La letteraturizzazione
della vita
Nel
1932 il grande linguista e critico letterario Leo Spitzer scrive un breve ma densissimo
saggio sulla Dorotea di Lope de Vega1,
saggio che, al suo solito, non è solo il commento di un capolavoro
letterario, ma l’indagine della natura stessa dello scrivere, di
che cosa sia veramente la letteratura, di che cosa sia fare
letteratura. E conia un’espressione di straordinaria efficacia
critica, die Literarisierung des Lebens, alla lettera: la
Letteraturizzazione della vita. La traduttrice italiana del saggio,
che appare per i tipi di Lithos (Roma, 2015), Maria Borriello,
ricorre a una perifrasi meno ostica: Vita in forma di letteratura.
Più digeribile, forse, dal lettore italiano, ma a mio avviso fa
perdere il senso forte, anche filosofico, di riflessione estetica,
dell’espressione tedesca: la letteraturizzazione della vita. Non si
tratta infatti di trasferire l’esperienza biografica personale in
una forma letteraria, bensì, più radicalmente, di trasformare la
vita stessa in materia letteraria. Viene
in mente un bellissimo aforisma di : “Si
è artisti solo al prezzo di sentire ciò che tutti i non artisti
chiamano “forma” come contenuto.
come “la cosa stessa”. Con ciò ci si ritrova certo in un mondo
capovolto: perché ormai il contenuto diventa qualcosa di meramente
formale – compresa la nostra vita”2.
Ed
è quanto, in fondo, fa ogni scrittore. Roberto Gigliucci, che scrive
la prefazione, lo mette bene in evidenza. Alla base c’è la
consapevolezza della falsità della scrittura rispetto alla verità
della vita, che poi sarebbe la verità del fatto che ogni vita
finisce, che vivere ha in sé intrinseco anche il concetto, anzi il
fatto, di morire, e questa distanza, ch’è anche falsità, della
pagina, dalla vita, e dunque dalla morte, crea una Spannung, una
tensione, tra scrittura e realtà. Tra “l’orrore della morte e lo
splendore del discorso” scrive
Gigliucci.
E
continua: “Sembra non rimanere spazio a una considerazione della
realtà
che non sia sfigurata
dalla
bellezza e dall’orpello sfavillante. Ma proprio perché questa
estetizzazione è in effetti uno sconciamento, risulta evidente che
il poeta barocco (astrazione pericolosa, forse meglio dire Lope)
compie consapevolmente una sublimazione sull’abisso (Spannung),
ritiene di interpretare la realtà della disillusione attraverso
l’artificio spennellato sul materiale infelice”. O, come dice
nel
suo saggio
Spitzer: “La Dorotea di Lope è un ossario di decadenza umana, sul
quale la visione barocca del senso della bellezza ha versato la sua
lucentezza dorata”.
Ma
siamo sicuri che si tratti solo dell’arte barocca? “Eppure qui
risiede il nucleo operativo proprio della poesia cinquecentesca: la
prassi sublimante, se non metafisico-simbolica,
che è un passo verso il moderno in letteratura, a nostro avviso.
Versare
gemme sulle ferite è un modo di riportare la realtà della
lacerazione in un universo letterario, in una estasi di piena
adeguatezza, nient’affatto in una contraddizione d’inadeguatezza”,
conclude
Gigliucci.
Spitzer, all’inizio del saggio, pone un esergo, che è un frammento
di dialogo tra due personaggi della Dorotea: “Clara: ¿Quien
te lo ha dicho? / Marfisa: Yo lo he leido”. (Clara: Chi
te lo ha detto? / Marfisa: Io l’ho letto). Ecco, il punto sta tutto
qui. Ciò ch’è detto non è la realtà della vita, ma appunto la
sua dizione o, più precisamente, la sua scrittura: l’ho letto.
José
Manuel Blecua lo scrive splendidamente nell’Introduzione
all’edizione critica (Madrid, Cátedra,
2013)
dell’ “azione in prosa” di Lope: “Lope
no
podía venir de más lejos: venía del fondo de sí
mismo a contemplarse en puro espectáculo. Desde sus galerías
interiores se asoma a ver pasar al juvenil Lope, convertido en una
criatura de arte, en ese Fernando un poco alocado; pero, de cuando en
cuando, deja oir su voz de viejo, aconsejando o razonando,
impregnando a veces todo de una honda melocolía o de ese fino humor
que no le abandonó ni en los momentos más
desesperados. De aquí deriva eso tono de desengaño y melancólico,
de que después hableremos, que trasmina toda la obra, pero que sólo
al final se deja sentir con toda su gravedad. De aquí también el
fino humor que se delsiza riente, paralelo también a la melancolía.
El humor de un hombre que puede asomarse a su pasado y puede verse,
sin mucha tortura, convertido en un puro espéctaculo de sí mismo.
Y esto es La Dorotea: el espectáculo
que Lope crea consigo mismo y para sí mismo.” (Lope
non
poteva venire da pìù
lontano: veniva
dal fondo di sé stesso per contemplarsi come puro spettacolo. Dalle
sue gallerie interiori si affaccia a vedere passare il Lope
giovanile, convertito in una creatura d’arte, in quel Fernando un
po’ sventato; ma, di quando in quando, lascia udire la propria voce
di vecchio, consigliando o ragionando, impregnando a volte tutto di
una profonda malinconia o di quel fine umorismo
che non lo abbandonò nemmeno nei momenti più disperati. Da qui
deriva quel tono di disinganno e di malinconia, di cui dopo
parleremo, che penetra tutta la sua opera, ma che solo alla fine si
lascia sentire con tutto il suo peso. Da qui anche il
fine umorismo che scivola ridente, parallelo anche alla malinconia.
L’umorismo di un uomo che può affacciarsi al suo passato
e
può vedersi, senza troppa tortura, convertito in un puro spettacolo
di sé stesso.
E
questo è La
Dorotea:
lo spettacolo che Lope crea con sé stesso e per sé stesso).
Lo
spettacolo di sé stesso. Sta qui tutto il nodo dell’operazione
letteraria. Il nodo, anzi, di tutta la letteratura, di ciò che è la
letteratura. In fondo, a pensarci bene, l’operazione che Lope
compie nella Dorotea, rievocando un amore giovanile mai dimenticato,
non è tanto diversa da quella che compie Dante nella Vitta Nuova.
Anche
lì il poeta si affaccia a guardare la propria giovinezza, si direbbe
quasi a guardare il periodo, ormai concluso, della propria
“scapigliatura”.
In
margine: Lope chiama “acción
en prosa”, azione
in prosa, la Dorotea, per sfuggire alla proibizione di scrivere per
il teatro, e di pubblicare teatro, indetta,
per
ordine di Filippo IV,
dalla
Junta de Reformación nel 1625. Di
fatto è
una
commedia in cinque atti o una novella in forma dialogica, alla
maniera della Celestina. Lope
vi rievoca l’amore giovanile mai dimenticato per l’attrice Elena
(leggere: Eléna) Osorio. Amore tempestoso, interrotto e ripreso, in
cui entrano anche mercimoni, cavalieri
danarosi, e il disprezzo per il giovane poeta squattrinato da parte
della madre dell’attrice. Per
questa
madre avida e spietata, che vende la figlia al miglior offerente,
Lope manifesta disprezzo e disgusto, è il personaggio più negativo
dell’opera, l’unico forse senza ripensamenti o pentimenti per la
propria abiezione morale.
Dorotea-Elena è, invece,
un personaggio vivissimo, complesso, modernissimo. Lo spettacolo
della propria vita è messo in scena insieme con disinganno e
distacco, con uno stile fluidissimo, meraviglioso, una prosa degna
del suo contemporaneo Cervantes. Ma resta in bocca l’amaro di una
vita incompiuta, di un amore interrotto, o meglio: finito, come tutti
gli amori, senza spiegazioni e senza colpe, o con colpa di tutti e
il ricordarlo, invece di lenire le ferite, le inacerbisce.
Come scrive lo stesso Lope in quegli anni, per un altro amore finito,
ma questa volta perché la donna, un’altra attrice, muore, e prima
di morire diventa cieca e pazza: ya no tienen lágrimas mis ojos,
non
hanno ormai lacrime i miei occhi.
Oggi
si fa un gran parlare di autofiction, se sia proficuo per la
letteratura abusarne. Ma - santa pace! - e se tutta la letteratura
non fosse in realtà che una sterminata, interminata e interminabile,
operazione di autofiction? Chi è Don Chisciotte per Cervantes o
Faust per Goethe o Amleto e ancora più Prospero per Shakespeare? Non
è detto che l’autofiction debba essere necessariamente
autobiografia. E, anzi, a volere andare in fondo, la stessa
autobiografia non è mai la vita raccontata così
com’è,
com’è davvero avvenuta, ma è
la vita come
chi la scrive se l’è rappresentata a sé stesso per raccontarla
agli altri. Anche le
autobiografie
apparentemente più sincere danno
spazio all’invenzione pura e semplice: Le Confessioni
di Sant’Agostino e di Rousseau, Poesia e Verità di Goethe (notare
la finezza del grande poeta, dell’immenso scrittore: non la pura
verità della propria vita, bensì la Poesia e la Verità, dove la
poesia sta tanto per la vocazione letteraria dello scrittore quanto
per l’invenzione, ugualmente letteraria, della stessa Verità: nel
Viaggio in Italia, sorta
di continuazione di Poesia e Verità, la
figura della “bella Milanese” è figura totalmente inventata o,
almeno inventata così come
Goethe
la
racconta),
e
la
bellissima Vita scritta da esso di Alfieri.
Ed
a questo
mira il saggio di Spitzer: a chiarire quale Spannung, quale
tensione,
determini la distanza o la vicinanza di una pagina alla vita che
descrive, ogni volta che la pagina
viene scritta,
ogni volta cioè che la
vita viene scritta, che
si fa letteratura. Un grande conterraneo di
Spitzer,
anche lui innamorato della poesia spagnola, ne aveva fatto insieme lo
stigma e l’enigma della propria opera così come della propria
vita: Hugo von Hofmannsthal. Ma
c’è anche qualcosa di più, inoltre,
in
questo saggio,
che l’ombra di Walter
Benjamin.
C’è la riflessione, in quegli anni cruciale e costante, sulla
modernità, non tanto come qualcosa che spezza la continuità della
storia, come un’arte che nega l’arte del passato, bensì come il
disvelamento della natura stessa dell’arte, di qualsiasi arte, di
qualsiasi tempo. Siamo infatti così sicuri che un quadro di Vermeer
sia poi, nella
sua natura,
così diverso da un quadro di Mondrian?
La
riflessione estetica di Spitzer è resa comunque possibile dalla
configurazione tutta particolare della letteratura spagnola, anzi di
tutta l’arte spagnola. Essa parte, fin dalle origini, come
riflessione sulla letteratura, come
riflessione sull’arte. Il Don Chisciotte ne è l’emblema più
noto e più
significativo, un romanzo che nasce come riflessione sul poema
eroico. Ma
non il solo. Il
gioco di realtà e finzione, di entrare e uscire dalla pagina come un
entrare e uscire dalla vita percorre tutta la letteratura di lingua
spagnola fino ad oggi. Borges non scrive per caso in spagnolo. E,
alle origini del barocco, Lope è uno scrittore assai attento ai
meccanismi con cui si costruisce un’opera letteraria, un
drammaturgo estremamente consapevole della natura del teatro, un
poeta che ha penetrato a fondo la scrittura della poesia, in una
parola il modo e il senso di fare della letteratura. Ma questo è un
altro discorso. E ci sarà il modo e il tempo di affrontarlo.
Fiano
Romano, 25 settembre 2019
1Die
Literarisierung des Lebens in Lope‘s „Dorotea“ Bonn
und Köln, L. Röhrscheid, 1932. Trad. it. Vita
in forma di letteratura nella Dorotes di Lope de Vega, Roma, Lithos,
2015.
2.
Nietzsche, Frammenti
postumi
dell’epoca del
Caso
Wagner.
Corsivi e virgolette sono di Nietzsche.
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