Roma, Teatro dell’Opera, Don
Giovanni, 27, 28, 29 settembre, 1, 2, 3, 4, 5, 6 ottobre
Roma,
Teatro di Villa Torlonia, L’empio punito. 28, 29 settembre, 1, 2, 3
ottobre
Nel
sublime duetto tra Don Giovanni e Zerlina, “Là ci darem la mano”,
il cui tema fu nei primi decenni dell’Ottocento una specie di
tormentone, la figura ideale del tema amoroso, o piuttosto del tema
della seduzione, Chopin vi compone sopra una serie di splendide
variazioni, che lo rivelarono a Schumann, e Kirkegaard ci costruisce
sopra tutta un’ermeneutica dell’esistenza, vi identifica la
seduzione stessa della musica, come arte dell’istante, come stadio
estetico della vita, ebbene, in quel bellissimo duetto, a un certo
punto, Don Giovanni insinua un invito tutt’altro che estetico, anzi
materialissimo, esprime il desiderio di possedere sessualmente
Zerlina, e dice: “Quel casinetto è mio; soli saremo, / E là,
gioiello mio, ci sposeremo”. Evidente l’allusione. Ma è
importante, teatralmente, che resti un’allusione. Anche perché,
nel corso dell’opera, tutti i desideri sessuali di Don Giovanni
saranno tutti uno per uno frustrati: il catalogo di Leporello è una
vanteria o riguarda il suo passato. Graham Vick ha finto, invece, che
Don Giovanni dicesse a Zerlina: “Quel casinetto è mio; soli
saremo, / E là, gioiello mio, noi scoperemo”. Tornano metrica e
rima.
Ma
così non scrive Da Ponte e così non fa cantare Mozart Don Giovanni.
S’intuisce, anche nel testo originario, che il seduttore vuole
portare là dentro Zerlina, per abusarne. Solo che il linguaggio non
è uno strumento neutro. E permette, sia a Da Ponte sia a Mozart, di
restare nella zona delle allusioni, zona che, come tutti sanno,
riesce assai più seduttiva della realtà. Non è dunque solo
questione di bon ton. Tutto lo spettacolo immaginato da Vick sembra,
invece, volere esplicitare ciò che nel testo è solo alluso. E via
denudamenti, don Giovanni e Leporello si spogliano e si cambiano i
vestiti sulla scena, Don Giovanni, anzi, esce in mutande, all’inizio,
inseguito da Donn’Anna. Si riveste in fretta. Ammazza il padre di
Donn’Anna a bastonate. Né alla fine sprofonda nell’inferno, ma
esce tranquillamente da una porta laterale per poi, durante il
sestetto, rientrare e accomodarsi sul ramo di un albero a guardare le
smanie di quei poveri moralisti defraudati che cantano la giusta
punizione del dissoluto. E’ forse il momento più mozartiano della
messa in scena, questo Don Giovanni che guarda i sopravvissuti alla
sua scomparsa. Nel teatro di Mozart raramente si troverebbe un finale
che chiuda i conti della vicenda. Probabilmente solo nel Flauto
Magico. Ma il Flauto Magico è una fiaba iniziatica. Nell’Idomeneo
abbiamo la rabbia di Elettra delusa. Nel Ratto dal Serraglio le
parole di Selim insinuano in Costanza il dubbio che Belmonte possa
non essere il suo sposo ideale: “Cerca di non pentirti un giorno di
avere rifiutato il mio amore”. Nelle Nozze di Figaro non è solo la
coppia Conte Contessa a vedersi frantumato il sogno d’amore.
Cherubino – e il Conte lo ha capito – non è quel fanciullo che
sembra. E la stessa Susanna è poi davvero insensibile alle seduzioni
del Conte? La gelosia di Figaro è ingiustificata? In Così fan
tutte, poi, il gioco delle coppie, lo scomporle e il ricomporle,
lascia le coppie com’erano all’inizio? Altro momento in cui Vick
sembra rappresentare con un’intuizione profonda il senso
dell’azione è quando, verso la fine, dopo l’aria di Donn’Anna,
“Non mi dir, bell’idol mio, / che son io crudel con te”, i due
escono di scena ciascuno dalla parte opposta: il loro amore è già
quasi una separazione, non è quello dell’inizio. Ha qualcosa di
funebre. Prefigura quasi una morte, come suggerisce Sergio Sablich.
Ma
il resto dello spettacolo non ha quasi nulla della inafferrabile
ambiguità mozartiana. Più che un’inadeguatezza all’azione,
colpisce l’inadeguatezza alla musica, al dramma immaginato da
Mozart: più che da Ponte – il cui libretto ha molti difetti - a
costruire personaggi e dramma è, infatti, la musica. E poi, che
senso ha il braccio michelangiolesco di Dio che scende a prendersi
Don Giovanni, ma la cui mano finisce strappata proprio da da Don
Giovanni? La statua del Commendatore non è un ammennicolo
trascurabile di scena, ma l’intervnto decisivo dell’azione. Di
chi dice Leporello che fa “ ta ta ta”? O che “con la marmorea
testa fa così così”?
Non
appare invece inadeguata la compagnia di canto. Nessuno svetta per
qualche grande personalità drammatica o vocale, ma tutti appaiono
appropriati alla parte che devono recitare. Tutti, è vero, anche, un
tantino sotto ciò che la parte richiede da loro, ma probabilmente a
ingrigire le loro prestazioni sono la regia e la conduzione musicale.
Il fatto è che appaiono, mediocri, quasi spenti. A cominciare dal
Don Giovanni di Alessio Arduini, perfetto, questo sì, fisicamente,
nel ruolo. Un po’ meno vocalmente. Tutto a posto, tutto benissimo
cantato e meglio recitato. Ma manca appunto l’ambiguità,
indefinibile, certo, ma che si sente mancare: così come non emerge
la nobiltà del personaggio: che senso ha fargli mangiare gli
spaghetti con le mani. Che il servo si sieda a tavola con lui c’è
già nel dramma di Tirso de Molina, ma il libretto di Da Ponte non lo
fa supporre. E nel Sttecento le distizioni di classe sono più nette
che nel Seicento. O comunque si avvertono di più. Nello spettacolo
ciò non si vede. Forse per un eccesso di realismo – e in un teatro
come questo il realismo è sempre la scelta sbagliata. Di fronte a
lui, la Donna Elvira di Salome Jicia non si erge come controparte
morale della sua amoralità. Appare subito troppo dimessa, forse
anche per l’abito da suora che Vick le impone, anticipando una
scelta che avrebbe dovuto rivelarsi solo nel finale. Anche la
Donn’Anna di Maria Grazia Schiavo, vocalmente ineccepibile, non
dimostra quell’energia, direi anzi quella violenza emotiva e
volitiva insieme, quell’ambiguità sentimentale, che il personaggio
richiede. Juan Francisco Gatell, da parte sua, disegna un Don Ottavio
energico, deciso, e canta la sua sublime aria con una delicatezza e
tenerezza ammirevoli. Affidato alle sole voci, il terzetto delle
maschere riesce uno dei momenti più indovinati dello spettacolo. La
coppia Masetto Zerlina appare, invece, piuttosto incolore, non ben
caratterizzata. Sotto tono anche il Leporello di Vito Priante.
Nient’affatto terribile o imponente il Commendatore di Antonio di
Matteo.
E
veniamo così alla conduzione musicale della complessa e
difficilissima partitura: Jérémie Rhorer. La sua lettura mozartiana
è corretta, perfino delicata in molti punti. Ma, come nel resto, si
desidera invano una maggiore ricchezza di sfumature, maggiore
ambiguità nell’intonazione delle frasi musicali, maggiore libertà
espressiva e maggiore libertà di tempo. E’ apparso dominante un
tono medio né tragico né leggero, che eguaglia tutti i momenti
dell’azione. Don Giovanni è un’opera buffa - “dramma giocoso”,
com’è indicato nel libretto, è, nel gergo teatrale del
Settecento, un sinonimo di opera buffa – è dunque sì un’opera
buffa, ma nella quale però si mescolano i generi del tragico e del
comico, questo mescolamento non è venuto fuori.
Poco
da dire sulle scene monocrome di Samal Blak e sugli scialbi costumi
di Anna Bonomelli. Anche il gioco delle luci, mosso da Giuseppe Di
Iorio, non è sembrato particolarmente inventivo e suggestivo, forse
per adeguarsi al mezzo tono imposto dalla regia di Vick. Applausi
quasi trionfali per tutti gli interpreti, alla prima, ma sonori
fischi e fragorosi buh per la regia. Una volta tanto, giustificati.
Ma
il Don Giovanni al Teatro dell’Opera non era il solo “burlador”
dei teatri romani, in questo primo affacciarsi dell’autunno. Al
Teatro di Villa Torlonia, infatti, per il Reate Festival, la cui
inaugurazione si è però, come di consueto, avuta appunto a Roma e
non a Rieti, in collaborazione con l’Accademia Filarmonica Romana è
andato in scena L’empio punito di Alessandro Melani, un melodramma
andato in scena la prima volta a Roma nel 1669 al Teatro di Palazzo
Colonna in Borgo. Il libretto è di Giovanni Filippo Apolloni su
brogliaccio o canovaccio di Filippo Acciaiuoli. Ma la fonte è una
“comedia” del 1616, di Tirso de Molina (ormai è accertata
l’attribuzione): El burlador de Sevilla y convidado de piedra, il
beffatore di Siviglia e convitato di pietra, l’incunabolo del mito
di Don Giovanni. Acciauoli e Apolloni trasportano però la vicenda
dalla Spagna e dall’Italia barocche nell’antica Grecia, in
Macedonia, nei boschi che circondano la capitale Pella. E’ una
trasposizione infelice, perché il mondo greco, sia pure rivisitato
da un drammaturgo seicentesco, ha poco a che vedere con salvezza e
dannazione in termini cristiani. L’empio è punito, come Da Ponte e
Mozart puniscono il dissoluto. Ma Da Ponte e Mozart lasciano intatta
l’ambientazione sivigliana di una Spagna cattolica. La religione
dei greci puniva altri generi di empietà che quelli sessuali.
Tuttavia,
superato l’impaccio dell’ambientazione arcadica, poi la vicenda
si svolge fluidamente come nel dramma di Tirso (in spagnolo è
chiamato “comedia”, che è un termine analogo all’inglese play,
e al tedesco Spiel: indica la rappresentazione teatrale, non il
genere). Alessandro Melani si avvia già a definire le forme del
melodramma come saranno nel secolo seguente, ma i “recitativi”,
che non sono ancora quelli che saranno nel melodramma del Settecento,
conservano ancora, come accadeva nel melodramma delle origini, una
forza espressiva pari a quella delle arie. Cesare Scarton ha scelto,
anche lui, come Graham Vick, un’ambientazione moderna. In questo
caso, felice. Perché attenua l’incongruità dell’ambientazione
nella Grecia antica. La scena, di Michele Della Cioppa, è molto
semplice, e quasi astratta. Piani sghembi che arieggiano un mondo
dissestato, frantumato, pannelli scorrevoli, sui quali sono disegnate
figure astrattamente vegetali. I costumi, di Anna Biagiotti, sono
abiti moderni, o addirittura da entreneuse di locali notturni. Anche
qui, però, perché abolire il monumento dell’ucciso? Non far
vedere la sua statua? D’accordo l’astrazione, ma la statua è
elemento indispensabile dell’azione, che altrimenti non ha senso.
I
ruoli vocali sono anch’essi modernizzati, e forse è questo
l’aspetto più discutibile della messa in scena. Acrimante, di
fatti, com’è chiamato il Don Giovanni greco, avrebbe dovuto essere
un castrato, probabilmente un sopranista. E’ invece il baritono
Mauro Borgioni, bravissimo e si mostra dunque adeguato alla parte. Il
Catilinón
o il Leporello grecizzato, cioè il servo di Don Giovanni, qui
di Acrimante, si chiama Bibi ed è un pirotecnico, esplosivo Giacomo
Nanni. Irresistibile il ruolo en travesti di Delfa, un esuberante
Alessio Tosi. Giustamente dignitoso, solenne, il Re di Macedonia
Atrace impersonato da Alessandro Ravasio. Carlotta Colombo dà voce a
Cloridoro e Michela Guarrera alla sua amata amante Ipomene, entrambi
assai espressivi. La donna Elvira di turno, la moglie infelice di Don
Giovanni-Acrimante, che si chiama Atamira ed è figlia del re di
Corinto, è nobilmente interpretata da Sabrina Cortese. Ma tutta la
compagnia dimostra grande disinvoltura nel recitare cantando i
difficili personaggi di un melodramma seicentesco.
Le
fila della complessa partitura sono tenute, con duttilità e
intelligenza, da Alessandro Quarta. Il teatro era pieno, e a tutti
gli interpreti sono state tributate ovazioni entusiastiche. Se Roma
fosse una città meno distratta, e l’Italia un paese meno
smemorato, uno spettacolo come questo che ripropone per la prima
volta in epoca moderna un melodramma del Seicento, otterrebbe ben
altra risonanza, sarebbe gridato sulla stampa di ogni città. I
francesi hanno messo in repertorio tutto il loro teatro barocco,
musicale e no, i tedeschi hanno in repertorio i contemporanei
compositori italiani Luigi Nono, Luciano Berio, che da noi sono quasi
scomparsi da teatri e sale di concerti, e a Berlino o a Stoccarda o a
Brema, per non dire di Zurigo, Monteverdi, o Rossi, o Cavalli, si
vedono e si ascoltano più frequentemente che da noi. Che cosa sta
accadendo a questo paese? Di che cosa osa così chiassosamente
vantarsi se ha dimenticato e trascura il suo passato? I giornali sono
diventati ormai poco più di un’agenzia pubblicitaria o di un
megafono dei potenti d turno. Nelle scuole si può ottenere la
maturità pur ignorando chi sia stato Gesualdo, o Luca Marenzio.
Alfieri è uno scocciatore che ha l’ossessione della libertà e di
scrivere orridi versi. Se pure sanno che le sue tragedie e le sue
commedie sono scritte in versi. Giovanni Filippo Apolloni è il
successore teatrale di Giacinto Andrea Cicognini che scrisse libretti
per Cavalli e per Cesti. Ma chi se ne rammenta? L’Italia di oggi è
frivola e vanitosa, la sua frivolezza – scambiata per leggerezza,
che è tutt’altra cosa – non le fa vedere le cose di cui per
davvero dovrebbe menare vanto, e perciò si perde dietro le
sciocchezze e precipita nel buco irrimediabile dell’assoluta
insignificanza. Dalla quale chi sa quando usciremo.
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