diversi modi i circoli. I mobiles, sulla scena, in questo progetto teatrale, assumono aspetto umano, si fanno anche veri corpi umani. Ma niente distingue questi agili corpi di ciclisti dal movimento degli oggetti sospesi che si erano veduti e si rivedono né tanto meno dalla piramide sul cui vertice sta ritto un uomo. Un gioco da bambini, può darsi, come a qualcuno è sembrato o, come sempre, soltanto un gioco, la matrice da cui nascono insieme la scienza e l’arte, e spesso combinandosi. Oppure, se ci sente spaesati, il sogno di un mondo in cui gli oggetti inanimati prendono vita e gli esseri animati si fossilizzano in oggetti. Tutto si allinea, tutto si assimila al solo atto di vedere, ogni cosa, l’oggetto e l’uomo, si fa solo materia di una visione. Come sempre, nella finzione artistica, anche il sentimento più esasperato, la passione più violenta, la figura umana più commovente e sensibile, per figurarsi in immagine d’arte, deve ridursi a materia, oggetto dell’immaginazione. Una donna, seduta accanto a me, esclama, ammirata: ma è poesia! Sì, è proprio poesia. Della poesia, questo spettacolo assorbe, insieme all’imprevedibilità e all’ineffabilità di un pensiero che non segue le regole della logica, l’evidenza della realtà, una realtà più forte, più evidente, se così si può dire, di qualunque realtà. Bravissimi tutti, e straordinario il lavoro di Filippo Crivelli, più mago che regista, fedele alunno di Calder, nel riallestire e reinventare uno spettacolo di 50 anni fa, per farcene assaporare fino in fondo non solo la stupefacente bellezza, ma anche l’attualità e, anzi, l’insospettata modernità. Già: la modernità! Chi lo direbbe, dopo 50 anni, che quegli anni ‘60 ci sono contemporanei. Come erano vive, infatti, le avanguardie degli anni ‘60! Altro che sorpassate, ammuffite, dogmatiche. E come appaiono efficaci, stimolanti le musiche registrate su nastro di Aldo Clementi, Bruno Maderna e Niccolò Castiglioni. Ci sarebbe tutto un discorso da fare sull’avanguardia, soprattutto sull’avanguardia musicale, su Nono, su Boulez, su Maderna, su Stockhausen, su Kagel, su Xenakis, ma non solo come anticipatrice di ciò che verrà, bensì, e davvero soprattutto, come luogo aperto all’invenzione, alla sperimentazione, al rifiuto della ripetizione del già ripetuto centinaia di volte, alla fantasia, al piacere del gioco e, diciamolo pure, al tuffo nel nuovo, quel nuovo senza il quale, per Baudelaire, non c’è poesia: tuffarsi nel gorgo, inferno o paradiso, che importa? cercare il nuovo, senza paura di perdersi o di dannarsi, ma magari trovando l’insperata salvezza, che dal fango della vita, come un gioco d’alchimista, possa estrarre l’oro della poesia. 

 

Geniale l’idea del team Alessio Vlad e Carlo Fuortes, direttore artistico e sovrintendente del teatro, di affidare a William Kentridge il secondo pannello della serata. Lo spettacolo immaginato da Kentridge, infatti, dopo l’invenzione di Calder, ci arriva non già come una copia, come un riflesso, un’imitazione o, peggio, un’imbarazzato doppione, del gioco spettacolare dei mobiles, ma come una nuova – postmoderna? ci sarebbe molto da dire se il moderno conosca un post – in ogni caso sconvolgente e trascinante impostazione dell’avanguardia, come una riflessione sul segno che costruisce l’azione sul palcoscenico: straordinaria la mano che disegna su un telo in tempo reale una macchina da scrivere, la stessa sulla quale subito prima avevamo udito qualcuno battere ritmicamente le dita. Ecco, le dita vive della mano che battono sulla tastiera della macchina da scrivere sono equiparate alle dita di una mano disegnata che disegna una macchina da scrivere sulla tela. Vengono in mente versi stupendi di Machado:



"Mis ojos en el espejo
son ojos ciegos que miran
los ojos con los que veo".

(I miei occhi nello specchio
sono occhi ciechi che guardano
gli occhi con i quali vedo)

Juan de Mairena, eteronimo di Antonio Machado


Tutto lo spettacolo è una riflessione – in tutti sensi - sul segno che si fa azione teatrale. Kentridge chiama a collaborare gli amici artisti sudafricani che rielaborano musiche e danze e giochi verbali della tradizione. Si ascoltano voci inimitabili, sublimi, si vedono gambe e piedi che danzano una danza frenetica, eterea, irriducibile a misura di battuta che non sia il ritmo di canti e di preghiere rituali. Si vedono le gambe e la registrazione visiva delle gambe proiettata sulla tela. Sempre questo gioco doppio della realtà e della sua riproduzione. Che poi è lo gioco aspetto di arte e vita. Ma – si badi! - non perché l’arte imiti o riproduca la vita, bensì perché la rispecchia in altra forma, quella appunto dell’arte. La scena è una biblioteca immaginaria di pagine sparse, staccate dal libro, disperse, incollate su un muro. Appese al muro, appunto, allora una folata di vento le solleva, il vento cessa e le pagine sollevate si ricollocano nel punto in cui stavano. I costumi sembrano comporre figurazioni stilizzatissime, si direbbe astratte, ma sono piuttosto segni di ciò che dovrebbero essere, tutto un ricchissimo repertorio di figurazioni delle tradizioni bantu. La danza dei ballerini, il canto dei cantanti, la dizione delle frasi che si leggono, in inglese, un inglese bellissimo, musicalissimo, proiettate su una tela, frammenti di fogli di libri, una biblioteca che si sfascia e si ricompone. E i fogli richiamano, certo, i mobiles di Calder, come scrive lo stesso Kentridge nel programma di sala. Solo come ricordo, però, come allusione: in realtà richiamano se mai l’esilità, la fragilità del nostro stare al mondo di oggi. Non del nostro stare al mondo oggi, ma del nostro stare al mondo nel mondo di oggi, così sfuggente, inafferrabile,un mondo insicuro di sé stesso e attratto da ciò che evapora più che da ciò che resta. Le figurazioni mobili di Calder rinviano invece a un mondo relativamente stabile, come possa essere stabile un mondo che si trasforma, sul quale muoversi è tuttavia un gioco divertente e gratificante. Kentridge non spera più che qualcosa di stabile possa ricomporsi nel mondo di oggi.



Kentridge confessa che la prima intuizione gli è venuta dall’ultimo canto del Paradiso di Dante, quando Dante, parlando della sua memoria del viaggio nell’oltretomba e della propria visione di Dio, dice che il ricordo di quella visione svanisce e che le parole pertanto non possono né rievocarla né ritenerla:

Così la neve al sol si disigilla,
così al vento nelle foglie lievi
si perdea la sentenza di Sibilla.

La Sibilla Cumana diventa, nell’immaginazione e nella rievocazione di Kentridge, una profetessa bantu, la sua voce scende nelle viscere della terra a evocare i trapassati, perché svelino a chi è sopravvissuto alla loro scomparsa il destino di chi ancora vive e non possiede la loro sapienza, tanto meno la loro preveggenza. Ecco i fogli della Sibilla – foglie dei libri che si levano ad ogni fiato di vento. E questi fogli suggeriscono inquietanti pronostici, angosciose premonizioni. Davanti ai notri occhi, nelle nostre orecchie sfila tutta la nostra cultura, orale e scritta, che dapprima si sfigura, ma poi trapassa e si perde. “Mi ricorda qualcosa che non riesco a ricordare. Inutile scampare al proiettile. Inutile rinascere. Non trovare il proprio destino. Resta in attesa di dèi migliori”.



Dino Villatico

Nessun commento:

Posta un commento