Roma, Globe Theatre
Riccardo
III
Regia
di Marco Carniti
30
agosto – 15 settembre 2019
Personaggi
e interpreti
Riccardo: Maurizio
Donadoni
Duca di Buckingham: Gianluigi
Fogacci
Regina Elisabetta: Antonella
Civale
Regina Margherita: Melania
Giglio
Lady Anna: Federica Bern
Duchessa di York: Paila Pavese
Lord Hastings: Patrizio Cigliano
Re Edoardo IV: Nicola D’Eramo
Giorgio, duca di Clarence: Tommaso
Cardarelli
Lord Rivers: Raffaele
Latagliata
Margherita: Zemka Zahirovic
Edoardo: Sebastian Gimelli
Morosini
Riccardo: Dario Guidi
Thomas Stanley: Matteo Milani
Sir Ratcliff: Diego Facciotti
Sir Catesby: Mauro Santopietro
Sir Brakenbury: Roberto Fazioli
Sir Richmond: Tommaso Ramenghi
Sir Tyrrel: Tommaso Ramenghi
Primo sicario: Mauro Santopietro
Secondo sicario: Matteo Milani
Cardinale: Diego Facciotti
Vescovo Ely: Tommaso Ramenghi
Scrivano: Tommaso Cardarelli
Sindaco: Nicola D’Eramo
Guardia e Cittadino: Alessio
Sardelli
Elisabetta: Zemka Zahirovic
Soldati e cittadini:Tommaso Cardarelli, Patrizio Cigliano, Diego Facciotti, Roberto Fazioli, Gianluigi Fogacci, Sebastian Gimelli Morosini, Dario Guidi, Raffaele Latagliata, Matteo Milani, Tommaso Ramenghi, Mauro Santopietro, Alessio Sardelli
Regia: Marco Carniti
Aiuto regia: Maria Stella
Taccone
Traduzione e adattamento: Marco
Carniti
Musiche: David Barittoni
Costumi: Maria Filippi
Direzione tecnica: Stefano
Cianfichi
Disegno luci: Umile Vainieri
Disegno audio: Franco Patimo
Assistente alla regia: Francesco
Lonano
Scene: Fabiana Di Marco
Assistente costumista: Donatella
Boschetti
Maestro d'armi: Renzo Musumeci
Greco
Vocal Coach: Francesca della
Monica
Il
Riccardo III ha una sola scena in prosa, la IV del primo atto, in cui
dialogano tra loro gli assassini di Clarence (a dire il vero ci sono
cinque righe di prosa anche all’inizio della seconda scena del
secondo atto, ma sembrano quasi indicazioni di scena per precisare in
che ora ci si trovi). La prosa colloca i due personaggi, due sicari,
al rango infimo tra i personaggi, e ne tratteggia derisoriamente le
figure, comiche, non tragiche: la loro malvagità è casuale, non è
metafisica come quella di Riccardo. Nella tetralogia storica Re
Giovanni e Riccardo II sono drammi scritti invece, interamente in
versi. Enrico IV ha ampi brani di prosa, soprattutto quando è in
scena Falstaff. Riccardo III si colloca dunque a metà strada, tra Re
Giovanni ed Enrico IV, con due sole scena scritte in parte – una
breve parte - in prosa.
Il
rilievo stilistico non è secondario. Shakespeare affronta il tema
del villain, qui un Re criminale, come presupposto di una vera
tragedia classica, senecana, più che come elemento di un affresco
storico o del quadro complesso che offre la scena della vita, con una
varietà illimitata di personaggi (anche nelle tragedie, sublimi,
della maturità: Re Lear, Antonio e Cleopatra, tra le più
esplicite). Ma Riccardo III è anche una rappresentazione
monomaniacale di un’ossessione, e in questo assomiglia a Riccardo
II. Offrono, entrambi i drammi, grande spazio all’esibizione di un
attore dominante, un mattatore. Tragico, cupo, in Riccardo III;
lirico, “melaconico” (nel senso della malattia dell’epoca, la
malinconia, oggi diremmo la depressione), in Riccardo II. Il male, in
Riccardo III, acquista perfino visibilità fisica. Shakespeare fa di
Riccardo un gobbo, un “aborto”, dicono i suoi nemici, ma anche
lui stesso, un essere deforme. Il re storico non aveva la gobba. Ma
la deformità serve a Shakespeare per tratteggiare anche
esteriormente, teatralmente, una deformità interiore. Che anzi, in
qualche punto, lo stesso Riccardo sembra imputare proprio alla sua
deformità fisica, come se alla Natura che lo ha sputato deforme nel
mondo egli non potesse che corrispondere con una malvagità uguale. E
qui il discorso si fa inquietante, tipicamente shakespeariano, come
se il male avesse origini materiali nella natura corrotta, in un
mondo che ha perso il suo sesto,ch’è fuori dei cardini, come dirà
Amleto.
Il
viallain, personaggio tipico del teatro elisabettiano, qui
giganteggia in mezzo alle sue vittime, si fa quasi denuncia di un
disordine della Natura. Non tutte uccise, le vittime, ma se donne,
raggirate, stuprate. O violate nei loro affetti più intimi. Al punto
di renderle nemiche le une alle altre.
“Thou
didst usurp my place, and dost thou not
Usurp
the just proportion of my sorrow?”
dice
la Regina Margherita alla Regina Elisabetta (non hai tu usurpato il
mio posto, e non usurpi la giusta proporzione del mio dolore?), nella
terribile scena quarta del quarto atto, quando si assiste
all’assassinio dei due principi, figli di Elisabetta.
Riccardo
è una macchina che stritola chiunque gli si metta sottomano. Ma la
sua malvagità non è che l’amplificazione del male che anche gli
altri hanno compiuto, o, se non compiuto, desiderato. Come sempre, il
grande drammaturgo porta sulla scena un problema, un dilemma, non la
sua soluzione. Chiunque, se non riconoscersi, certo può intravedere
in Riccardo qualcosa di sé stesso, i propri impulsi negativi,
distruttivi. Shakespeare pretende dal suo pubblico una completa
onestà di coscienza: il giudizio morale non spiega il mondo, non
spiega il male. Ma la sua impietosa, efficace rappresentazione ce lo
fa riconoscere, anche e perfino in noi stessi.
Il
finale è comunque anche un messaggio politico a favore della
dinastia dei Tudor. Con il matrimonio di Henry, conte di Richmond, un
Lancaster (a proposito, l’accento va sulla prima a, Làncaster, e
la sillaba finale è fievole, quasi muta, e in genere è questa la
pronuncia di quasi tutti gli attori: ma perché qualcuno si ostina a
dire Lancàster, facendo oltretutto sentire distintamente l’-er
finale?), con una York, finisce la guerra delle due rose, ed
Elisabetta I, la regina e protettrice di Shakespeare, discende
appunto da quell’Enrico Lancaster duca di Richmond, divenuto Enrico
VII. Mettere dunque in cattiva luce uno York, Riccardo III, rientrava
nella propaganda politica dei Lancaster-Tudor. Ma come sempre, i
grandi poeti, anche di un proposito di propaganda sanno fare grande
poesia. Vergilius docet. E, se del Riccardo II, il tono è lirico,
quasi elegiaco, il tono del Riccardo III è l’imprecazione, la
maledizione (stupenda , quella, anzi stupende, quelle messe in bocca
alla Regina Margherita), l’urlo della violenza, i rantoli dei
condannati a morte, il pianto di chi vede in faccia il proprio
assassino, ma si ribella, si rifiuta di essere ucciso.
E
la violenza è la cifra stilistica che Marco Carniti ha voluto
imprimere a tutta la rappresentazione. Una violenza in cui ci
riconosciamo, e riconosciamo anche mille facce delle vicende di oggi
(la decapitazione di Hastings ricorda certe decapitazioni dell’ISIS),
la rabbia, il rancore degli uni verso gli altri sono la rabbia, il
rancore che sentiamo, vediamo oggi dominare l’Italia, per esempio
nelle donne che imprecano contro la capitana tedesca Carola, a
Lampedusa, ma che corrodono e inquinano, sembra, anche tutto il
mondo. Ora per imprimere allo spettacolo quest’insostenibile
continua, incessante eruzione di violenza, bisogna che la violenza
abbia un ritmo, una gradazione inevitabile, un procedere spaventoso
fino all’esplosione finale in cui tutti azzannano tutti. La scena è
ridotta a una sorta di passerella, una sedia di paralitico, un letto
di tortura, che esce dalla voragine del retroscena, in cui s’apre
la bocca dello scannatoio. Gli attori, reggono, mirabilmente questo
ritmo ossessivo, incalzante. A cominciare dal Riccardo vistosamente
deforme e interiormente multiforme, che passa dal sussurro all’urlo,
dall’insinuazione alla minaccia, dalla seduzione alla violenza,
dalla simulazione alla dissimulazione, di Maurizio Donadoni.
Straordinaria furia o Sibilla maledicente la Regina Margherita di
Melania Giglio, capace di contenere, però, l’irruenza del proprio
odio e l’esacerbazione del dolore anche nel sussurro, nella mezza
voce. La polimorfa amibiguità di Buckingham è splendidamente resa
da Gialuigi Fogacci. Antonella Civale è un’altezzosa e poi
distrutta regina Elisabetta, una fragile e da subito sconfitta Lady
Anna, Federica Bern. Ma andrebbe citata tutta la compagnia, il Re
Edoardo di Nicola D’Eramo, il Clarence di Tommaso Cardarelli, lo
Hastings di Patrizio Cigliano, e tutte le parti della numerosa
compagnia, perché ciò che attrae di questo spettacolo è proprio la
coerenza del tutto, l’omogeneità degli intenti, ciascuno
consapevole del senso del proprio ruolo nell’insieme della
rappresentazione. La sbavatura di qualche singolo e momentaneo
intervento non scalfisce la saldezza dell’insieme, con le repliche
anche qualche incertezza si abolisce. Perché ciò che conquista
subito lo spettatore è il ritmo inflessibile dell’azione, dal
quale non si percepisce nessun momento fuori tempo, nessuna isolata
deviazione. Grande teatro, per un grande testo. Visionarie le luci di
Umile Vainieri. Anche i costumi, di Maria
Filippi, contribuiscono a suggerire un rappresentazione distopica
dell’oggi: anzi, l’incubo distopico della violenza di oggi.
Suggeriscono appena costumi d’epoca elisabettiana, ma esagerati,
incompleti, approssimativi. Immensi verdugali o guardinfante
arieggiano per le donne una sorta di prigione che ne nasconda le
forme. Efficacissimi, invece, nel dare corpo ai corpi della violenza,
negli uomini, l’ingabbiamento attillato del sesso, evidentissimo,
com’era stata evidente nelle donne la prigione. Ma nessuna
filologia della moda, bensì una proiezione dell’imprigionamento
dei corpi, nascosto quello della donna, fasciato l’uomo.
Sorprendenti le scelte musicali di David Barittoni,
la verdiana Forza del destino, l’Anello wagneriano (Valchiria), ma
più sorprendenti ancora i rumori, le percussioni, la violenza sonora
che rispecchia la violenza delle parole. Il pubblico ne è catturato
e applaude anche a scena aperta. Marco Carniti ha tradotto lui stesso
il testo di Shakespeare. E’ una traduzione snella, chiara, con un
ritmo teatrale inesorabile. In bocca agli attori restituisce, almeno
in parte, la straordinaria ricchezza ritmica del testo originale.
Fiano
Romano, 1 settembre 2019
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