TEATRO
DELL'OPERA DI ROMA
WORK
IN PROGRESS
di
Alexander Calder
immagini
teatrali coordinate da Giovanni Carandente
e
presentate da Filippo Crivelli
su
musiche elettroniche di Niccolò Castiglioni, Aldo Clementi, Bruno
Maderna
ALLESTIMENTO
TEATRO DELL’OPERA DI ROMA
WAITING
FOR THE SIBYL
ldeazione
e regia di WILLIAM KENTRIDGE
Con
musica composta ed elaborata da Nhlanhla Mahlangu e Kyle Shepherd
Regista
associato NhlanhlaMahlangu
Proiezioni
Zana Marovié
Costumi
Greta Goiris
Scene
Sabine Theunissen
Luci
Urs Schiinebaum
Video
Du§ko Marovié
lngegnere
del suono Gavan Eckhart
Sartoria
Emmanuelle Erhart
INTERPRETI
Nhlanhla
Mahlangu {voce e danza)
Xolisile
Bongwana (voce e danza)
Thulani
Chauke (danza)
Teresa
Phuti Mojela (danza)
Thandazile'Sonia'
Radebe {danza)
Ayanda
Nhlangothi (voce)
Zandile
Hlatshwayo (voce)
Siphiwe
Nkabinde (voce)
Sbusiso
Shozi (voce)
NUOVO
ALLESTIMENTO
Co-commissionato
da The Royal Dramatic Theater di Svezia e Les Théàtres de la Ville
de
Luxembourg
Produzione
esecutiva THE OFFICE performing arts + film
Un
teatro di figure. Ma non marionette o burattini o disegni animati.
Nello spettacolo immaginato da Calder, Work in Progress, ci sono
anche uomini che fanno cerchi sul palcoscenico correndo in
bicicletta, e nel visionario dramma di una coscienza interiore
figurato da Kentridge, Waiting for the Sibyl, appaiono uomini e donne
che parlano e che cantano. Divide i due spettacoli lo spazio di quasi
50 anni, 1968-2019. Abbastanza per fingersi, come si va dicendo, e da
qualcuno anche con soddisfazione, che le avanguardie sono morte, non
esistono più. Ecco invece l’idea geniale del Teatro dell’Opera
di Roma di accostare allo storico Work in Progress di Alexander
Calder, voluto dall’allora direttore del teatro Massimo
Bogianckino, uno spettacolo, ugualmente figurativo, visionario, di
William Kentridge, Waiting for the Sibyll. Kentridge ci aveva già
sorpreso e fatto ammirare a Roma con le figure disegnate sugli spalti
del Lungotevere, ma destinate col tempo a svanire, sorta di
rivisitazione negli anni 2000 della meraviglia barocca, che proprio a
Roma era nata: Bernini costruì in legno la facciata di Palazzo
Farnese, la collocò davanti al palazzo e la fece bruciare di modo
che chi guardava avesse l’impressione che bruciasse il palazzo. La
sorpresa barocca è costruita sul sublime, quella contemporanea sulla
fatuità, l’effimero barocco è una riflessione sulla fugacità del
tempo e delle cose, l’effimero di oggi al massimo riflette sulla
nostra insignificanza. L’effimero delle avanguardie novecentesche,
a cominciare dal Dada, ma soprattutto poi nel secondo Novecento, e in
particolare nei decenni dagli ultimi anni ‘50 agli ultimi ‘70,
in contrasto con questa
fatuità, rappresentava
invece la
mutevolezza dell’essere, perfino
nel cinema: 8 e ½ di Fellini, L’eclisse
di Antonioni, ultimo stadio, nella sua filmografia, della
dissoluzione del racconto.
In letteratura c’era
Antonio Pizzuto.
Le
sculture mobili di Calder, i mobiles (che, si
badi,
non sono cellulari!), sono già di per sé stessi teatro, figure in
movimento. Immaginiamoci
allora una serie di scene in cui le figure mostrano sempre nuove
disposizioni di questo movimento. A un certo punto compaiono ciclisti
con tute attillate variopinte che girano in circolo sulla scena,
combinando in diversi modi i circoli. I mobiles, sulla
scena, in questo progetto teatrale,
assumono aspetto umano, si fanno anche
veri corpi umani. Ma
niente distingue questi
agili corpi di ciclisti
dal movimento degli oggetti sospesi che si erano veduti
e si rivedono né tanto
meno dalla piramide sul
cui vertice sta ritto un uomo. Un gioco da bambini, può
darsi, come
a qualcuno è sembrato
o, come
sempre, soltanto
un gioco, la matrice da cui nascono insieme la scienza e l’arte, e
spesso combinandosi.
Oppure, se ci sente
spaesati, il sogno di
un mondo in cui gli oggetti inanimati prendono vita e gli esseri
animati si fossilizzano in oggetti. Tutto si allinea, tutto
si assimila
al solo atto di vedere, ogni cosa, l’oggetto
e l’uomo, si
fa solo materia di una
visione. Come sempre,
nella finzione artistica, anche il sentimento più esasperato, la
passione più violenta, la figura umana più commovente e sensibile,
per figurarsi in immagine d’arte, deve ridursi a materia, oggetto
dell’immaginazione. Una
donna, seduta accanto a me, esclama, ammirata:
ma è poesia! Sì, è
proprio
poesia. Della
poesia, questo
spettacolo assorbe,
insieme
all’imprevedibilità
e all’ineffabilità
di un pensiero che non segue le regole della logica, l’evidenza
della realtà, una realtà più forte, più evidente, se così si può
dire, di qualunque realtà.
Bravissimi tutti, e straordinario il lavoro di Filippo Crivelli, più
mago che regista, fedele alunno di Calder,
nel
riallestire e reinventare uno spettacolo di 50 anni fa, per farcene
assaporare fino in fondo non
solo la stupefacente bellezza, ma anche
l’attualità e, anzi,
l’insospettata
modernità. Già: la modernità! Chi
lo direbbe, dopo 50 anni, che quegli anni ‘60 ci sono
contemporanei. Come
erano vive, infatti,
le avanguardie degli anni ‘60! Altro
che sorpassate, ammuffite, dogmatiche. E
come appaiono efficaci, stimolanti le musiche registrate
su nastro di Aldo
Clementi, Bruno Maderna e Niccolò Castiglioni. Ci
sarebbe tutto un discorso da fare sull’avanguardia, soprattutto
sull’avanguardia musicale, su Nono, su Boulez, su Maderna, su
Stockhausen, su Kagel, su Xenakis, ma
non solo come anticipatrice di ciò che verrà, bensì, e davvero
soprattutto, come luogo aperto all’invenzione, alla
sperimentazione, al rifiuto della ripetizione del già ripetuto
centinaia di volte, alla fantasia, al piacere del gioco e, diciamolo
pure, al tuffo nel nuovo, quel nuovo senza il quale, per Baudelaire,
non c’è poesia: tuffarsi nel gorgo, inferno o paradiso, che
importa? cercare il nuovo, senza paura di perdersi o di dannarsi, ma
magari trovando l’insperata salvezza, che dal fango della vita,
come un gioco d’alchimista, possa
estrarre l’oro della
poesia.
Geniale
l’idea del team
Alessio Vlad e Carlo Fuortes, direttore artistico e sovrintendente
del teatro, di affidare a William
Kentridge il
secondo pannello della serata. Lo spettacolo immaginato da Kentridge,
infatti,
dopo l’invenzione di
Calder, ci arriva
non già
come una copia, come un
riflesso, un’imitazione
o,
peggio,
un’imbarazzato
doppione, del gioco
spettacolare dei mobiles,
ma come una nuova – postmoderna?
ci sarebbe molto da dire se il moderno conosca un post – in
ogni caso sconvolgente e trascinante
impostazione dell’avanguardia, come una riflessione sul segno che
costruisce l’azione sul palcoscenico: straordinaria la mano che
disegna su un telo in tempo reale una macchina da scrivere, la stessa
sulla quale subito
prima avevamo udito
qualcuno battere ritmicamente le dita. Ecco, le dita vive della mano
che battono sulla tastiera della macchina da scrivere sono equiparate
alle dita di una mano disegnata che disegna una macchina da scrivere
sulla tela. Vengono in
mente versi stupendi di Machado:
"Mis ojos en el espejo
son ojos ciegos que miran
los ojos con los que veo".
(I miei occhi nello specchio
sono occhi ciechi che guardano
gli occhi con i quali vedo)
Juan de Mairena, eteronimo di Antonio Machado
Tutto
lo spettacolo è una riflessione – in
tutti sensi - sul segno
che si fa azione teatrale. Kentridge
chiama a collaborare gli amici artisti sudafricani che rielaborano
musiche e danze e giochi verbali della tradizione. Si ascoltano voci
inimitabili, sublimi, si vedono gambe e piedi che danzano una danza
frenetica, eterea, irriducibile a misura di battuta che non sia il
ritmo di canti e di preghiere rituali. Si
vedono le gambe e la registrazione visiva delle gambe proiettata
sulla tela. Sempre
questo gioco doppio della realtà e della sua riproduzione. Che poi è
lo gioco aspetto di arte e vita. Ma – si badi! - non perché l’arte
imiti o riproduca la vita, bensì perché
la rispecchia in altra forma, quella appunto dell’arte. La
scena è una biblioteca immaginaria di pagine sparse, staccate
dal libro, disperse, incollate su un muro.
Appese
al muro, appunto,
allora una folata di
vento le solleva, il
vento cessa e le pagine
sollevate si
ricollocano nel punto in cui stavano.
I costumi sembrano comporre figurazioni stilizzatissime, si
direbbe astratte, ma
sono piuttosto segni di
ciò che dovrebbero essere, tutto un ricchissimo repertorio di
figurazioni delle
tradizioni bantu. La
danza dei ballerini, il canto dei cantanti, la dizione delle frasi
che si leggono, in inglese, un
inglese bellissimo, musicalissimo,
proiettate su una tela, frammenti di fogli di libri, una biblioteca
che si sfascia e si ricompone. E
i fogli richiamano, certo,
i mobiles di Calder, come scrive lo stesso Kentridge nel programma di
sala. Solo come
ricordo, però, come
allusione: in realtà richiamano se
mai l’esilità, la
fragilità del nostro stare al mondo di oggi. Non del nostro stare al
mondo oggi, ma del nostro stare al mondo nel mondo di oggi, così
sfuggente, inafferrabile,un
mondo insicuro di sé stesso e
attratto da ciò che evapora più che da ciò che resta. Le
figurazioni mobili di Calder rinviano invece a un mondo relativamente
stabile, come possa essere stabile un mondo che si trasforma, sul
quale muoversi è tuttavia
un gioco divertente e
gratificante.
Kentridge non
spera più che qualcosa di stabile possa ricomporsi nel mondo di
oggi.
Kentridge
confessa
che la prima intuizione gli è venuta dall’ultimo canto del
Paradiso di Dante, quando Dante, parlando della sua memoria del
viaggio nell’oltretomba e della propria visione di Dio, dice che il
ricordo di quella visione
svanisce e
che le parole pertanto
non possono né
rievocarla né
ritenerla:
Così
la neve al sol si disigilla,
così
al vento nelle foglie lievi
si
perdea la sentenza di Sibilla.
La
Sibilla Cumana diventa, nell’immaginazione
e nella rievocazione di Kentridge,
una profetessa bantu, la sua voce scende nelle viscere della terra a
evocare i trapassati, perché svelino a
chi è sopravvissuto alla loro scomparsa il
destino di chi ancora
vive e non possiede la
loro sapienza, tanto meno la loro preveggenza.
Ecco i fogli della
Sibilla – foglie dei
libri che si levano ad ogni fiato di vento. E questi
fogli suggeriscono
inquietanti pronostici, angosciose premonizioni. Davanti
ai notri occhi, nelle nostre orecchie sfila tutta
la nostra cultura, orale e scritta, che dapprima
si sfigura, ma poi
trapassa e
si perde. “Mi ricorda
qualcosa che non riesco a ricordare. Inutile scampare al proiettile.
Inutile rinascere. Non
trovare il proprio destino. Resta
in attesa di dèi migliori”.
Dino
Villatico
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