La trascrizione di musiche da
uno strumento a un altro, dalla voce allo strumento, anima la vita
musicale di tutte le culture. Si può perfino dire che fu strumento
di modificazione e ristrutturazione delle forme musicali. Alcune
inventandole di sana pianta. Si pensi alle trascrizioni organistiche
trecentesche della Messa di Machaut e alle trascrizioni
rinascimentali per liuto e altri strumenti o complessi di strumenti
di chansons francesi e di madrigali. Nasce anzi proprio da queste
trascrizioni la consapevolezza di una diversità intrinseca della
scrittura musicale per strumento. Canzoni e ricercari sono un primo
tassello verso un’autonoma scrittura strumentale. E spesso
capolavori non inferiori alle fonti vocali da cui derivano e dalle
quali spesso divergono inventando nuovi adattamenti della linea
vocale alle esigenze dello strumento. La trascrizione percorre dunque
tutta la storia della musica, sia occidentale sia di altre culture. E
non ha solo funzione divulgativa, come in parte per esempio la
trascrizione per banda, nell’Ottocento, di brani musicali famosi,
soprattutto del melodramma. La trascrizione, infatti, stimola
adattamenti, trasformazioni, genera spesso nuove forme.
E
non riguarda solo la musica. In ogni arte esiste la pratica di
copiare, trascrivere, variare. Si pensi ai disegni, alle copie di
pitture importanti, che suppliscono la funzione della fotografia,
quando ancora non c’era, ma sviluppano anche tecniche pittoriche
nuove, impostazioni costruttive nuove. O in letteratura, lo stimolo
di un’opera fortunata, il romanzo epistolare francese, per esempio,
spinge Goethe a scrivere il Werther, e il Werther, in Italia, genera
sia lo Jacopo Ortis di Foscolo, sia i Pensieri d’amore di Monti. E’
dunque snobismo sterile storcere il naso, come alcuni ancora fanno,
alle trascrizioni di Liszt. Come se non esistessero, prima, le
trascrizioni bellissime di Bach da Vivaldi, talora perfino superiori
all’originale trascritto. Dalle trascrizioni dei Capricci di
Paganini, Liszt ebbe l’idea di svilupparle in ciò che poi
divennero gli studi trascendentali (titolo italiano è però
fuorviante, il titolo francese originale dice Études d'exécution
transcendante, studi di esecuzione trascendente). Liszt era troppo
compositore, troppo curioso di sperimentare nuovi territori musicali,
per arrestarsi alla pura e semplice trascrizione. E si prodiga in
parafrasi e variazioni oltre che in trascrizioni vere e proprie. Fu,
tra i romantici, quello che forse penetrò più di ogni altro la
novità dell’impostazione compositiva di Beethoven, allievo del suo
allievo Czerny. Di Beethoven Liszt ha trascritto per pianoforte
tutt’e nove le sinfonie. Alla Nona ha dedicato il lavoro più
lungo. E’ una trascrizione particolare, non solo perché la Nona
Sinfonia beethoveniana è scritta per un organico numeroso,
orchestra, coro e voci soliste, ma per l’inaudita complessità
della scrittura. Liszt capisce subito che un lavoro letterale di
trascrizione è impossibile. La partitura va totalmente reinventata
per adattarla al pianoforte.
La
scrittura di Beethoven è attentissima al mezzo adoperato,
pianoforte, o altro strumento, quartetto, orchestra, voci. Ma non nel
senso con cui di solito è intesa, soprattutto dagli interpreti, la
specificità dello strumento. L’interprete tende, per lo più, a
subordinare la musica scritta alle prestazioni dello strumento, la
giudica più o meno adatta, più o meno caratteristica, a seconda
degli effetti strumentali o vocali, se si tratta della voce, che
possa ricavarne. Subordina insomma la scrittura musicale alle
prestazioni dello strumento. E solo in tal senso giudica una musica o
pianistica, o vocale, o violinistica, e così via.
Ci
sono poi compositori, anche geniali, che prestano una grande
attenzione a questo rapporto tra la scrittura e la sua realizzazione
strumentale. Tra i sommi: Rossini e Chopin. Rossini scrive anche
musiche di ardua esecuzione per le voci, ma, come prima di lui Handel
(e non invece Bach), non viola mai i supposti limiti di ciò che
generalmente s’intende per la natura dello strumento, in questo
caso la voce. Chopin scava e sperimenta sul pianoforte la
realizzazione di una scrittura musicale totalmente nuova. E crea
così, sul pianoforte, con il pianoforte, per il pianoforte, un mondo
musicale totalmente nuovo e d’inaudita complessità strutturale.
Non
così Beethoven, e per certi aspetti nemmeno Liszt, anche se la fama
fu di virtuoso del pianoforte, assai più di Chopin. Ma tale
apparente indifferenza alla natura dello strumento non va intesa nel
senso con cui generalmente si dice che Beethoven è insensibile alla
natura dello strumento, alle sue specificità. Perché invece
Beethoven lo strumento lo conosce bene, e profondamente, e sa
sfidarne le possibilità assai più di quanti non osano superarne
quelli che si ritengono, a torto, i suoi limiti o quella che si
giudica, ugualmente a torto, la sua natura. Si dice, e si ripete
spesso, per esempio, soprattutto da parte degli italiani, inguaribili
patiti del bel canto, che anzi ritengono l’unica forma “naturale”
di canto, che Beethoven non sa scrivere per la voce. Si dice, e si
scrive: per esempio, nella sezione dedicata al teatro del DEUMM, alla
voce Fidelio. Una voce dilettantesca, che irrita qualunque studioso
serio di musica. Niente di più erroneo, infatti, di ciò che vi si
legge, che cioè Beethoven non conoscesse la fragilità dello
strumento delicato che sarebbe la voce umana. Quasi testuale: una
bestemmia critica, un infondato giudizio di storia musicale.
Beethoven,
infatti, non scrive contro la voce, ma nemmeno contro il pianoforte,
o contro il violino. Beethoven usa la voce, il pianoforte, il violino
per realizzare idee musicali pensate per la voce, il pianoforte e il
violino, ma non nel senso di un’esecuzione comoda e abituale, anche
nelle agilità e nei virtuosismi, che pure abbondano. Beethoven
chiede allo strumento di esibire lo sforzo, la difficoltà, la novità
del pensiero musicale, di far sentire che la musica pensa. La voce è
spinta fino allo strillo, il pianoforte esaspera la sua natura
percussiva (in certi casi sembra prefigurato perfino Bartók),
il violino deve mostrare lo sforzo di mantenersi cantabile
anche in registri
impervi, il violoncello è spinto nei quartetti a
suonare all’unisono con
il violino. Il che non impedisce a
Beethoven di abbandonarsi
anche a
stupende
perorazioni
liriche, di tuffarsi nel
piacere di un canto
dispiegato: il tema delle variazioni dell’ultimo tempo della Sonata
op. 109, l’adagio del concerto per violino, la cavatina del
quartetto op. 130. Canto
di una bellezza che ha pochi eguali in tutta la storia della musica
di Occidente.
Da
giovane guarda a Haydn e Mozart, non come a
modelli stilistici, ma
come a
maestri d’invenzione musicale, architetti di nuove costruzioni
musicali. E a chi doveva guardare, poi?
Haydn e Mozart erano i suoi contemporanei più moderni, l’avanguardia
di allora, e Beethoven voleva essere musicista d’avanguardia. Ma in
ogni caso Haydn e Mozart erano musicisti contemporanei. Si dice e si
scrive una sciocchezza quando si dice e si scrive che il giovane
Beethoven “imita” Haydn e Mozart, come se fossero musicisti del
suo passato e non della sua contemporaneità, come
se non fossero anzi i
musicisti più moderni della sua contemporaneità. E tuttavia li
scavalca, o, forse, meglio, li prosegue, conduce alle estreme
conseguenze principi costruttivi che già trova impiegati nelle loro
opere, per esempio il continuo lavoro di elaborazione
di un’idea musicale dalla
partenza semplice, se non addirittura semplicissima. E
la necessità di non rinunciare mai a una costruzione
contrappuntistica delle parti. Nemmeno quando, apparentemente c’è
una melodia sostenuta da un accompagnamento elementare di arpeggi o
di accordi. L’accompagnamento, infatti, non è mai tale, ma è
sempre concepito come una voce in contrappunto (questo accade anche
in Chopin! e il modello di entrambi è Bach).
Liszt
di questa complessità di scrittura è consapevole. Anche perché, in
parte, è la complessità pure
della sua musica. La trascrizione della Nona Sinfonia raccoglie
dunque
le fila di tutto questo intricato e fitto processo musicale. Liszt
accantona l’idea di una trascrizione pedissequa, letterale, e anche
per questo abbandona la prima stesura per due pianoforti e si
concentra su un’unica tastiera. Ma per reinventare da capo tutta la
sinfonia, per scriverla come se la musica fosse destinata al
pianoforte. Nessun particolare è sacrificato. Ma tutta la sinfonia
acquista una altro, e coerentissimo, aspetto. Comune alla partitura
orchestrale e alla scrittura pianistica
è la sfida a oltrepassare i limiti dello
strumento, dell’orchestra
come del pianoforte, ma
insieme a valorizzarne proprio per questo le inusitate e fino allora
insondate risorse.
Maurizio
Baglini ha scelto
questa trascrizione per inaugurare, al Teatro di Villa Torlonia, per
Roma Tre Orchestra, istituzione musicale dell’Università Roma Tre,
un breve festival dedicato a Beethoven, nell’ambito
di una manifestazione che si chiama Maurizio Baglini Project, e
quest’anno è il Maurizio Baglini Project 2019.
Nel prossimo anno si celebreranno i 250 anni dalla nascita di
Beethoven, Baglini anticipa i festeggiamenti. La partitura
orchestrale della Nona è per il direttore d’orchestra un’impresa
da far tremare le vene e i polsi. Ma non è da meno, e forse più, la
trascrizione pianistica lisztiana. Per un’ora e un quarto Baglini
si è
confrontato con una musica non solo dalla scrittura complessissima,
ma densa degli infiniti messaggi che il tempo vi ha immesso. Ogni
volta che ascolto la Nona penso a quest’uomo solo, sofferente,
sordo, che ha vissuto come una catastrofe irreparabile il
bombardamento di Vienna da parte delle truppe francesi, proprio quei
francesi da lui ammirati che avrebbero dovuto diffondere nel mondo la
libertà, l’uguaglianza, la fraternità. Beethoven non
dimenticò mai la sue simpatie giacobine.
Abbracciatevi,
Milioni! Questo è il
bacio di tutto il Mondo.
Ogni uomo diventa fratello. Così scrive Schiller e così canta
Beethoven. Questo canto è oggi l’Inno dell’Unione Europea. Che
sembra essersene dimenticata. Libertà! Uguaglianza! Fraternità! Per
Beethoven non sono ideali, ma programmi politici. Dovrebbero esserlo
anche per l’Europa. Nella trascrizione pianistica mancano le
parole. Ma trasudano ad ogni battuta. Baglini esaspera lo sforzo di
sfidare i limiti dello strumento. I fortissimi suonano quasi
sgarbati, quasi pugni sulla tastiera, i pianissimi si estenuano fino
ad apparire impercepibili. Sembra che così suonasse Beethoven,
esagerando ed esasperando gli estremi. Ma due aspetti risaltano,
nell’interpretazione di Baglini, l’intricatissima struttura
polifonica che percorre tutta la partitura, e l’irrefrenabile
matrice ritmica che dà vita a tutte le idee musicali. Naturalmente,
e giustamente, è un trionfo. Ma, nonostante la fatica, il sudore che
cola dalla fronte, Baglini ha concesso un bis, un’altra
trascrizione, di Busoni da Bach, il Corale per organo “Ich
ruf’ zu dir, Herr Jesu Christ”. E tutte le tessere musicali
tornavano nella loro sede primigenia.
Che dire di tanta
bellezza e di così profonda commozione? Sublime, come il Dio che
invoca. Anche per chi non è credente.
Le
giornate continuano con l’interpretazione delle sonate e delle
variazioni per pianoforte e violoncello, al violoncello la
sensibillisima Silvia Chiesa, e gli ultimi tre concerti per
pianoforte e orchestra, il terzo, il quarto e il quinto. Con
Romatreorchestra, direttoreMassimiliano Caldi, Axel Trolese al
pianoforte per il Quarto Concerto, a cui è abbinata la bellissima,
sconvolgente Quarta Sinfonia, Carlo Guaitoli per il Terzo Concerto, e
di nuovo Baglini per il Quinto, l’Imperatore. Ma di ciò si dirà e
si scriverà dopo l’ascolto.
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