Se Dante è stato, fin da quando ero ragazzo, un amore irresistibile,
una corrispondenza che Foscolo chiamerebbe “d’amorosi sensi”, l’altro poeta
italiano per il quale sentii subito un coinvolgimento totale è stato, e
continua a essere, Leopardi, anzi, più tardi, già negli anni dell’Università,
la lettura dello Zibaldone ha rafforzato e approfondito questo coinvolgimento.
Devo a Leopardi la commozione di alcuni attacchi tra i più belli della nostra
poesia e, forse, della poesia del mondo. Prima di lui, due versi,
indimenticabili, avevano incarnato questa bellezza. L’attacco di una canzone di
Dante e quello dei Trionfi del Petrarca. La canzone dantesca si legge in quel
capolavoro di leggerezza e d’invenzione moderna ch’è la Vita Nuova. Si tratta
di “Donne ch’avete intelletto d’amore”. La prosa che precede la canzone spiega
com’è nata. Ed è un’analisi del laboratorio di un poeta di sconvolgente
modernità. Anticipa affermazioni simili di Baudelaire (la poesia nasce
attraverso uno studio e un esercizio giornaliero e costante di scrittura) e
l’impostazione di una parte della critica strutturalistica, per esempio
Barthes. In realtà sia Baudelaire che Barthes hanno ben presenti le teorie
estetiche medievali, e poi del classicismo francese. Entrambi sanno che la
grande poesia non è solo frutto d’”ispirazione”, ma anche, e spesso
soprattutto, di lungo e faticoso lavoro (si pensi al lungo lavoro dell’Ariosto
sul “Furioso” e di Goethe sul “Faust”). I poeti medievali ne facevano
addirittura un merito. “A me giunse tanta volontade di dire, che io cominciai a
pensare lo modo ch’io tenesse ... la mia lingua parlò come per se stessa mossa,
e disse: Donne ch’avete intelletto d’amore.
Queste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia ... poi ... pensando
alquanti die, cominciai una canzone con questo cominciamento”. L’endecasillabo
ha un’accentazione insolita per altri poeti, ma più frequente in Dante:
l’accento cade sulla quarta e settima sillaba. Ciò dà al verso un andamento più
solenne, meno fluido, che se l’accento cadesse sull’ottava sillaba, cosa più
frequente, anche in Dante. E l’accento cade sulla parola “intelletto”. Dante
dunque vuole dare particolare rilievo a questa parola che viene scandita dentro
un ritmo non del tutto usuale. Di fatti il concetto, se ci si riflette, non è dei
più comuni. Ci si aspetterebbe “sentimento d’amore”. No, Dante insiste sulla
cognizione dell’amore: le donne, più degli uomini, sanno che cosa sia l’amore.
Ecco perché “intelletto d’amore”. L’urto
crea un corto circuito tra emozione e intelligenza. Sta tutta qui la zampata del grande poeta,
nel presentare come normale, intuitivo, un rapporto tutt’altro che pacifico:
quello tra l’intelletto, la razionalità, da una parte, e l’amore, la volontà,
l’irrazionale, dall’altra. Donne che capite ciò che di solito non si capisce,
che penetrate la struttura dell’emozione che chiamiamo amore. Fantastico,
sublime! Zampata solo dei grandi poeti. Come il “Sois sage, ô ma Douleur!” di
Baudelaire. Saggio, tranquillo, il dolore? L’altro verso è quello che attacca i
Trionfi: in realtà non è il verso dell’attacco, ma il secondo, e dice: “per la
dolce memoria di quel giorno”. Maurice Bejart chiese a Luciano Berio di
scrivere la musica per un balletto. Era il 1974, 600 anni dalla morte del
Petrarca. Quel verso fu il titolo della musica – bellissima! – e del balletto –
raffinatissimo, affascinante, indimenticabile l’unicorno (una ballerina) che
circolava tra i personaggi del poema impersonando la Castità. Lo vidi al Teatro dell’Opera di Roma. Ma il
verso – sublime! – è preceduto da quest’altro verso: “Al tempo che rinova i
mie’ sospiri”, la terzina completa dice:
Al tempo che rinova i mie’ sospiri
per la dolce memoria di quel giorno
che fu principio a sì lunghi martiri, ...
Qui si chiarisce, come meglio non si potrebbe, come per il Petrarca la
poesia nasca sempre, e solo, dal ricordo. Anche qui, con un’idea che meno
romantica non si potrebbe immaginare: la poesia nasce non già dall’immediatezza
del sentimento, ma dalla rielaborazione che la memoria compie di quel
sentimento. Schubert, pensato sempre come un’icona del romanticismo, sembra, invece,
condividere a sua volta questa idea e scrive, in una lettera, che la musica è
sempre memoria di momenti trascorsi, mai dell’immediatezza, e dunque anche la gioia cantata dalla musica
appare triste, perché non gioia immediata, bensì gioia ricordata. Più o meno
negli stessi anni Leopardi scrive concetti simili. In una pagina famosa e bellissima
dello Zibaldone, in cui confronta l’impressione profonda che eccita il ricordo
di una torre e l’impressione più fredda che invece suscita la visione della
torre reale: il ricordo suscita nel poeta quello che Leopardi chiama “doppio sguardo”.
la visione della torre reale che richiama il ricordo della torre già vista.
Leopardi ci offre alcuni degli attacchi più belli di tutta la nostra poesia. Li
elenco, qui sotto.
Placida notte, e verecondo raggio
della cadente luna ...
Dolce e chiara è la notte e
senza vento ...
Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
tornare ancor per uso a contemplarvi
sul paterno giardino scintillanti,
e ragionar con voi dalle finestre
di questo albergo ove abitai fanciullo
e delle gioie mie vidi la fine.
Può bastare così. Da che cosa nasce la bellezza, il fascino di questi
versi? Più che dalle immagini, dalla loro musica. Provate a cambiare l’ordine
delle parole: la notte è dolce, chiara e senza vento. Quasi un bollettino meteorologico.
Oppure: Notte placida, e raggio verecondo della luna cadente. Certo che le
immagini della notte, della luna, dell’Orsa Maggiore giocano il loro ruolo. Ma
acquistano il rilievo poetico che hanno perché scandite in quel ritmo, intonate
con quei suoni. L’attacco delle Ricordanze, poi, si affida a quella fila di versi
che s’insinuano l’uno nell’altro, come un’onda inarrestabile (la tecnica si chiama
enjambement). Ecco perché la poesia è in fondo intraducibile. “La fille de
Minos et de Pasiphäe” non suona allo stesso modo se traduco “La figlia di
Minosse e di Pasife”, eppure le due frasi significano la stessa cosa. Ecco, una
lingua è anche, o soprattutto, la sua musica. Tanto più la lingua di un poeta,
ch’è poeta proprio perché reinventa la lingua che scrive. Ecco perché una pronuncia, un’accentazione
errata mi offendono non solo l’orecchio. Offendono la percezione musicale della
lingua. Non si tratta, perciò, solo ci correttezza di dizione, ma, più
radicalmente, di disturbo della percezione musicale di una lingua. Calvino
percepiva ogni errore linguistico come un crimine irreparabile, e ne soffriva
come di una ferita inferta sul suo corpo. Ci rifletta chi superficialmente
ritiene gli errori di pronuncia colpe veniali perdonabili. No, non sono
perdonabili. Fanno male, terribilmente male, a chi li subisce. Anche perché
basterebbe molto poco – magari consultare google – a correggere i propri
errori.
Se mi chiedessero: e in musica, quali sono gli attacchi per cui stravedi? Sul momento posso indicarne, provvisoriamente, quattro: l'inizio della Passione secondo San Giovanni di Bach, l'inizio dell'Ouverture delle Nozze di Figaro. della Nona di Beethoven, e della Nona di Mahler. Ma Beethoven ne ha molti, accattivanti: l'attacco del Trio dell'Arciduca, della Sonata op. 96 per violino e pianoforte, dell'op. 101 per pianoforte. Ciascuno si faccia il suo catalogo.
Fiano Roma, 29 gennaio 2016