Uscire dal Teatro di Villa
Torlonia, a Roma, dopo avere ascoltato il Terzo e il Quinto Concerto
per pianoforte e orchestra di Beethoven, uscire dalla Villa, fare
alcuni passi per Via Spallanzani, fino alla macchina, salirvi,
accendere il motore e sentire alla radio, cominciato da poco,
l’Adagio della Quarta Sinfonia di Mahler, non è solo un tuffo
nella musica che ha raccontato un secolo di Europa, ma ci si sente
stringere il cervello, l’utopia sprecata, la speranza delusa,
l’immancabile ripetersi catastrofico della storia. Come se i
bombardamenti francesi di Vienna, i campi di sterminio tedeschi
continuassero, assumessero la ferocia del perenne rifiuto dell’altro
che sembra dominare da millenni l’evoluzione del primate
narcisisticamente autoproclamantesi sapiens. Il concerto
beethoveniano chiudeva i giorni del Maurizio Baglini Project. La
sinfonia mahleriana, diretta da John Axelrod, chiudeva le giornate di
MITO.
Tornavo
a casa. La sinfonia mi ha seguito fino a Monterotondo. Poi ho spento
la radio. Il paradiso infantile cantato con così dolce struggimento
da Mahler, rendeva per contrasto più brutale l’inferno di oggi. Ma
già durante il concerto pensavo a quell’uomo solo, sordo, che
sfidava gli odi del mondo invocando la fratellanza di tutto il genere
umano. Il Terzo concerto op. 37 nasce molti anni prima ed è una
pagina contraddittoria, tumultuosa: un primo tempo di disperazione
assoluta, un largo di dolorosa interiorità, e quel rondò finale in
cui la volontà, solo la volontà, non il cuore, impone una via di
uscita, che non è il raggiungimento della pace, ma il rifiuto di
cedere al dolore, all’ingiustizia che trionfa.
Carlo
Guaitoli questa contraddizione, così tipicamente beethoveniana,
sembra quasi accarezzarla frase per frase: dall’energica entra
delle scale al tema scandito per ottave parallele, interrotte subito
da un accordo dissonante. E poi il canto, dolcissimo,
struggentissimo, che sembra, per Guaitoli, la cifra dominante del
concerto. Più che contrasti netti, Guaitoli sembra inseguire
alternanze di uno stato d’animo costante: l’irrequietudine del
sentimento si fa irrequietudine della forma, o più probabilmente
viceversa, quel proporsi perennemente variata di una stessa idea è
l’irrequietezza stessa della forma che cerca di fissare un pensiero
musicale che corrisponda ad una inafferrabile inquietudine. La
lunghissima cadenza, composta a concerto ultimato, riassume tutti
questi atteggiamenti. Che è lo stigma del comporre per Beethoven fin
dall’op. 1. I Trii op. 9, per archi, sono già la prefigurazione
degli ultimi quartetti. Le due sonate op. 27, le sonate op. 30 per
violino e pianoforte, la seconda sinfonia op. 36 composta
simultaneamente al terzo concerto, rispecchiano tutte un clima di
catene che si spezzano, di prigione formale da cui si evade. Eppure
la scrittura non ha una sbavatura, un momento d’incertezza. Ci sono
anzi punti d’invenzione orchestrale nuovissima. Indimenticabile il
rispondersi del flauto e del fagotto nel Largo. O il disegno della
testa del tema ripetuto come uno spettro, prima che il pianoforte
riproponga il tema del rondò. Scrittura strumentale avveniristica,
che preannuncia Čajkovskij (Bella
addormentata), Mahler (Quarta
Sinfonia, appunto). O
meglio, di cui sia Čajkovskij sia
Mahler si ricordano.
Maurizio
Baglini affronta, dopo,
il Quinto Concerto op. 73. Qui il gioco della forma sembra prevalere
sull’irruenza del sentimento. Ma ne siamo sicuri? Intanto Baglini
sceglie un’altra via:
esaspera i contrasti. Ma soprattutto mette bene in rilievo la
perpetua trasformazione caleidoscopica delle idee musicali. Il
concerto è così quasi
un manuale della variazione. I temi si assomigliano perché in realtà
tutti derivano da un’unica idea. E tuttavia l’idea si manifesta
in forme diversissime. Idea dominante sembra quello delle scale, nel
primo tempo assumono un ruolo prepotente, esclusivo. Ma in realtà
servono a
circoscrivere il campo armonico. Nel terzo concerto l’intonazione
arpeggiata della triade. Qui la enunciazione di tutta la scala. I due
concerti sono anche in relazione armonica, il Terzo
è nella relativa tonalità minore della tonalità maggiore del
Quinto: do
minore, mi bemolle maggiore. Tonalità massonica. Le
tre entrate brillanti del pianoforte all’inizio del concerto hanno
lo stesso valore di scansione triadica di un’iniziazione che
avevano i tre accordi che attaccano l’ouverture del Flauto Magico,
anch’essa in mi bemolle maggiore. Massimiliano
Caldi tiene insieme tutte le fila, dell’orchestra –
romatreorchestra – e del pianoforte, con grande equilibrio. Sala
stracolma, successo trionfale per tutti. E alla fine un bis
delizioso: i due pianisti, Carlo Gaitoli e Maurizio Baglini
interpretano un valzer di Brahms. Una leggerezza carica di memorie.
Nei
giorni precedenti Axel Trolese aveva interpretato il Quarto Concerto
di Beethoven, e Maurizio Baglini insieme al violoncello di Silvia
Chiesa, le cinque Sonate per violoncello e pianoforte. Un’infezione
virale mi ha impedito di parteciparvi. Ma certo avranno degnamente
completato il quadro così intenso di questo concentratissimo
ritratto beethoveniano.
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