DINO VILLATICO
APPUNTI PER UN’ANALISI DELLE STRATEGIE COMPOSITIVE DI
BEETHOVEN
“Beethoven
è nel contempo intransigente e transigente. Deve essere così, ma si dà pane e
acqua al prigioniero. Non si può più comporre come Beethoven, ma si deve pensare
nel modo in cui egli componeva”.
Adorno, Beethoven[1]
“La musica
parla il linguaggio dell’arcaismo, dei bambini, dei selvaggi e di Dio ma non
quello dell’individuo. Tutte le categorie dell’ultimo Beethoven sono sfide
all’idealismo - quasi allo ‘spirito’. Non esiste più autonomia”.
Adorno, Beethoven[2]
La percezione
della musica di Beethoven, ancora prima che si possa parlare della sua
comprensione, è oggi deformata, distorta, deviata da una serie incalcolabile di
miti, di leggende, di pre-giudizi teorici, soprattutto riguardo alle forme, e
di pigrizie interpretative. Per Beethoven, come del resto per tutti i grandi
compositori (ma anche per gli scrittori, i pittori, ecc., in genere per tutti
gli artisti e - perché no? - per i filosofi, gli storici, ecc.) è necessaria,
anzi indispensabile, un’operazione di pulitura, di rifondazione metodologica
dell’impatto d’ascolto, prima ancora che dell’indagine conoscitiva.
Cominciamo
subito col mettere in campo e in discussione il significato di un termine che
proprio per la sua musica si dà invece per scontato: il tema. Si dà,
cioè, per scontato che un tema sia il profilo melodico che percepisce
l’ascoltatore. Ora, se questo può essere in parte (ma solo in parte) valido per
i musicisti romantici, a esclusione di Schubert, che comunque avvia la
trasformazione del nucleo tematico tardosettecentesco (classico) in tema
melodico, non regge all’analisi di qualsiasi composizione non solo di
Beethoven, ma anche di Haydn e di Mozart. In Haydn, come poi in Beethoven, e in
maniera più articolata in Mozart, il tema non è una melodia, ma un complesso
intreccio di forze in azione: campo armonico, impulso ritmico, cellule
tematiche e motivi, sia principali che secondari, spesso del resto presentati
simultaneamente, giocano un gioco assolutamente complementare di suggerimenti,
di interazioni, di stimolo, di sorpresa in cui si configurano il piano di
partenza dell’opera e il destino del suo percorso. Il profilo melodico, tanto
dell’idea principale che del suo accompagnamento, è sottoposto a tutti i
procedimenti dell’elaborazione contrappuntistica. Il ritmo s’impone subito come
principio caratterizzante del tema, al punto che talora, soprattutto in Haydn e
in Beethoven, ma non è raro nemmeno in Mozart, un motivo diverso, magari nuovo,
che se ne appropri, viene percepito non già come un tema diverso, bensì come
una variante del tema, e questo perché nel ritmo è determinata l’individuazione
tematica del motivo. Anche il ritmo, tuttavia, può risultare non già da
un’unica cellula che s’imponga uguale a tutte le voci, ma dalla combinazione di
due o più cellule ritmiche differenti, come, per esempio, nell’attacco della Sinfonia
in sol minore K. 550 di Mozart (per questo è un crimine ridurre il
bellissimo tema, la cui tensione nasce proprio dai ritmi contrastanti della
melodia e del suo accompagnamento, al solo profilo della melodia superiore,
come si ode fare perfino nelle suonerie di certi telefoni cellulari e come
decenni fa faceva il mai troppo deprecato Valdo de los Rios). Quanto alla
tonalità che si fa udire per prima nell’attacco del pezzo, essa imposta il
campo tonale di riferimento rispetto al quale le altre tonalità si presentano
più che come contrapposte, come dissonanti. E’ infatti la dissonanza, e la sua
risoluzione, che governa l’andamento di un pezzo del tardo settecento e del
primo ottocento (Rossini compreso: e ciò spiega la sua affinità con Haydn e
Mozart). Ciò implica che le figure dell’accompagnamento, o piuttosto del
cosiddetto accompagnamento, non sono affatto figure secondarie, ma formano
parte integrante del tema, al punto che talora, perfino nel Mozart giovanile,
prima che il tema vero e proprio si affermi, soprattutto negli adagi, ma
non solo, riesce difficile capire se la configurazione melodica ascoltata sia
l’inizio di un tema o l’accompagnamento (meglio sarebbe dire il controsoggetto)
del tema. Esemplare al riguardo (ma è il Mozart maturo ad offrircene il
modello) l’attacco dell’ouverture delle Nozze di Figaro. La
musica sembra colta a metà del suo percorso, come se l’ascoltatore fosse
entrato in ritardo a teatro, e l’ouverture fosse già cominciata da un
pezzo. Ebbene, quella figura ritmica d’attacco è sì una figura complementare
della melodia del tema, ma è parte integrante del tema stesso, nel senso che il
tema non è la melodia che si ode nel registro acuto, ma quella melodia insieme
alla figura ritmica complementare. Questo procedimento viene da Beethoven
radicalizzato, proseguendo e sviluppando una sollecitazione già presente in
maniera addirittura prepotente in Haydn. Questo, tra l’altro, fa piazza pulita
della corbelleria che ancora si sente dire e, ahimè! si vede scrivere,
sull’opera giovanile di Beethoven, che imiterebbe Haydn e Mozart. Si dà
il caso che per Beethoven Haydn e Mozart non fossero affatto compositori precedenti,
ma assolutamente contemporanei (quando Mozart muore, Beethoven ha 21 anni e
quando muore Haydn ne ha 39!). Non solo: ma i più moderni tra i contemporanei.
E il provinciale renano coglie immediatamente questa modernità. Accusarlo
dunque d’imitare Haydn sarebbe come rimproverare a un giovane compositore degli
anni 70 del secolo scorso di tenere presenti i modelli formali di Boulez e di
Stockhausen. Tra l’altro, Beethoven già fin dalle sue prime opere dimostra una
spericolata e sperimentale autonomia, per esempio nella ricerca, che sarà la
tortura della sua vita, di un’alternativa tonale all’obbligo della dominante
per la parte dell’esposizione contrapposta (dissonante) alla tonica di
partenza. Alternativa che già individua nella mediante e nella sottomediante
(non gli sarà stato estraneo, può darsi, l’influsso della Fantasia in do
minore di Mozart, nella quale il tema contrapposto appare in re maggiore).
Vari i motivi di questa ricerca. In Mozart è determinata dal cromatismo
accentuato del tema d’attacco, il che farebbe apparire banale l’apparizione
della tonalità della dominante, ma per Beethoven, che ha un orecchio
essenzialmente diatonico, come Haydn, il che non vuol dire povero
armonicamente, anzi! l’impulso è avviato dal fatto che la contrapposizione
tonica-dominante è già attuata dalla prima apparizione del tema, ne costituisce
anzi il nucleo armonico tematico, si confronti l’attacco del Terzo Concerto
per pianoforte, con l’attacco simile del Concerto mozartiano nella
stessa tonalità, che costituisce indubbiamente il modello del concerto
beethoveniano, ma mentre Mozart devia il percorso sul sesto grado, toccando il
quinto solo come grado di passaggio, Beethoven insiste sul ribattere V-I, V-I,
quasi in forma di cadenza, e non gli basta, il pianoforte, quando entra, espone
aggressivo per tre ottave l’intera scala di do minore. Dopo di che si possono
spalancare le porte a tutte le avventure armoniche, che non mancano, compreso
il prediletto ricorso alla sesta napoletana. Sulla tonalità, inoltre, c’è da dire
che non sempre il pezzo attacca con la tonica: talora il compositore devia
astutamente il percorso della triade, come fa appunto Mozart, nel citato
concerto in do minore o attacca con un altro grado, per esempio la mediante,
come fa Beethoven nell’adagio dell’op. 106, trattandosi in
entrambi i casi di un’enunciazione omofona, l’accordo spezzato mozartiano
sembrerebbe il primo rivolto di la bemolle maggiore, e solo l’intonazione della
dominante sol con la sua sensibile fa diesis ci fa sentire do minore, quello
beethoveniano, una successione la do diesis, farebbe pensare a un la maggiore,
ma subito il fa diesis propone la vera tonica. Non è escluso che qui Beethoven
tragga profitto dalla lezione mozartiana. Del resto l’ultimo Beethoven sembra
spesso riflettere su certi procedimenti di Mozart, sulla leggerezza di
suggerire, deviare, introdurre a poco a poco: vedi l’attacco della Sonata in
sol maggiore op. 96 per violino e
pianoforte. A distinguerlo però da Mozart sta quasi sempre l’affermazione di un
impulso ritmico singolare, insolito, anche se semplicissimo: un anapesto nell’op.
96 e un giambo nella Nona.
Ciò che
caratterizza da subito, infatti, l’opera di Beethoven è l’individuazione
ritmica del tema, o piuttosto la scansione ritmica di un campo armonico, che
funge da cellula generatrice del tema e da funzione propulsiva della forma. Se
l’esempio della Quinta Sinfonia o quello dell’Allegretto della Settima
possono apparire abusati (ma e la Seconda e la bellissima Quarta?),
impressionante è la singolarità della Nona, sia per l’estrema povertà
dei mezzi impiegati (una quinta vuota e un giambo) che per la quasi
insostenibile tensione che con questi ascetici mezzi la musica raggiunge. Ma
partiamo da un’opera giovanile, proprio per mettere in risalto il fatto che il
procedimento non riguarda solo il Beethoven maturo e tardo, bensì l’intera
opera. Il Primo Concerto op.l5 per pianoforte, sotto molti punti di
vista, è già un’opera esemplare. Il ritmo dattilico di attacco è il modello
dell’intera costruzione tematica del concerto, con una essenzialità, una scarna
coerenza, che ritroviamo per esempio nel maturissimo, e perfetto, Concerto
op. 61 per violino, in questo caso un ritmo di cinque semiminime percosse
dai timpani soli all’inizio (interessante la somiglianza o piuttosto l’identità
con la cellula tematica del Quartetto in fa maggiore op. 59 n.1, segno
che Beethoven, come Haydn e Mozart, del resto, lavora su poche cellule
ritmiche, armoniche e melodiche di base, sbalorditive in tal senso le affinità
tematiche degli ultimi quartetti) o nell’ouverture del Coriolano op.
62, un trocheo, con la prima durata aumentata, e la sua inversione giambica
(al riguardo c’è da osservare che Beethoven tratta contrappuntisticamente anche
i ritmi, sottoponendoli a processi di variazione, inversione o retrogradazione
- ritmicamente sono la stessa cosa -, come farà poi Stravinsky, ma Beethoven lo
impara da Haydn). Tra l’altro il ritmo dattilico del primo tempo del concerto,
con la variante dell’aggiunta spondaica nella battuta successiva, al posto
dell’arresto sul primo quarto (come anche nel Concerto per violino), e
pertanto dattilo + spondeo, sarà anche il ritmo base dell’Allegretto
della Settima. Ma osserva bene Adorno, negli appunti per il libro mai
scritto su Beethoven, che è tipico di Beethoven lavorare su elementi semplici,
quasi convenzionali, quando non addirittura pure formule tradizionali:
l’individuazione, e la caratterizzazione singola non sono dati dall’invenzione
tematica, bensì dalle funzioni che per associazione o per contrasto i temi
sviluppano tra loro e con se stessi, al punto che talvolta, e sempre più spesso
nelle opere tarde, la riapparizione del tema nella ripresa illumina di una luce
del tutto nuovo la sua prima enunciazione che allora si rivela non già come
l’enunciazione completa del tema, bensì come la sua proposta e il tema appare
finalmente integrale, evidente, solo all’atto della riproposta. A ciò spesso si
accompagna, nella sezione dello sviluppo, e dunque in una sezione precedente,
l’apparire di un tema nuovo o che sembra nuovo (1° tempo dell’Eroica e
della Sonata op. 10. n. 1, dunque in un’opera giovanile!), ma che poi
l’analisi rivela provenire da elementi esposti precedentemente, magari non
proprio dalle figure tematiche, ma dalle
figure secondarie dei ponti modulanti o delle transizioni (anche se in Beethoven risulta difficile, e nelle opere
tarde difficilissimo, individuare zone secondarie o di transizione, non perché
manchino, ma perché svolgono una funzione importante, anzi decisiva,
nell’individuazione dei contrasti tematici, costituendo spesso o
l’anticipazione di ciò che viene dopo o la conferma di ciò che si è udito o la
sua brutale negazione per opposizione o la digressione spiazzante - in
quest’ultimo caso, un po’ come il divertimento nella fuga e del
resto l’elaborazione perpetua alla quale Beethoven sottopone le idee musicali
nasce da una concezione contrappuntistica dell’esposizione tematica, anche se
contrappunto non vuol dire per Beethoven necessariamente polifonia: di fatto è
concepita contrappuntisticamente anche la monodia, nel senso che è strutturata
in modo da potersi prestare a elaborazioni contrappuntistiche).
Esaminiamo per
ordine alcune opere, dalla cui analisi si ricaveranno indicazioni sul pensiero
musicale di Beethoven, in particole sulle strategie compositive.
1. Sonata
in do minore op. 10 n.1
“Ascoltare e
capire la musica è tanto difficile appunto perché tutto è completamente
trasformato in musica e bisogna trovare la chiave per penetrarvi”.
Josef Rufer[3]
La
programmazione del ritmo e l’organizzazione del profilo melodico dei temi non
bastano a far comprendere la complessità delle funzioni messe in atto in una
pagina beethoveniana e spesso il riconoscimento delle derivazioni tematiche da
una cellula originaria, anche se è un buon principio di analisi, non basta a
riconoscere il processo che dà luogo alla generazione di una forma, anche
perché le forme in Beethoven sono assai poco schematiche, non ubbidiscono mai a
uno schema astratto di forma, ma generano dal proprio interno, di volta in
volta, lo schema della propria forma. Pertanto ragionare solo introducendo
schemi più o meno adeguati di primo tema, secondo tema, ponti modulanti, tema
principale, temi secondari, è fuorviante. Così come risulterebbe una via senza
uscita cercare rapporti tonali standardizzati: il percorso tonale di un brano è
infatti determinato già dall’articolazione del tema d’attacco, che talora però,
soprattutto in Beethoven non è ancora il tema nella sua interezza, ma solo una
prima impostazione degli elementi in tensione tra loro o per opposizione o per
sviluppo che gli daranno corpo nel corso del brano. Quando poi il brano ha
anche un’introduzione più o meno sviluppata, come accade in molte sinfonie di
Haydn e di Mozart e in maniera ancora più ampia in alcune di Beethoven, è qui
che bisogna cercare quali campi tonali, e in che direzione, il compositore
abbia voglia di attivare. Ma non è detto che l’introduzione debba svolgersi in
un brano musicale di articolata complessità: può anche consistere di due sole note
(come nell’adagio della 106) o nella scansione di due accordi (Eroica).
Come
nell’elaborazione letteraria esistono strutture aperte, la prosa, il dramma
elisabettiano e barocco, il romanzo, e strutture chiuse, il verso, il sonetto,
la canzone, le forme poetiche strofiche (che tuttavia restano aperte quanto al
numero di strofe), il dramma classico, così in musica si danno temi in sé
conclusi e temi aperti, forme simmetriche (la cosiddetta forma di Lied o
l’aria col da capo) e forme asimmetriche, principalmente la forma-sonata,
ma anche altre, il poema sinfonico, il rondò, ecc., ma
l’opposizione delle strutture non è così radicale come si potrebbe pensare a un
primo sommario esame. Per esempio, pur in una struttura essenzialmente aperta
come quella del recitativo, le figure cadenzali introducono una scansione
formale delimitante. In Verdi la fraseologia tende sempre a chiudere il
percorso armonico, anche nel periodo tardo, in Wagner invece la conclusione
armonica, soprattutto dopo il Lohengrin è sospesa, rinviata, ciò dà alla
sua musica il carattere di una prosa[4]. La
conquista tonale da una parte, favorita dalla pratica del basso continuo, e il
modello della danza nella musica strumentale, avevano via via introdotto, nel
corso del XVII secolo, una strutturazione simmetrica delle frasi musicali, sia
dal punto di vista delle figure melodiche che dal punto di vista armonico. Il
processo trova la sua massima e definitiva realizzazione nella musica galante e
nell’opera buffa. Bach era stato un gigantesco e riuscitissimo sforzo di
conciliare il libero svolgersi cromatico e contrappuntistico del discorso
musicale e la sua rigida scansione tonale, anche lui però senza mai più
recuperare la sovrana libertà di un Monteverdi o di un Frescobaldi, salvo che
nei sublimi recitativi delle Passioni, degli Oratori e delle Cantate.
La novità della musica di Haydn consisté nel reintrodurre la libertà, la
scorrevolezza del contrappunto all’interno di strutture rigidamente simmetriche
com’erano quelle della musica galante e dell’opera buffa, da lui adottate come
modelli di partenza. Beethoven porta il processo alle estreme conseguenze,
soprattutto nel periodo tardo, quando rimedita a fondo la scorrevolezza e la
fluidità della musica di Mozart. In musicisti romantici, in tal senso, sembrano
fare un passo indietro (sembrano!) e ritornare, almeno in parte, all’andamento
simmetrico della canzone e dell’aria. Ma proprio Schubert, poi, offre modelli
liederistici di una sovrana libertà. Tuttavia è vero che solo Wagner, e ancora
più Mahler (più intricato il caso di Brahms) intuirono e svilupparono le
potenzialità discorsive dei procedimenti beethoveniani, la sua capacità di
contemperare il rigore deduttivo delle figure tematiche con una apparentemente
disordinata libertà armonica e melodica.
Come già
osservava Schoenberg, in musica si danno solo due possibilità di organizzazione
formale: la ripetizione e la variazione. Beethoven cerca, in tutto il suo
percorso di compositore, di attuare una sintesi, una commistione dei due tipi
di procedimento. La ripetizione non si presenta quasi mai come pura e semplice
ripetizione, nemmeno quando viene riproposto tale e quale un tema, come accade
alla fine dell’op.109, in cui il tema, ripetuto dopo sei sconvolgenti
(alla lettera: sconvolgono tutto) variazioni, assume, solo per il fatto di
succedere a quel cataclisma, un carattere totalmente nuovo, di illusorio
ristabilimento dell’ordine: è, questo, tra i momenti più commoventi, più
dolorosi e struggenti di Beethoven, di una dolcezza disarmata, come un’accettazione
della sconfitta, proprio nel punto in cui invece la maestria del compositore
domina tutti i procedimenti, ma li domina appunto per dichiarare che non
salvano dal dolore, viene da pensare alla meravigliosa Elegia di Marienbad
di Goehte, anche lì la maestria del poeta non cela la sconfitta: “fehlt am
Begriff”, manca il concetto. Quanto allo sviluppo e alla variazione, essi
rammentano sempre qualche aspetto di ciò che stanno cambiando.
Riassumendo, e
schematizzando, nel costruire i propri temi il compositore può procedere in tre
modi, e tutti e tre consistono nella congiunzione di una figura fondamentale
con la sua ripetizione variata:
a) in maniera
fraseologica, vale a dire sviluppando e variando l’idea di partenza senza mai
ripeterla esattamente come la prima volta;
b) in maniera
periodica, e cioè la figura iniziale si congiunge nell’antecedente con una sua
variante o variazione per poi riproporsi tale e quale nel conseguente[5]. Si
tratta dunque di una forma simmetrica, come del resto la seguente;
c) il Lied
tripartito (forma A B A). La differenza con la forma precedente consiste nel
fatto che la parte intermedia è contrastante rispetto alle parti estreme.
Quest’ultima
è, per quanto riguarda la strutturazione di un intero brano, la forma preferita
da Schubert per i suoi Improvvisi e da Chopin per i suoi Studi.
Ciò che s’è detto, dunque, per la struttura della frase, vale anche per la
struttura della forma.
La Sonata
in do minore op 10 n. 1, composta tra il 1796 e il 1798 (Beethoven ha 26 e
poi 28 anni), appartiene al periodo giovanile, a quello che si è soliti
chiamare primo stile. Ma in realtà mostra già tutti i caratteri non già
del suo stile tardo o terzo stile, bensì del suo modo di pensare
la composizione, che rimane lo stesso dall’inizio alla fine, come già del resto
riconosceva Liszt, furibondo per l’invenzione che il Lenz avanzò di dividere
l’opera beethoveniana in tre periodi distinti, Vincent D’Indy parlerà
addirittura di apprendistato, transizione e maturità: la Patetica
apprendistato! e l’Appassionata o la Pastorale transizione!
Intanto sono
già calcolate con precisione le proporzioni tra i tempi e tra le parti di un
tempo al suo interno. L’esposizione comprende 105 battute, che vanno
raddoppiate a 210, perché alla fine ci sono i puntini di replica. Il tema
principale è esposto fino alla battuta 22, poi abbiamo una transizione o ponte
modulante diviso in due parti, una prima, battute 23-31, che liquida il tema
principale, una seconda, battute 32-55, che prepara il secondo tema, il quale
copre le battute 56-76. Dalla battuta 77 alla battuta 105 si liquida il secondo
tema e una coda, in cui riappare un inciso del primo tema, chiude
l’esposizione. Come si può osservare i due temi hanno dimensioni pressoché
uguali, 22 battute il primo, 21 il secondo. La transizione è più ampia: 34
battute, suddivise però in una prima parte di 10 battute e in una seconda di
24. La prima parte è però all’ascolto intesa come conclusione del primo tema e
la seconda, per il suo carattere spiccatamente melodico, come avvio del secondo
tema, che si tratti invece di una transizione ce lo fa intendere
l’irrequietezza armonica. Di fatto, la transizione, con le sue 34 battute si
propone come una sezione che controbilancia il peso dei due temi. La sua
seconda sezione, inoltre, sembra suggerire l’apparire di un nuovo tema: è solo
la fluidità armonica ad avvertirci che il vero e proprio secondo tema deve
ancora arrivare. L’ambiguità non è casuale, né vuole depistare l’ascoltatore,
che anzi lo prepara al carattere mobile, perpetuamente variabile e variato, di
tutto il tempo. Ma qui si rivela subito un carattere tipico del procedere di
Beethoven: le parti secondarie, o di transizione, non sono affatto secondarie
nel senso scolastico del termine (lo sono invece quanto alla loro dipendenza dalle
idee musicali precedenti che sviluppano o seguenti che introducono), ma
presentano già aspetti della variazione, dell’elaborazione tematica, che
costituiranno il nucleo dello sviluppo o si riascolteranno con altra funzione
nello sviluppo o addirittura genereranno all’interno dello sviluppo idee, si
starebbe per dire veri e propri temi nuovi, mai ascoltati prima (come accade
nello sviluppo del primo tempo dell’Eroica). Questo modo di procedere
verrà da Beethoven adottato via via con sempre maggiore frequenza, fino a
condurlo a modellare un tema sempre in maniera diversa, con un processo di
variazione perpetua o di successione di varianti dell’idea di partenza. Negli
ultimi quartetti il procedimento si estende addirittura da un quartetto
all’altro, quasi che i cinque quartetti, dall’op.127 all’op.135 formassero un
unico gigantesco monumento musicale (ma non è così per l’Arte della Fuga
o per l’Offerta musicale?). Ma che un simile modo di scrivere lo si
riscontri già in un’opera relativamente giovanile è sintomatico dell’unità di
pensiero che innerva tutta l’opera di Beethoven.
La figura
principale del primo tema è composta da due motivi contrastanti, di lunghezza
disuguale: 3 battute, la prima, 1 battuta la seconda. Tale figura viene
presentata due volte, la prima alla tonica, la seconda alla dominante. Qui si
chiuderebbe l’antecedente del primo tema, ma il conseguente entra con una
cesura assai brusca, riproponendo di nuovo la tonica con una figurazione che
sembra nuova, ma è derivata dalla battuta singola dell’antecedente, solo che
qui si dispiega in un largo movimento cantabile che prosegue per otto battute,
alle quali succedono quattro battute assai contrastanti, aggressive, di
chiusura, e comincia la transizione, ma riproponendo la figura iniziale del tema
e riaffermando decisamente la tonica. Pertanto il tema è composto di due
sezioni contrastanti a loro volta divise in due segmenti anch’essi
contrastanti. L’articolazione non potrebbe essere più capillare. Non solo: ma
la figura d’apertura spazia nell’ambito di una decima, do mi bemolle, e dunque
propone la terza minore che caratterizza la triade di do minore. Nel primo
movimento la terza non è un intervallo caratterizzante, costruito com’è,
tematicamente, piuttosto sulla dissonanza dell’appoggiatura suggerita dalla
figura di una battuta del tema principale (battuta 4), un intervallo di seconda
minore. La terza, però, gioca un ruolo preponderante nell’adagio
successivo, e nella strutturazione armonica generale della sonata, perciò
Beethoven sembra anticiparlo già nelle battute di apertura. Ma la terza gioca,
tuttavia, un ruolo anche nel primo tempo, e nella distribuzione dei piani
armonici della sonata, un ruolo non propriamente tematico, bensì, come si è
detto, armonico (tuttavia anche le relazioni armoniche tra i temi e tra i tempi
della sonata hanno un valore tematico). Dato che il ruolo della dominante è
liquidato ad abundantiam già nell’esposizione del primo tema, Beethoven
ricorre, per il secondo tema, ad una tonalità alternativa, e non va molto
lontano, perché ricorre al relativo maggiore di do minore, mi bemolle, e dunque
resta nel campo d’azione di do minore, in più è proprio il mi bemolle ascoltato
all’inizio e che configura l’intervallo di terza minore con il do dell’attacco:
anche il tempo lento non va lontano, ma propone, secondo la tradizione, una
sottodominante, come spesso in Haydn e quasi sempre in Mozart, ma non la
sottodominante di do, fa, bensì quella di mi bemolle, la bemolle, la
sottodominate, cioè, del relarivo maggiore di do minore, mi bemolle, che è
anche la tonalità del secondo tema. Si viene a giocare così ancora una volta
l’intervallo di terza: la triade la bemolle do mi bemolle viene udita, nella
successione dei temi e dei tempi bella successione di do mi bemolle do (1°
tempo) la bemolle (2° tempo) do (3° tempo), la terza è pertanto l’intervallo
generatore sia dell’impianto tematico che di quello armonico di tutta la
sonata. L’interesse, infatti, sta nel fatto che la tonalità di mi bemolle
maggiore sembra configurata, e anticipata, già nella configurazione del tema,
non come tonalità, ma come l’intervallo di terza minore, sia pure presentato
nell’aspetto di decima, che è anche l’intervallo della modulazione da do minore
a mi bemolle maggiore, come se a Beethoven interessasse preannunciare nel
movimento melodico del tema il movimento armonico dell’esposizione, equiparando
di fatto la struttura lineare melodica a quella verticale armonica del brano.
Ma poi, passando da un tempo all’altro, la discesa di una terza, questa volta
maggiore, da do a la bemolle, impianta la sottodominante di mi bemolle, la
bemolle, che è la tonalità dell’adagio, e un nuovo salto di terza
maggiore, da la bemolle a do, riconduce alla tonica di do minore, ch’è la
tonalità dell’ultimo tempo. Tutto questo è azionato più di un secolo prima di
Schoenberg. Ma non si vuole affermare, qui, che Beethoven anticipi
Schoenberg: questa storia delle
anticipazioni è una sciocchezza, nessuno anticipa nessuno, più semplicemente
quelli che vengono dopo utilizzano le idee di quelli che sono venuti prima, non
è vero che Haydn in certe sonate e in certi trii sembra anticipare Schubert, è
Schubert che sviluppa e rielabora procedimenti che trova in Haydn. Dobbiamo
però correggere, o piuttosto aggiustare, un’affermazione avanzata poco sopra
sul ruolo secondario dell’intervallo di terza minore, nella costruzione del
primo tempo. Come s’è visto, esso anticipa fin dall’inizio il percorso tonale
del tempo, ed è un’altra prova della complessità di funzioni che Beethoven
affida alla configurazione tematica (e s’insiste che ciò avviene già nell’op.
10!). In tal senso la terza, se non appare come intervallo caratterizzante
dell’invenzione tematica (ma non fa parte del tema anche la sua individuazione
tonale e l’intervallo di terza minore, do mi bemolle, non assolve forse la
funzione di delimitare il campo tonale di do minore?), certamente, però, alla
luce di un’analisi dettagliata del primo, come degli altri due tempi, la terza
sembra svolgere il ruolo di cellula generatrice, di matrice, tanto dell’invenzione
tematica che della condotta armonica: l’intervallo dissonante di seconda,
minore e maggiore, che pare invece caratterizzare i profili melodici delle
figure tematiche, soprattutto nella sezione di transizione e nella coda,
risulterebbe così generato per opposizione proprio dalla consonanza della
triade. Insomma, Beethoven imposta uno spazio tonale definito dalla terza
minore sulla tonica di do minore, e poi v’inserisce all’interno una successione
di seconde che nel conseguente del primo tema copre tutti i gradi della quinta
discendente sol do, sotto forma di una scala che scandisce, aumentato con
valori raddoppiati e poi quadruplicati l’impulso ritmico dell’inizio, sul
modello della figura ritmica della battuta 4.
Ma non basta. L’intervallo di terza delimita anche i rapporti tonali tra
i tre tempi della sonata, in quanto se l’adagio va alla sottodominante
di mi bemolle, la bemolle, ciò appariva già non solo prevedibile, ma
auspicabile dall’affermazione della tonalità di mi bemolle maggiore alla fine dell’esposizione
del primo tempo, dominante di la bemolle. Ora il mi bemolle, che già tanta
parte ha svolto nella costruzione del primo tema, viene poi evocato nella
chiusa del tempo dal rientro alla terza inferiore do, come grado mediano della
successione tonale di tutto il tempo, che dunque percorre la successione do mi
bemolle do, di nuovo la terza proposta all’inizio del tempo, rispetto alla
quale l’alternanza I-V si presenta come un’articolazione interna sia del primo
che del secondo tema. E’ per questo che
Beethoven evita poi di riproporla nel contrasto tra i temi. Allora diventa del tutto plausibile che
il rientro di do minore, nell’ultimo tempo, si offra come l’ascensione alla
terza superiore da la bemolle, tonica della dominante mi bemolle, così come
l’apparire di la bemolle era stato il risultato della discesa di una terza da
do, e il circolo si chiude. Ma ritorniamo all’esposizione del primo tempo.
Nel secondo
tema la configurazione del primo è evocata da una parte dalla spinta
ascensionale, là arpeggi, qui scale, ma anche dalla scansione ritmica degli
arpeggi, che, aumentata, scandisce la testa del secondo tema, nell’antecedente,
e dall’altra allusa dalla percussione giambica del conseguente, che è ricavata
dalla percussione della terza, mi bemolle, nella prima figura del primo tema,
terzo quarto della seconda battuta e primo della terza.. L’affinità tra la
figura ascensionale degli arpeggi e delle scale è poi alla fine evidenziata,
nella riesposizione, dall trsformarsi delle scale in arpeggi. Inoltre anche nel
secondo tema, la figura ritmica è un mi bemolle, che ora, però non è più la
mediante, bensì la tonica. Da osservare poi che già nel primo tema la figura
percussiva di due semiminime veniva ampliata nella figura di semiminima +
minima della quarta battuta. Una ricapitolazione della testa del primo tema cui
succede la sovrapposizione di una figura derivata dalla quarta battuta con un
basso che riecheggia la seconda sezione della transizione tra i due temi
conclude l’esposizione svanendo p e riposandosi sulla tonica mi bemolle,
di modo che i suoni di do e di mi bemolle, che costituisco l’inizio e la fine
della prima figura dell’antecedente del primo tema (battute 1-3) aprono e
chiudono anche l’intera esposizione: nel campo di questa terza, che è poi il
campo tonale di do minore, si espandono e si contrastano, come s’è visto, le
tensioni dissonanti derivate dall’appoggiatura della quarta battuta..
Qualche parola
ancora sullo sviluppo, e poi si lascia al lettore il piacere di proseguire
l’analisi, magari facendosi anche guidare dalle pagine che il Rufer dedica a
questa sonata, rielaborando una lezione di Schoenberg[6]. Lo
sviluppo si apre riproponendo in do maggiore il primo tema, alternando I e V,
do e sol, come nell’esposizione. Alla battuta 118 (senza contare la replica
dell’esposizione), dopo due battute, che riprendono lo scatto ritmico delle
battute 28-30 che concludevano la prima sezione della transizione, compare in
fa minore (sottodominante di do) un nuovo tema assai cantabile. Esso dura per ben
16 battute, per dissolversi poi via via (battute 134-167), combinando la
figurazione melodica con quella ritmica percussiva, alternando melodia e
accordi tra le due mani, per risolversi infine, per 10 battute, in due serie di
accordi discendenti che su un pedale di dominante riconducono alla tonica di do
minore, e da qui comincia la riesposizione. La figura della duplice serie di
accordi è ricavata dalla figura delle battute 13-16 e sono un bellissimo
esempio di variante ampliata, così tipica di Beethoven. Ma il tema che appare
nuovo non è nuovo affatto, anche se appare piuttosto insolito l’ampio respiro
melodico, all’interno di una sezione, come quella dello sviluppo, che dovrebbe
apparire invece spezzettata e armonicamente instabile. Il tema in realtà deriva
dalle battute 33-36 della transizione dell’esposizione, qui trasformate nelle
battute 118-122, e dalle battute 56-59 del secondo tema, qui sviluppate nelle
battute 122-125. Come mai quest’improvvisa apertura cantabile all’interno dello
sviluppo? L’analisi dell’intero tempo e del carattere dei suoi temi ce lo
spiega chiaramente: Beethoven ha voluto aprire una sorta di finestra (sì,
proprio come nei computer) all’interno di una sezione aperta (e dunque un’altra
finestra) dello sviluppo e ciò per contrapporre un momento di dispiegamento a
voce piena del canto alle frastagliatissime sezioni dell’esposizione e della
riesposizione. Qualcosa di analogo ritorna nell’Andante della Quinta:
ma ingigantito. La forma del tempo è assunta da Haydn: due temi di cui il secondo
è già una variazione o una variante del primo, si alternano in due serie
parallele di variazioni. Ed è solo all’ultima variazione che il primo,
bellissimo, tema acquista tutta quanta la sua aperta, meravigliosa vocalità,
intonato dall’intera orchestra, è come se tutto ciò che si era ascoltato prima
fosse la preparazione di questo sfogo, e ora che l’orchestra esplode finalmente
si udisse la vera e definitiva configurazione del tema.
Che cosa
imparare da tutto ciò?
Intanto che la
ricchezza, la fantasia dell’invenzione tematica beethoveniana riposano su un
paziente, continuo, faticoso esame degli elementi costitutivi del tema,
dall’analisi delle sue possibilità, dalla sfida di condurlo a esiti
impreveduti, inauditi, eppure in realtà coerentissimi. Dall’altra parte che,
come Mozart per le sue spericolate avventure armoniche parte da campi tonali
assai semplici, raramente con più di tre accidenti in chiave, così Beethoven fa
scattare la propria invenzione partendo da cellule tematiche semplici, un
impulso ritmico elementare, un intervallo tutt’altro che desueto, spesso i
gradi della triade (Appassionata, Terzo Concerto). La fantasia
sta nell’arte di combinare, di complicare con una consumata disciplina
contrappuntistica ciò che sembrerebbe il più semplice dei moduli omofonici. Nei
quartetti, da questo contrasto sa trarre spunti e sviluppi straordinari, talora
umoristici. Soprattutto negli ultimi quartetti, infatti, Beethoven alterna
assai spesso passi di assoluta omofonia a passi di elaborato e intricato contrappunto
e quasi sempre il contrappunto rielabora una melodia che si era sentita
enunciare dai quattro strumenti all’unisono e pareva restia a qualsiasi
rielaborazione contrappuntistica.
2. Terza
Sinfonia in mi bemolle maggiore op. 55, “Eroica”
“Le battute 3-6 | del 1°
tempo | , insomma, non sono né un tema per quanto riguarda la sostanza,
né un’esposizione[7] per quanto
riguarda la funzione. Alla base del movimento non sta un tema, bensì - secondo
la nuova maniera di Beethoven - una configurazione tematica. Nell’Eroica
essa consta del contrasto tra l’arpeggio della triade del motivo principale e
il movimento cromatico di semitono in cui devia, sorprendentemente, il motivo
principale alle battute 6-7: un contrasto che da un lato è altrettanto
elementare r d’altro lato altrettanto brusco di quello tra triade e movimento
per scale dell’op. 31 n.2”.
Carl Dahlhaus[8]
L’analisi
della Terza Sinfonia “Eroica” prenderà in esame quasi soltanto la
costruzione ritmica del primo tempo e di parte del terzo. Del secondo e del
quarto indagherà invece gli aspetti armonici e tematici (variazione, variante).
Fin
dall’inizio Beethoven imposta un contrasto tra scansione ternaria e binaria del
tempo. Due accordi di mi bemolle maggiore intonati da tutta l’orchestra,
compresi i timpani, avviano la musica. Essi occupano ciascuno il primo quarto
di una battuta ¾. Ma poiché non si ode altro, l’ascoltatore è portato a
percepire la scansione di un tempo binario. Alla terza battuta, però, il ritmo
ternario s’impone chiaramente, con il tema enunciato dai violocelli, scandito
sui gradi della triade di mi bemolle maggiore. Il tema è curiosamente simile a
quello dell’ouverture di Bastien und Bastienne di Mozart, che
Beethoven però non poteva conoscere, perché non era stata ancora pubblicata la
partitura. Ma sui gradi di una triade non è difficile che i temi si
assomiglino. L’orginilatà tematica non era sentita ancora come un compito, come
lo sarà per i compositori romantici, che privilegiano il profilo melodico del
tema. In Beethoven l’elaborazione, la combinazione, lo sviluppo, insomma tutto
il lavoro del comporre, contano assai più della riconoscibile originalità del
profilo melodico di un tema. Anche se proprio con Beethoven il tema comincia ad
acquistare una individualità che poi sarà ricercata, talora ossessivamente, dai
romantici. Ma l’individualità del tema beethoveniano, s’è detto, non sta tanto
nel suo profilo melodico (anche), quanto nella tensione delle forze che
agiscono al suo interno: possono bastare cinque colpi di timpano sulla tonica,
a orchestra muta, a generare uno stato spasmodico di attesa (Concerto
per violino). Il carattere così individuale del tema dell’Inno alla gioia
è dovuto più alla sua scansione ritmica, che alla configurazione melodica. Tra
l’altro Beethoven ha inseguito per 30 anni l’individuazione del tema della
gioia, e l’enunciazione definitiva è la più scarna, la più semplice.
Il primo tempo
dell’Eroica, insieme al primo tempo dell’op. 106, è tra i più
vasti concepiti da Beethoven. Ma è anche tra i più organici. Qualsiasi
compositore, dopo un tale raggiungimento, si sarebbe riposato sugli allori.
Invece Beethoven, dopo la Terza, volta pagina. E in maniera addirittura
rischiosa, inoltrandosi in territori per lui nuovi. L’elenco è sbalorditivo: Quarto
Concerto per pianoforte op. 58, Quartetti op. 59, Sinfonie Quarta, Quinta
e Sesta, rispettivamente op. 60, 67 e 68, Concerto
per violino op. 61, l’ouverture Coriolano op. 62, Sonata per
violoncello e pianoforte op.69. Il tutto nel giro di quattro anni, dal
1805, l’anno della prima versione del Fidelio, al 1808. E non
sbalordisce tanto l’accumulo di capolavori, quanto la diversità di ciascuna
opera dalle altre. Che cos’ha in comunque l’op. 59 con l’op. 62 o
la Quinta Sinfonia con la Pastorale? Oltretutto il sistema di
lavorare simultaneamente a più composizioni fa supporre una disponibilità quasi
demoniaca a cambiare di punto in bianco registro. Ciò va detto per quanti
ancora si ostinano a ricercare corrispondenze biografiche nelle opera di
Beethoven. Certamente, ci sono. Ma non sono dirette e in ogni caso all’atto di
tradurre in musica le diverse sollecitazioni intellettuali ed emotive,
Beethoven le trasferisce su un piano puramente musicale. E’ l’invenzione
tematica, la condotta delle parti, la strumentazione (anche sul pianoforte) a
guidargli la mano, e non la ricerca di una corrispondenza extramusicale.
Intendiamoci, le allusioni o il rinvio a contenuti non musicali nella musica di
Beethoven ci sono, qualcuno è documentato, qualcun altro perfino confessato (ma
diffidiamo di certe semplificazioni, strappate dall’ottusa insistenza del
povero Schindler), ma molte corrispondenze biografiche o magari addirittura
ideologiche, sono pervicacemente taciute. E’ tuttavia caratteristico di
Beethoven che l’intento per così dire programmatico non gli prenda la mano, non
gli faccia perdere il senso della forma, quasi sempre infallibile, e là dove
l’impostazione formale può invece apparire contraddittoria, irrisolta (primo
tempo del Terzo Concerto per pianoforte, Missa Solemnis, forse
perfino il Finale della Nona) ciò è dovuto alla ricerca di
trovare nuovi assetti formali, costruzioni non ancora tentate, piuttosto che a
mancanza di coerenza musicale[9]. C’è
spesso, se non quasi sempre, in Beethoven, un atto della volontà che muove
l’atto del comporre, un che di artificiosamente volontaristico - sia detto
senza biasimo, anzi! - nella sua sfida a superare i limiti della forma e dello
strumento che dovrebbe realizzarla, la voce spinta all’urlo, lo strumento ai
margini dei suoi registri abituali, l’orchestra al punto di rottura, come
avverrà un secolo dopo con Mahler o con un certo Bartók (entrambi idolatri di
un culto beethoveniano). L’extramusicale, insomma, entra prepotentemente nel
mondo musicale di Beethoven, ma passando per il collo della bottiglia
dell’elaborazione squisitamente musicale. Perciò anche quando canta le virtù
civili, come nel Fidelio, Beethoven non è mai retorico, e quando perora
la causa dei sentimenti, come nell’Appassionata, mai enfatico. Il che
non significa che non faccia ricorso a codici di persuasione retorica e non
utilizzi tutti i mezzi della captatio benevolentiae che gli offriva una tradizione sedimentata in
secoli di codificazione delle formule musicali indicative in un affetto.
Ma vi ricorre appunto solo nell’ambito di una tradizione, solo come ricorso a
una convenzione accettata. Lontanissima da lui l’idea di un’autonomia assoluta
del linguaggio musicale, che sarà se mai un’utopia romantica. Tutto il lavoro
dell’ultimo Beethoven è anzi teso a scavare i presupposti delle basi comuni,
condivise, del linguaggio musicale. Quanto di sconvolgente, di aspro, d’isolito
urta negli ultimi quartetti, nelle ultime sonate, nelle Variazioni Diabelli,
è proprio lo scendere alle radici del comporre, al dato oggettivo dei meccanismi
da cui nasce la musica. In parole povere, alle radici della musica, così come
Hölderlin e Goethe scavano nel linguaggio della poesia fino a scoperchiarne le
radici. E’ il carattere umano, collettivo, del linguaggio che viene messo in
discussione: l’intervento del soggetto non è inteso a rivelare chi sa quali
occulte fantasie personali, ma anzi a snodare i vincoli che rendono
significativo il linguaggio, per Beethoven a denudare le strutture basilari del
comporre. In tal senso Beethoven è il primo compositore che compone opere che
riflettono sui meccanismi del comporre, che mira sì a rendere espressiva,
comunicativa un’opera, con un’insistenza e un’efficacia fino allora inaudite,
ma anche e soprattutto a riflettere sugli strumenti tecnici che rendono l’opera
espressiva e comunicativa. Insomma se una comunità si riconosce nel fatto di
parlare una stessa lingua, che cosa rende comune quella lingua a tutti quelli
che la parlano, che cosa la rende adatta ad assumersi la funzione di
esplicitare la volontà di comunicare di ogni singolo parlante di quella
comunità? Per la musica, che cosa fa riconoscere l’affinità d’intenti tra il
compositore e i il suo pubblico? e gli arcaismi della Missa Solemnis, a
che linguaggio fanno riferimento? o sono, come voleva Adorno, il sintomo di un’impotenza?
vale a dire l’impossibilità, per il moderno, di credere universale la
trascendenza di dio, e cioè di credere che il senso della realtà risieda fuori
della realtà o, più esattamente, l’impossibilità di comunicare la trascendenza,
di parlarne? La grandezza di Beethoven starebbe allora nel fatto che invece di
mascherare, come faranno i compositori romantici, con una falsa soggettività
l’oggettività collettiva del sentimento religioso, di fatto contrabbandando per
espressione del sentimento collettivo la retorica individuale del proprio
desiderio di sentimento collettivo, Beethoven invece ne denunci, anche a
rischio di mettere a nudo il proprio fallimento, l’inautenticità,
l’impraticabilità nel mondo moderno di un comune sentimento religioso, e
pertanto ne proclami l’oggettiva impossibilità, o quanto meno l’impossibilità
di pronunciarlo con un linguaggio comune, che ricostruisse i presupposti di
quello della tradizione polifonica estinta. Il mondo dell’omofonia moderna (del
consenso? del conformismo? o, con parola attualissima, della globalizzazione,
vale a dire della notte hegeliana in cui tutte le vacche sono nere?) ha
estirpato dal proprio seno qualsiasi convenzione che non sia quella autenticata
da un soggetto (la privacy?), ma oggi l’unica soggettività ammessa è appunto
quella condivisa del Grande Fratello, vale a dire quella dell’apparire. Sembra
che Beethoven l’avesse già presentito. Forse perfino sofferto, nella smania di
normalità, di conformità alle altrui opinioni che credeva di leggere nel
comportamento del nipote[10].
Adorno parlerebbe di condizionamento borghese alla conformità sociale. Ma le
cose non sono così semplici. Ogni lettura sociologica della musica finisce
quasi sempre per occultare ciò che vorrebbe denudare. Il rapporto tra un
capolavoro e la società del tempo in cui nasce non è così visibile da poter
essere riconosciuto dall’analisi delle condizioni in cui l’opera è nata e tanto
meno dall’analisi della struttura dell’opera: in ogni caso il giudizio di
valore è illegittimo, per questa via. La Nona non è un capolavoro perché
realizza musicalmente il sogno di libertà e di fratellanza della Rivoluzione
Francese, meglio di come di fatto quella rivoluzione lo avesse realizzato, ma
perché quel sogno si è fatto musica assoluta, le cui leggi non sono quelle del
sogno bensì della musica. Al riguardo potrebbero illuminarci, più che le troppe
pagine adorniante sulla dialettica sociale che si riverbera nella dialettica
dell’opera d’arte, le scarne, ma densissime pagine che Dahlhaus dedica al poema
sinfonico[11]. Di fatto, proprio la
grande capacità di astrazione musicale permette a Beethoven di veicolare idee e
sentimenti che sembrerebbero condannati a trovare espressione solo in opere di
fastidiosa e roboante enfasi, proprio la sua grande sapienza nella
distribuzione retorica delle parti gli permette di evitare la banalità della
retorica. Si è mai fatto caso che il Fidelio è l’unica opera che
inneggiando agli ideali di libertà e di giustizia non risulti né enfatica né
noiosamente tribunizia, ma anzi ci
afferri alla gola, ci commuova e ci comunichi la stessa passione di libertà che
l’ha generata?
Anche l’Eroica
partecipa di questa passione[12]. Del
resto Beethoven lavora quasi simultaneamente a tutt’e due le partiture (la
prima versione del Fidelio, che s’intitola Leonore, è del 1805,
l’Eroica viene eseguita nel 1804). Il carattere “appassionato” della
sinfonia si manifesta subito con un’astrazione musicale: con la tensione
ritmica generata dalla scansione binaria all’interno di un tempo ternario. Fin
dai due accordi di apertura. Coprono entrambi il primo quarto di una battuta di
tre quarti, e sono seguiti entrambi da due pause di semiminima. In tal modo
l’ascoltatore percepisce una successione netta di due accordi, ma restando per
il resto le due battute vuote di qualsiasi indicazione ritmica, la percezione è
di due battiti, e l’orecchio si predispone all’ascolto di un tempo binario.
Interessante il fatto che Beethoven abbia aggiunto i due accordi iniziali
quando la partitura della sinfonia era stata già completata. Come se volesse
depistare l’ascoltatore (ci sarebbe da scrivere un libro sull’abilità di
Beethoven nel guidare la percezione dell’ascoltatore, con una acribia e una
precisione che farebbero pensare a un esperto conoscitore della psicologia
della percezione, ma questa disciplina allora non era nemmeno in mente Dei).
Qualcosa d’analogo farà più tardi, aggiungendo i due bicordi introduttivi dell’Adagio
sostenuto della Sonata op.106. Anche lì un depistaggio, questa volta
armonico: la, do diesis, che farebbero prevedere un successivo mi, e dunque la
triade di la maggiore, mentre invece si rivelano come i gradi del primo rivolto
dell’accordo di fa diesis minore, che è appunto l’accordo intonato subito dopo.
Probabile che sia un’eco della suggestione dell’attacco del Concerto per
pinoforte in do minore K. 491 di Mozart, che già Beethoven aveva preso a
modello del proprio Concerto nella stessa tonalità. Ma mentre nell’opera
giovanile Beethoven riafferma, contro il procedere mozartiano, il ruolo
consolidante della dominante, ripetendo due volte la cadenza V-I, sol-do,
sol-do, qui lo riproduce esattamente: Mozart, do mi bemolle la bemolle;
Beethoven, la do diesis fa diesis, ma mentre in Mozart l’attacco parte dalla
tonica, facendo prevedere, dopo la terza minore di do minore, deviando sul la
bemolle, la tonalità della sopradominante, perché anche il terzo accordo è un
bicordo, in Beethoven l’attaco parte dalla mediante (grado da lui prediletto,
come poi da Brahms), facendo subito prevedere il relativo maggiore di fa diesis
minore, tonalità che invece si rivela con la triade completa al terzo accordo.
In ogni caso il la sta in rapporto di terza minore con fa diesis, e la tonalità
maggiore evitata si presenta dunque sempre privilegiando il rapporto di terza
(ovvio che il relativo maggiore sia in rapporto di terza, ma è particolare il
modo con cui Beethoven fa giocare questa terza, come si è visto nel primo tempo
dell’op 10). Il do diesis gioca a questo punto un ruolo ambiguo, perché si
trova da una parte una terza sopra il la, e se Beethoven procedesse con
un’altra terza, mi, avremmo la triade di la maggiore, ma dall’altra è la
dominante di fa diesis e, come sempre in Beethoven, la dominante non allontana
dalla tonalità d’impianto, ma la ribadisce. Torniamo al primo tempo dell’Eroica.
Il ritmo ternario comincia subito alla terza battuta. Alla settima battuta
abbiamo una deviazione armonica sul do diesis, che sembra preparare, insieme,
sia i procedimenti armonici del tempo che la sua ricerca di una tensione a
tutti i livelli, melodico, armonico e ritmico, l’idea che succede
all’esposizione della configurazione principale di ciò che potremmo considerare
primo tema comincia infatti sul secondo quarto della battuta (battute 45-55).
Prima, però, abbiamo sentito l’urto di una scansione binaria alle battute
25-35): pertanto l’accentuazione spostata di questa seconda idea tematica (non
è né un ponte né un secondo tema) è stata preparata. E’ come se Beethoven
individuasse via via i caratteri del tema, come se il tema non fosse la triade
arpeggiata di mi bemolle, ma i due accordi introduttivi seguiti dalla triade, i
contrasti ritmici delle battute 25-34 (la battuta 35 ristabilisce il tempo
ternario) ora completati da quest’idea ritmicamente sbilenca. Un’idea strappata
alle battute 56-59 della Sinfonia n° 97 in do maggiore di Haydn[13] è il
vero ponte alla seconda sezione dell’esposizione. In realtà questa terza (o
forse quarta) idea tematica è facilmente riconducibile alla seconda e alla
scansione binaria delle battute 23-34. Sfocia infatti dapprima in una serie di
sforzati che battono costantemente il secondo quarto, e infine, alle battute
128-131, in una vistosa scansione binaria preparata, dalla battuta 123 alla
battuta 127, dalla percussione di due accordi dissonanti, che battono
regolarmente il secondo e terzo quarto della battuta. La sezione dello sviluppo
esaspera quanto enunciato nell’esposizione, fino al parossismo delle battute
248-279. Prima era perfino comparso un nuovo tema (battute 163 sgg.: in realtà
facilmente riconducibile a elementi già ascoltati nell’esposizione). Il
procedimento non è nuovo in Beethoven: lo abbiamo già riscontrato nel primo
tempo dell’op. 10. Sull’apparizione di un nuovo tema, o piuttosto di una nuova
melodia, all’interno della tormentatissima sezione dello sviluppo, c’è da
osservare che la sua funzione, apparentemente in contraddizione con l’obbligo
di una perpetua mobilità tonale e ancor più di una frastagliata condotta
tematica, è in realtà quella di rammentare l’evoluzione dei temi, di
distogliere la memoria dall’idea che i temi siano dati una volta per tutte
nell’esposizione. La variazione perpetua del lavoro tematico non è una
caratteristica esclusiva del Beethoven tardo, ma un procedimento costante del
suo pensiero musicale, fin dalle opere giovanili, vedi l’op.10 n° 1, in cui si
riscontra l’analogo emergere d’un tema nuovo all’interno dello sviluppo del
primo tempo. Là il nuovo tema svolge inoltre anche la funzione di offrire
finalmente una melodia cantabile all’interno di un tempo di sonata per l’epoca
troppo spezzetato tematicamente[14]. Ma
il punto è che lo spezzettamento è riscontrabile solo se ci si ostina a far
concidere l’invenzione tematica con il profilo melodico del tema. Il profilo
melodico invece non è che un aspetto della configurazione tematica e spesso
nemmeno il principale, almeno rispetto al ritmo e alla condotta armonica.
Acquista tuttavia il suo peso decisivo se inquadrato nell’ambito
dell’elaborazione contrappuntistica del motivo di base, della cellula tematica
originaria. E sappiamo, per confessione dello stesso Beethoven, che a un certo
punto, dopo la crisi documentata dall’op. 27, la “nuova via” prende corpo
nell’op. 31 n° 2. Beethoven lavora ormai su cellule astratte (negli ultimi
quartetti la stessa cellula per tutti e cinque), le quali cellule offrono la
base sulla quale elaborare i temi, o piuttosto le configurazioni tematiche
complesse in continua evoluzione. Nell’Eroica c’è un momento nel quale
l’evoluzione del tema si fa evidente ed è nell’attacco della riesposizione,
quando l’irruzione dei corni sembra un intervento prematuro e dissonante.
Invece l’effetto è voluto (Beethoven diede dell’asino a chi glielo rimproverò,
alla prima esecuzione): condensa in un solo gesto tutta la tensione
accumulatasi fino a quel punto e ora sul punto di risolversi. Il miracolo è, se
mai, che dopo un tempo di sinfonia così nuovo e così riuscito, Beethoven volti
pagina, non scriva mai più niente di simile: compone infatti la Quarta,
la Quinta e la Sesta! Il tema assume solo adesso il suo aspetto
definitivo e illumina a ritroso tutto il percorso del tempo. Beethoven non è il
primo a configurare in tal modo le avventure melodiche, armoniche e ritmiche di
un tema. Molti esempi si riscontrano nelle sinfonie, nei quartetti e nelle sonate
di Haydn e anche Mozart, che pure sembra conferire uno spicco maggiore al
profilo melodico dei temi, fa risultare integralmente nuovo tale profilo quando
lo immerge in un ambito armonico non ancora sfiorato prima dalla configurazione
tematica in cui si trova (per esempio, all’inizio della sezione dello sviluppo,
nella Sinfonia “Jupiter”, il trasporto a mi bemolle maggiore dell’idea
“buffa” che forma, in sol maggiore, la coda dell’esposizione).
Il ritmo di
trocheo che caratterizza la seconda idea tematica del primo tempo (battute
46-56) genera anche il tema della Marcia Funebre. Così come invece
esplode nello Scherzo il contrastato ritmo ternario del primo tempo: con
una vitalità dionisiaca che sembra anticipare il furore dello Scherzo
della Nona[15].
L’ultimo tempo è costruito non a caso su un tema tratto dal balletto Le
creature di Prometeo. E riprende l’artificio di variare prima il basso e
poi il vero e proprio tema, già sperimentato nelle Variazioni per
pianoforte op. 35, che sono il modello di questo Finale. Un altro modo per
accentuare il fatto che un tema non è costituito solo dal suo profilo melodico,
ma ingloba tutti gli elementi che lo compongono, e dunque anche il basso. La
via per le Variazioni su un valzer di Diabelli è preparata. Le
variazioni sul tema del balletto hanno la funzione di rendere manifesto il
significato ideologico della sinfonia. La bellezza, la grandiosità, la novità
della musica non deve, infatti, farci dimenticare che il progetto, la
costruzione e l’afflato “eroico” della sinfonia deve molto alla musica
programmatica della Rivoluzione Francese[16].
Come del resto per il Fidelio.
3. An die ferne Geliebte.
Il 1816 - 1817
è un periodo di quasi silenzio. Solo due opere importanti vedono la luce: il
ciclo di Lieder An die ferne Geliebte op. 98 e la Sonata in la
maggiore op. 101. Ma sono pagine assai significative. Aprono in qualche
modo quello che venne chiamato il terzo stile, ma è più appropriato
chiamare stile tardo. Giustamente osservano sia Adorno che Dahlhaus che
molti artisti nell’ultimo periodo della loro attività sembrano scarnificare le
proprie invenzioni, rinunciare alla superficie levigata, accattivante, per
andare all’osso dell’invenzione, talora perfino senza mascherarne la
difficoltà, l’asprezza, la durezza. Si pensi all’ultimo Michelangelo. Beethoven
procede a un’affinamento dei procedimenti contrappuntistici e a una sorta
d’interiorizzazione dell’idea tematica di base, sempre più astratta, come se
l’opera fosse solo una delle possibili realizzazioni dell’idea, tanto che in qualche
caso, come negli ultimi quartetti, la stessa idea si espande o si emana in
opere diverse.
Il ciclo di
Lieder An di ferne Geliebte è, insieme alle Variazioni in do minore
op. 32, e poi alle ultime Bagatelle, quanto di più vicino o di più
simile alla musica romantica Beethoven abbia composto. Delle Variazioni
si vergognava. Non gli piacevano. Non sono tra le sue cose migliori, è vero, ma
Beethoven era ingiusto con se stesso, condannandole. Può darsi che fosse spinto
a disprezzarle proprio per il grande successo che invece riscossero, un po’
come faranno Brahms per le Danze ungheresi e Ravel per il Bolero.
Ma per il ciclo liederistico Beethoven conservò sempre una grande predilezione.
Probabilmente vi leggeva un profondo riflesso della propria interiorità. Ed è
così. Non tanto per l’eventuale corrispondenza del pathos del ciclo con vicende
personali realmente vissute, quanto proprio per il clima interiore che vi si
respira. Beethoven, anche quando canta il proprio sentimento lo canta sempre a
nome di tutti gli uomini. E’ indubbio che sia Schubert sia Schumann lo tennero
a modello per i propri cicli di Lieder, Schubert per Die schöne Müllerin e
per Die Winterreise, Schumann per il Liederkreis, per Frauenliebe
und Leben e per Dichterliebe. Ma il carattere del ciclo
beethoveniano è molto diverso, molto particolare, se mai più vicino a Mahler e
perfino a Wolf che a Schubert o Schumann. Tanto il ciclo, che le Bagatelle
e le Variazioni possono sembrare già pagine romantiche, ma non lo sono.
Non è romantico il furore d’individualità che le percorre, l’idea di affidare
alla struttura astratta dell’opera e non agli effetti strumentali o vocali il
suo significato profondo. Non che i compositori romantici, Schumann in testa,
non strutturassero rigorosamente le loro opere, si pensi al Carnaval e
agli Studi sinfonici, ma laddove i romantici costruiscono un universo in
espansione, Beethoven imposta un’architettura impenetrabile, monolitica: i temi
si sviluppano e si modificano all’interno dell’opera, ma le loro modificazioni
sono regolate dal piano generale. L’ultima modificazione illumina la prima, ma
il cerchio si chiude, e non è permesso uscirne. In tal senso un’opera di
Beethoven è sempre un’opera chiusa, conclusa. Forse il compositore romantico
che gli si avvicina di più, in tal senso, è lo Chopin dei Preludi, e
forse non solo quello. E’ vero che negli ultimi quartetti un’idea comune di
base si estrinseca in ciascun quartetto, ma cionondimeno ogni quartetto è
un’unità inconfondibiole. Fa eccezione la Grande Fuga, ma perché essa è
stata pensata non come pezzo a sé, bensì come Finale dell’op. 130. Beethoven,
dunque, anche nelle opere tarde non rinuncia a strutturare unitariamente,
capillarmente tutta la pagina, a costruire insomma una macchina che funzioni da
sé. E’ probabilmente questo il motivo per cui ricorre molto raramente alla
cosidetta forma Lied, così cara invece ai romantici. Gli doveva sembrare
puerile, meccanica, troppo poco strutturata. La base di ogni sua costruzione
resta quella della forma-sonata, vale a dire di un meccanismo che genera la
propria forma di volta in volta, ogni volta diversamente. Anche in ciò
Beethoven sembra anticipare il pensiero musicale di certe avanguardie del
Novecento. Ed è forma-sonata, per Beethoven anche la variazione, anche la danza.
O piuttosto: i procedimenti della variazione e la spinta motoria della danza
vengono piegati a strutturarsi come sonata. Ciò gli è possibile perché non ha
nessuno schema di sonata. E’ anzi sonata proprio lo strutturarsi della
variazione e della danza. C’è già in Haydn il modello di una simile concezione
della forma-sonata. Particolarmente evidente nel sistema di variazione adottato
più volte da Haydn: quello di alternare le variazioni di un tema minore e di un
tema maggiore, in cui però il secondo tema è già variazione del primo. Variante
beethoveniana di questo sistema sono le Variazioni op. 35 e il Finale
dell’Eroica. I Lieder di An die ferne Geliebte ne sono un’altra
variante.
Tutto il ciclo
dei sei Lieder è programmato come un cerchio tonale che torna su se stesso:
Mi b Sol
La b La b Do
Mi b
Quasi una
forma a specchio, in realtà la successione tonale si presenta come
un’espansione del campo tonale di mi bemolle[17]. Le
tonalità sono tutte nel modo maggiore. Il sol del secondo Lied si spiega come
trasporto al modo maggiore della tonalità di sol minore, relativo minore di si
b, dominante di mi b. Beethoven ancora una volta evita l’intonazione esplicita
della dominante e preferisce un percorso alternativo, che conduca a una
tonalità imprevista. Ma i rapporti con una dominante non sono evitati se si
considerano le relazioni tonali tra il primo e il terzo Lied e tra il quarto e
il sesto: Mi b La b La b Mi b. In rapporto di tonica e dominante stanno anche
il secondo e quinto Lied, in cui la tonica è intonata per ultima, in modo da
fare apparire il movimento alla tonica come un movimento alla sottodominante:
Sol Do. Tale appare anche il movimento Mi b La b, che però si chiarisce quando
s’inverte in La b Mi b. Al solito, per Beethoven, la dominante ristabilisce la
tonalità d’impianto.
La geometria
armonica si rispecchia nella geometria tematica dei Lieder.
Il primo Lied,
“Auf dem Hügel sitz ich, spähend”[18], Ziemlich
langsam und mit Ausdruck[19],
ripete cinque volte la stessa melodia al canto, mentre sotto il pianoforte
intona cinque diverse figurazioni di sostegno, via via sempre più mosse e
concitate. Il testo imposta la situazione fondamentale del ciclo: l’amante
siede su una collina e guardando nel cielo pensa all’amata lontana. Alois
Jeitteles non è un grande poeta, ma Beethoven non cerca la grande poesia,
chiede al poeta di disegnare con chiarezza d’immagini alcune situazioni
sentimentali: il resto lo fa la musica. L’andamento sempre più concitato del
pianoforte rende bene l’ansia dell’amante verso l’amata lontana, mentre la
ripetizione sempre uguale della linea vocale, per tutt’e cinque le strofe
trasferisce nel canto l’ossessione di un’idea fissa che ritorna nella mente
dell’innamorato piena di desiderio inappagato:
Weit bin ich von dir geschieden,
trennend
liegen Berg und Tal
zwischen
uns und unserm Frieden,
unserm
Glück und unser Qual[20].
.
L’accordo di
mi b maggiore che lo chiude viene spogliato della dominante si bemolle e
presentato tre volte con mi b al basso e sol alla mano destra. Nel Lied
successivo il mi b scende sul re e al sol della destra si aggiunge un si
naturale. Ecco sol maggiore, la
tonalità del secondo Lied, “Wo die Berge so blau aus dem nebligen Grau schauen”[21],
Ein wenig geschwinde[22].
Poco Allegretto. Tre strofe intonate anch’esse, come nel primo
Lied, su un unico motivo, ma il motivo nella seconda strofa, in do maggiore, è
affidato al solo pianoforte, mentre la voce si limita a riprodurne solo il
ritmo sullla dominante sol.
Impressionante
il carattere schubertiano di questo Lied, carattere che divide con il secondo
tempo della Sonata op. 90. E’ una via che Beethoven sta per imbroccare
prima di Schubert, quella dell’espansione melodica del tema: ma gli esperimenti
intrapresi, grosso modo dall’op. 78 all’op. 96 e qui, nel ciclo di Lieder,
vengono subito riassorbiti nella complessa strutturazione armonica e tematica a
lui congeniali e questo rende il procedere di Beethoven assai diverso da quello
di Schubert, anche quando invece sembra simile. In altri termini, Beethoven non
perde mai di vista un centro tonale unico, un punto centrale di riferimento,
intorno al quale le espansioni melodiche e le divagazioni armoniche restano
subordinate, e in tal senso la teoria armonica di Schoenberg coglie
perfettamente il fenomeno[23].
Invece Schubert slitta pericolosamente in regioni via via più lontane fino
quasi a perdere di vista la tonica principale, restano invece sempre distinte
le funzioni modali, a caratterizzare i diversi aspetti di un tema. Insomma:
Beethoven è centripeto, Schubert centrifugo. Ecco perché Schubert rappresentò
per più di una generazione di compositori romantici, da Schumann a Brahms, da Chopin a Bruckner, da Mendelssohn a
Wagner, l’ancora di salvezza nel disordine cromatico delle loro invenzioni e il
modello alternativo a Beethoven, la cui compattezza armonica appariva a loro
troppo inflessibile e perciò li spaventava. A Beethoven comunque l’esperienza
del divagare melodico, appreso dal tardo Mozart, è servito per saggiare la
possibilità di enunciati melodici apparentemente poco incisivi che entrino
piano piano nella forma, la costruiscano per così dire sottovoce,
discretamente, senza gonfiare le gote. E nascono alcuni incipit sublimi: l’op.
101, di cui ci occuperemo tra poco, l’op. 109, 110, l’op. 131, la maggior parte
delle Bagatelle op. 119 e 126. Il testo, di tre strofe, esprime il
desiderio di seguire le nuvole per raggiungere l’amata: “bei dir ewiglich
sein!”, essere eternamente da te. Ed è questa immobilità alla quale l’amante
aspira, che la musica rende con il movimento singhiozzante delle terzine. La
seconda strofa è intonata dal cantante solo sulla tonica Sol, divenuta però ora
dominante di Do maggiore. Con la terza strofa si torna a Sol maggiore.
Nel terzo
Lied, “Leichte Segler in den Höhen”[24], Allegro
assai, in la bemolle maggiore, l’amante chiede alle nuvole, al ruscello,
agli uccelli, al vento, di portare i suoi sospiri all’amata. Cinque strofe
intonate con respiro affannato dalla voce su un movimento rapido di terzine, ma
la terza, proprio in mezzo, che tocca la tonalità di mi bemolle minore, modo
minore della tonica inziale e finale del ciclo, si distende su un movimento
regolare di semiminime. La quarta e la quinta strofa riprendono l’andamento
affannato delle prime due, crome alternate a pause di croma, nella linea
vocale, terzine agitate al pianoforte (anche qui pare di sentire un’eco di
analoghe terzine schubertiane).
Il quarto Lied, “Diese Wolken in den Höhen”[25],
Nicht zu geschwinde, angenehm und mit viel Empfindung [26],
anch’esso in la bemolle maggiore, comprende di nuovo tre strofe. Il
poeta vorrebbe raggiungere l’amata con le nubi, gli uccelli, i venti che
scherzano con i suoi riccioli. Una serie di mordenti e di trilli agitano le
singhiozzanti terzine del pianoforte nella prima strofa in un cullante 6/8. Le
altre due strofe si distendono quasi in un ritmo di barcarola (le nuvole nel
cielo, che nel terzo Lied il poeta aveva chiamato “vele”?).
Due lunghi
trilli del pianoforte, seguiti da altri trilli più brevi (quattro) e da un
vivace movimento di crome, la cui figurazione deriva comunque dal motivo del
primo Lied (su questo torneremo), introducono al solare do maggiore del quinto
Lied, “Es kehret der Maien, es blühet di Au”[27], Vivace.
Do maggiore come tonalità della rinascita, dell’inizio, o della fine che si
ricongiunge all’inizio. La tonalità si trova una terza minore sotto la tonalità
d’impianto di tutto il ciclo ed è pertanto anche la tonica del relativo minore,
ma Beethoven ha progettato per il ciclo solo il modo maggiore, che oltre tutto
rende più evidente il rapporto di terza: la tonica finale è la mediante del
penultimo Lied, un’altra volta Beethoven aggira il rapporto di tonica e
dominante e a seconda di come si legge la direzione è uno spostarsi sulla
mediante o uno scendere nel relativo minore. Il modo minore sarà toccato nella
strofe centrale del Lied, ma è mi bemolle, la tonica, non la terza inferiore,
quasi lo spettro inquietante, sotterraneo, dell’affermativo modo maggiore. E’
uno strano segno che Beethoven comunica all’ascoltatore: come l’incrinatura di
una volontà che persegua il bene agognato. C’è, infatti, un’aria campestre e
festosa che ricorda la Pastorale. Ma quell’improviso mi bemolle minore
sembra un ferita interiore che improvvisamente ricomincia a sanguinare. Un ritardando
prepara la lunga modulazione a mi bemolle maggiore, partendo dal Tempo I
(Vivace): e prepara la situazione del distacco. Due volte: la prima alle
parole
“Es kehrt der Maien, es blühet di Au,
Die
Lüfte, sie wehen so milde, so lau.
Al
terzo verso comincia il ritardando: “nur ich kann nicht...”. La
situazione si ripete alla strofa seguente:
“Wenn alles was liebet, der Frühling
vereint,
Nur
unserer Liebe kein Frühling erscheint,
Und
Tränen sind all ihr Gewinnen”[29].
Ma
questa volta il ritardando comincia già al secondo verso, alla parola Frühling,
primavera, e l’ultimo verso viene ripetuto tre volte, la terza rinforzato
dall’affermazione ja: “ja, all ihr Gewinnen”. Beethoven doveva sentire
profondamente il dolore di un distacco. Lo sentiva come qualcosa d’innaturale,
lacerante. Alcune delle sue pagine più tremende e più belle sono legate al
desiderio di ricongiungersi con chi si ama. Si pensi all’ansia colma di
angoscia con cui Leonore scruta, nel Fidelio, il volto dei prigionieri
per vedere se tra essi scorge quello del marito. O quando ne riconosce la voce
nella cisterna e in un momento che Beethoven ha voluto senza musica, come se
solo il silenzio potesse essere il religioso commento del riconoscimento, alla
domanda di Rocco che le chiede se riconosca quella voce, Leonora risponde: “Ja,
sie dringt in die Tiefe des Herzens”[30].
Nella Sonata in mi bemolle maggiore op. 81 a, Das Lebewohl - Les adieux,
che è dunque nella stessa tonalità del ciclo An die ferne Geliebte, è
sublimato, musicalmente, ma non solo, il sentimento insopportabile del
distacco. La cellula generatrice, tre accordi che dal bicordo mi bemolle-sol,
attraverso il bicordo si bemolle-fa (dominante), conducono imprevedibilmente
alla triade di do minore (come l’arrivo a do, ma maggiore, nel ciclo), do (alla
mano sinistra) - sol - mi bemolle, è modellata sull’intonazione della parola
tedesca Lebewohl, addio, delle cui tre sillabe ciascuna è soprascritta
sui tre accordi: Le-, mi bemolle - sol; be-, si bemolle - fa; whol, do - sol -
mi bemolle. Ancora più interessante il fatto che il profilo melodico
dell’introduzione, Adagio, sia costruito ad arco, anche se con
intervalli più dilatati, esattamente come il profilo melodico del motivo
generatore del ciclo di Lieder. La sonata, però, ha un esito felice, Das
Wiedersehen - Le retour, che il ciclo non prevede.
Il
sesto Lied, “Nimm sie hin denn diese Lieder”[31], Andante
con moto, cantabile, l’ultimo, in mi bemolle maggiore, come il primo, fa
ricomparire, anche, verso la fine, il suo motivo d’apertura. Il ciclo ritorna
su stesso. Ma riudito, il motivo porta con sé tutte le tracce delle sue
trasformazioni, si sbriciola, si sgretola, per una fine apparentemente gioiosa,
come quasi sempre in Beethoven, ma che appare più come una speranza di gioia
che come una gioia conquistata. Nei taccuini, proprio in quegli anni, Beethoven
scrive: “Freude durch Leiden”, gioia attraverso i dolori. Un ricordo di Werther
e dell’amato Goethe? Non sappiamo.
Ma
qualcosa va detto sul profilo di questo motivo e sulle sue trasformazioni:
tutto il ciclo infatti è costruito come una serie di variazioni sui generis,
che combinano la variazione con la tecnica dell’elaborazione tematica, come se
costituissero il gigantesco sviluppo d’un’immaginaria sonata o piuttosto la
sonata stessa che ci presenta in ogni Lied una nuova faccia del tema, con
un’arte consumata delle varianti che fa già pensare ai sistemi delle ultime
sonate e degli ultimi quartetti e perfino alla tecnica usata nelle Variazioni
Diabelli. Tra il 1816 e il 1817 Beethoven non compone opere d’impegno, quasi solo lavori occasionali. Salvo questo
ciclo di Lieder e la bellissima Sonata in la maggiore op. 101. Ma queste
due opere costituiscono quasi una svolta, nel senso che il pensiero musicale di
Beethoven si fa sempre più astratto e radicalizza la tendenza che pure era
affiorata fin dagli anni giovanili, vale a dire la tendeza a intellettualizare
l’atto del comporre, proprio nel momento in cui però il compositore chiede
all’ascoltatore una partecipazione emotiva assoluta. Il fatto è che Beethoven
non trucca le carte, non cerca di affascinare o abbindolare l’ascoltatore con
qualche fantasmagoria musicale: vuole convincerlo, persuaderlo, anche con le
arti della retorica, si rivolge insieme al suo cuore e alla sua intelligenza.
Della sua intelligenza, anzi, ha un estremo bisogno: perché all’ascoltatore
Beethoven chiede prima di tutto di essere capito. Perciò il pubblico al quale
si rivolge è un pubblico di persone intelligenti, le sue sfuriate più frequenti
e più rabbiose scoppiavano proprio quando qualcuno, tra quelli che gli erano
più vicini, il nipote compreso, non capiva che cosa avesse scritto. Come
quell’“Asini!” che gli eruppe dal petto quando gli dissero che la Grande
Fuga non era stata bene accolta. Nell’ultimo periodo, proprio partendo
dall’op. 98, una pagina intima quanto altre mai, e dall’op. 101, però Beethoven
sembra voler rinunciarsi all’arte della persuasione, alla distribuzione
retorica delle perorazioni, per concentrarsi tutto sui procedimenti interni della
composizione, come se l’astratta cellula dell’evoluzione tematica fosse il nudo
cuore, lo spoglio pensiero in cui si racchiude il segreto della musica e
dunque, per lui, della vita. Ma non la cellula emerge o deve avere valore,
bensì la viva forma a cui dà concreta figura. E’ come se chiedesse
all’ascoltatore di entrare nel suo laboratorio. Tutto ciò che vi accade, agni
minimo atto, ogni minimo gesto, sono pieni di significato.
Il motivo iniziale del
ciclo ribatte tre volte la dominante si bemolle, per poi raggiungere per gradi
congiunti, una quarta sopra, la tonica mi bemolle e scendere con un salto di
sesta minore, sulla mediante sol. Letta verticalmente, la successione profila
il primo rivolto della triade di mi bemolle maggiore. Ma la frase si chiude in
si bemolle maggiore, cioè alla dominante, che si rivela però subito il punto
per ritornare alla tonica (come poi nell’op. 130). Una prima variante della
testa del motivo è quindi, subito dopo, introdotta: invece di ribattere il si
bemolle, Beethoven fa adesso intonare si bemolle - do, ma poi, invece di
salire, ritorna sul si bemolle che risolve, come un’appoggiatura, sul la
naturale, scende cromaticamente a la bemolle per risalire al si bemolle e
rilanciare un’altra appoggiatura, la bemolle - sol. Su questi due elementi: il
motivo d’apertura ad arco per gradi congiunti e la figura dell’appoggiatura è
costruito tutto il ciclo. Di Lied in Lied una figura ritmica del Lied
precedente o un intervallo che acquisti improvviso risalto (per esempio il
salto di sesta discendente esaltato dal pianoforte tra una strofa e l’altra del
primo Lied, ricavato dalla testa del motivo vocale) generano la cellulla
tematica del Lied successivo. Il passaggio dal primo al secondo Lied è
evidentemente suggerito dalla figura di tre crome ascendenti per grado
congiunto da do a mi bemolle, nella seconda e terza battuta (il mi bemolle è la
nota di arrivo sul tempo forte della misura) del primo Lied. Ma qui la figura
viene isolata, e proprio la pausa che irrompe tra una proposta e l’altra della
figura conferisce all’andamento del Lied il suo si direbbe tipico sapore
schubertiano. Tra il secondo e il terzo Lied è la figurazione di terzine a
costituire l’anello di congiunzione. E così via. E’ più bello scoprirlo, il
segreto di questo laboratorio musicale, che lasciarselo spiegare punto per
punto. Queste note non vogliono costituire un saggio completo di analisi, ma
solo lo stimolo a procedere da sé nel lavoro affascinante ed emozionate di
analizzare una pagina di Beethoven.
Sonata in la maggiore op. 101
“Nell’op.
101 il concetto di ‘tema’ è per così dire integrato in quello di ‘melodia’,
come se l’Allegretto ma non troppo non fosse il primo, bensì il secondo
movimento lento di una sonata. D’altro canto proprio perché la cantabilità
della voce principale mette in pericolo il carattere di processo della sonata,
all’ ‘istanza contraria’ del cantabile, all’istanza estetica e tecnica del
fattore ‘subtematico’, spetta una funzione o un’importanza che va ancora oltre
quella acquistata nel ‘periodo di transizione’, nell’op. 78 e nell’op. 81 a”.
Così
Dahlhaus[32]. Cerchiamo di
approfondire. Il fattore subtematico, come lo chiama Dahlhaus, è
costruito dalla cellula di intervalli caratteristici sui quali sono costruiti i
temi. La cellula non è il tema, ma la base, le fondamenta del tema. Un tema,
una melodia si caratterizzano per il loro ritmo, anche un movimento costante di
crome è un ritmo, Bach vi costruisce molti dei suoi mirabili preludi. Invece
una cellula tematica è una pulsione caratteristica o un intervallo particolare:
la quinta vuota e il giambo nel primo tempo della Nona, associati in un
unico impulso. Nell’op. 111 l’intervallo è la settima diminuita (e la quarta
diminuita, che ne costituisce una sorta di analogo, per contrazione), anche qui
associata al giambo. Ma tanto il tema che la cellula tematica da cui deriva
partono da un elemento più astratto, una successione di intervalli, che
costituisce lo scheletro, il diagramma sotterraneo di tutta la composizione:
nell’ultimo tempo della Jupiter di Mozart la successione do re fa mi. E’
questo elemento che Dahlhaus chiama fattore subtematico. Non si comprendono gli
ultimi lavori di Beethoven, non si entra per così dire nel suo laboratorio, se
non si tiene presente questo suo modo di procedere. Sembrerebbe che Beethoven
indietreggi alle radici del contrappunto, per approdare alle origini della
polifonia, all’Ars Nova francese, al contrappunto matematico di Dufay, alle
geometrie sonore di Ockeghem e Josquin. Ma non è così. Non sappiamo oltretutto
se li conoscesse. Quanto gli serve lo trova già in Bach e in Haendel. Però non
è un indietreggiare. Lo sguardo all’indietro verso la tradizione dalla quale si
è nati è anche lo sguardo più lungo verso il futuro. Beethoven non imita i suoi
predecessori: ne studia il pensiero, ne analizza i procedimenti. Haendel e Bach
li sente suoi contemporanei, per il solo fatto che i loro procedimenti possono
ancora fecondare nuovo pensiero musicale. Accade a lui ciò che era già accaduto
al Bach dell’Offerta Musicale e dell’Arte della fuga: sembra contrastare il moderno, per ribadire
la tradizione antica, e di fatto scavalca la modernità effimera della moda per
lanciarsi nell’esplorazione di ciò che sarà molto dopo il vero moderno.
Indubbiamente Bach oppone i propri monumenti contrappuntistici a quello che
ritiene il facile melodizzare galante, vale a dire la monodia
accompagnata dell’opera italiana. C’è certo l’orgoglio dell’artefice, il
disprezzo del magister musices per quei musicanti che gli sembrano
nient’altro che superficiali dilettanti. Ma c’è anche la consapevolezza, non
solo del compositore, bensì anche del luterano, che nel contrappunto risieda la
serietà della musica. Un simile atteggiamento non è estraneo a Beethoven, che
pure ha invece radici cattoliche. In Beethoven la serietà della musica è
sentita come imperativo morale. Nella pagina non si possono truccare le carte,
non si può mentire. L’integrità, l’onestà intellettuale di Beethoven è tra le
più assolute dell’arte d’Occidente, se si pensa a un confronto si pensa a
Dante, a Michelangelo, a Rembrandt (olandese! come le sue origini), a
Cervantes. Ma in lui forse ancora più radicale. I deputati europei che hanno
scelto l’Inno alla Gioia come inno dell’Unione non potevano scegliere
simbolo più alto e più pertinente della civiltà europea, la cui identità più
profonda sta proprio nell’ansia di universalità, di sfondamento delle barriere,
di assimilazione degli altri, si pensi al ruolo della musica degli zingari
nella musica spagnola e ungherese[33], in
ogni caso: “seid umschlungen, Millionen”. Che Bach, comunque, guardasse lontano
è dimostrato dal fatto che solo con l’innesto del contrappunto nell’impianto
monodico dell’opera italiana si ha l’esplosione dello stile che siamo abituati
a chiamare classico. Il primo a compiere l’innesto con estrema
consapevolezza è Haydn, a lungo, anzi forse per tutta la vita, il modello più
amato da Beethoven[34].
L’innesto non avvenne senza contrasti, senza urti o stridori né senza rischi.
Il miracolo dell’equilibrio mozartiano resta appunto un miracolo, e del resto
anche la musica di Mozart è percorsa sotterraneamente da squilibri e terremoti,
che si avvertono alla superficie sotto forma di esasperato cromatismo e di
spericolate dissonanze (Adagio della Sonata in la minore K. 310 o
Andante della Sonata in fa maggiore K. 533, col rondò K. 494 ). Beethoven ritesse tutte le fila, fa i
conti col passato e col presente, rifonda da capo uno stile, col senso non già
di proporlo come definitivo, ma finale, ultimo[35], dal
quale si può solo guardare avanti, e dal quale non si può tornare indietro.
Monodia e polifonia non incontrano affatto una conciliazione, si scontrano. Ma
è proprio in questo scontro che entrambe sono sentite necessarie, anzi che è
sentito necessario lo scontro: lo scontro è la verità della musica in quella
situazione, mascherarlo, camuffarlo, ammorbidirlo, sarebbe mentire. Né la
melodia da sola, né il contrappunto, senza elaborazione tematica, possono
costituire una via di uscita. Se mai l’elemento unificante viene riscontrato
nella variazione. Variazione, variante, elaborazione a poco a poco per
Beethoven diventano un unico procedimento e il contrappunto allora si presenta
insieme come una forma di variazione e di elaborazione. Proprio l’op. 101 ne è
un esempio mirabile. Nell’ultimo tempo, infatti, tutto lo spazio
dell’elaborazione o sviluppo è occupato da una fuga.
Ma
da che cosa nasce l’impressione che quando comincia la sonata, come scrive
Dahlhaus, ci sembra di ascoltare non il primo tempo di una sonata, ma il tempo
moderato, cantabile, che segue al primo o talvolta allo scherzo? Beethoven
sfrutta fino in fondo l’abilità acquisita con l’op. 78, l’op. 90,
nell’impostare temi cantabili. L’andamento pacato del tema rammenta certi
attacchi mozartiani: K. 332 in fa maggiore, K. 333 in si bemolle maggiore, K.
533 in fa maggiore. Il fattore subtematico lo troviamo subito all’inizio, nella
voce di contralto: mi, re diesis, re, do diesis, si. La sua inversione offre il
profilo tematico alla seconda idea. Il ritmo sincopato delle battute 29-34,
riproposto alle battute 37, 39-40, e ripreso nel passo analogo della
riesposizione, è derivato dal ritmo del primo tema, mutilo della testa. Tutto
il brano del resto è costruito attraverso minuziose corrispondenze. Il
movimento base, nel tempo di 6/8, è costituito dalla semiminima seguita dalla
croma, e tale ritmo innerva sia il primo che il secondo tema, al punto che del
secondo non se ne percepirebbe né il momento dell’entrata né la differenza se
il salto tonale a mi maggiore, campo armonico della seconda sezione
dell’esposizione, non venisse preparato dalla variante ritmica del ritmo base,
nella successione sincopata di accordi delle battute 29-40. Tutto il carattere
del brano è bene espresso dalle indicazioni agogiche, in tedesco e in italiano,
poste all’inizio: “Etwas lebhaft und mit der innigsten Empfindung[36].
Allegretto, ma non troppo”.
Il
movimento successivo, in fa maggiore, è un tempo di marcia, come recita la
doppia indicazione agogica, in tedesco e in italiano: “Lebhaft, Marschmässig.
Vivace alla marcia”. La tonalità di fa maggiore si spiega come rapporto di
tonica con una dominante do, che però in quanto tonica è il relativo maggiore
di la minore, modo minore della tonica la, che nel modo maggiore è la tonalità
della sonata. Il giro sembra un po’ lungo, ma diventa comprensibile se
immaginiamo i campi armonici di la, do e fa in relazione tra loro. Il percorso
verrà infatti chiarito dal breve, ma sublime, tempo lento che segue la marcia,
il quale è nella tonalità di la minore. Il ritmo base della marcia è una
diminuzione del ritmo del primo tempo: croma seguita da una semicroma. Innerva
tutta la marcia. Nel trio tale ritmo viene per così dire dilatato: semiminima
puntata seguita da due semicrome, a cui però fa seguito una successione di
crome avviata, alle battute 56-57, da una figura di semiminima puntata seguita
da una croma: occupa la prima metà della battuta 56 e tutta intera, ripetuta
due volte, la battuta 57. Le quartine di crome sono una variante delle terzine
di crome del primo tempo. La tonalità del trio è nel regolare grado della
dominante di fa, si bemolle. Il fattore subtematico, per intero o a frammenti,
nella forma originale e nella sua inversione, percorre da cima a fondo tutta la
marcia, e si fa evidente, diventa quasi una figura tematica, soprattutto nel
trio, che d’altra parte per più versi si presenta come memoria variata del
primo tempo, anticipando così il riapparire tale e quale del primo tema del
primo tempo che, dopo l’intenso e riflessivo respiro del tempo lento, precede
l’irruzione vitalistica del finale. Tutta la sonata del resto è costruita con
una coerenza, una fitta trama di corrispondenze che la rendono particolarmente
compatta, il che tuttavia non comprime, ma anzi esalta l’inesauribile libertà
dei procedimenti messi in atto: l’effetto di sorprendente (alla lettera: che
desta sorpresa) varietà che la sonata genera nell’ascoltatore non è infatti in
contraddizione con l’inflessibile unità della concezione tematica in quanto la
varietà è generata non già dal dispiegarsi di idee diverse, ma dal
moltiplicarsi degli aspetti imprevedibili che assume l’idea tematica
fondamentale.
Ed
ecco il sublime terzo movimento: “Langsam und sehnsuchtvoll. Adagio, ma non
troppo, con affetto”. La traduzione italiana, dello stesso Beethoven, non rende
bene il senso dell’espressione tedesca sehnsuchtvoll: pieno di
nostalgia. E anche il termine nostalgia non rende bene il senso del termine
tedesco, più complesso del termine italiano, anche se di solito la parola Sehnsucht
si usa tradurla appunto con nostalgia. Se mai, è più vicina al senso del
termine tedesco la parola inglese longing. Sehnsucht è parola
composta dalle radici di due verbi: sehnen, anelare, da cui il
sostantivo Sehnen, brama, desiderio, struggimento, e suchen,
cercare. Quindi qualcosa come ricerca dell’anelito, ansia di rivivere il
proprio desiderio. E’ parola assai cara ai tedeschi, infiamma tutto lo Sturm
und Drang, e percorre da cima a fondo tutto il romanticismo fino a Wagner,
che ne fa il tema centrale del Tristano, dove però il sehnen e la
Sehnsucht aspirano a un originario regno della Notte, che è naturalmente
la Morte. E’ probabile che la pagina beethoveniana lo abbia guidato
nell’invenzione di quel terribile inno alla morte che è il Tristano,
tutta percorsa com’è la straordinaria partitura, a cominciare dal preludio,
di memorie beethoveniane: in particcolare dell’introduzione della Patetica,
dell’op. 101, appunto, e dell’Adagio della Nona. Lo struggimento stürmisch
e romantico della Sehnsucht, veramente, lo ritroviamo ancora in Mahler,
in Berg, e perfino in Webern, oltre che nell’impossibile sogno del Cavaliere
della rosa e del Capriccio straussiani. Ma è in Goethe, poeta
amatissimo da Beethoven, che il termine acquista una complessità non solo
emotiva, bensì anche filosofica, dalle mille facce, e viene quasi sempre
associato alla passione, al soffrire, ma anche alla rinuncia, alla sofferenza
della rinuncia che instilla in cuore il dolore del desiderio inappagato e
inappagabile. E’ il nocciolo del Werther, ma anche dell’Egmont,
tragedia per la quale Beethoven ha composto le musiche di scena, e soprattutto
intride da cima a fondo le pagine del Wilhelm Meister e il personaggio
di Mignon: “Nur wer die Sehnsucht kennt, weiss was ich leide[37]”. Lo
stato d’animo che più si avvicina al concetto espresso dalla parola tedesca Sehnsucht
è bene individuato da Aristotele in un suo trattatello famoso: è la malinconia,
la meláine chóle, la bile nera, che il filoso addita non come termine
sentimentale, bensì come termine medico, e come tale indica la sospensione
della psiche tra diverse disposizioni emotive e riflessive, lo stato
d’instabilità emotiva e intellettuale, che può precipitare l’individuo nella
pazzia, ma che tenuto sotto controllo è lo stato ideale del filosofo e
dell’artista. Tutti i filosofi e tutti gli artisti, dice Aristotele, sono
malinconici[38]. Nel Rinascimento e nel Barocco la Malinconia
diventa oggetto di riflessione, di poesia e viene raffigurata dai pittori: la
figura di Amleto, ma anche di Don Chisciotte, e l’incisione del Dürer che s’intitola
appunto La Malinconia sono tra gli esempi più alti di questa
conversazione con la malinconia. Ebbene, l’intensità, la voracità, la
profondità di questo stato d’animo, la sua terribile forza di verità, che ti
mette a corpo a corpo con la vita, con la morte, con te stesso, è la sostanza
di questa sublime pagina beethoveniana[39], del
compositore che non si tira indietro, che non trucca le carte, che guarda in
faccia la verità, fosse anche la verità della morte. L’ascoltatore sente
spalancarsi sotto i piedi un abisso, che non è l’enfatico abisso del nulla, o
una retorica immagine poetica, ma l’abisso di se stessi, Beethoven ti obbliga a
guardarti dentro, a vederti non come vorresti apparire, ma come sei. E’ una
pagina brevissima, appena 20 battute. Ed è costruita tutta quanta sulla figura
di un abbellimento: il gruppetto. Parte, in la minore (alla fine capiremo
perché), riproponendo il ritmo del primo tempo, ma suddiviso binariamente
invece che ternariamente, e in ciò si riattacca alla marcia. Subito, però, al
secondo quarto della prima battuta di 2/4, s’inserisce la figura del gruppetto,
che dalla battuta 9 alla battuta 17 costituisce l’unica figura a condurre
avanti il brano, una ripresa variata del ritmo d’apertura conduce a una cadenza
leggerissima. derivata dalla figura del gruppetto, per espansione melodica (il
procedimento sarà ripreso da Bartók). La cadenza sfocia nella ripresa del primo
tema del primo tempo. E che ci fa questo ritorno dell’inizio? Una sospensione
alla seconda battuta[40] (una
pausa di croma coronata) interrompe però il procedere del tema, che si blocca
un’altra volta sul primo quarto della quinta battuta, la pausa coronata questa
volta è del valore di una semiminima. L’ultima figura, una terzina, si ripete stringendo,
e conduce a un lungo trillo sulla dominante di la, mi, sotto il quale la
sinistra batte il ritmo principale del tempo, altra trasformazione del ritmo
del primo tempo, della marcia e dell’Adagio. Come sempre in Beethoven,
soprattutto nel priodo tardo, il trillo ha una funzione e un effetto
liberatori, e costituirà inoltre parte della costruzione tematica del tempo.
Del resto il trillo assolve una funzione liberatoria proprio perché invece di
essere un ornamento ha una funzione tematica, si pensi al trillo che attacca il
soggetto della fuga dell’op. 106. Ma prima di esaminare l’Allegro
finale, qualche parola ancora sull’Adagio. La tonalità di la minore,
oltre a legittimare il fa maggiore della marcia, svolge anche la funzione di
preparare il ritorno alla tonalità d’impianto della sonata, la maggiore, in
maniera soffice, delicata, semplicemente alzando di un semitono la terza,
procedimento che sarà molto caro a Schubert e che a Beethoven evita il ricorso
al troppo enfatico ingresso con una settima di dominante. La tonica è già annunciata
dall’Adagio, ma nel modo minore. L’ascoltatore è un’altra volta deviato.
Perché l’accordo di apertura dell’Adagio, come accadrà nell’Adagio
dell’op. 106, sembra orientarlo verso un’altra direzione. Beethoven attacca,
infatti, il brano con l’accordo della dominante di la, mi, ma con sol diesis al
basso, (un’altra volta, in Beethoven, la dominante ribadisce la tonica, non
avvia ad altri gradi), tale accordo è identico sia nel modo maggiore che in
quello minore. Il sol diesis grave, invece di risolvere sul la, e rivelarsi per
quello che è, la sua sensibile, devia sul si, che s’unisce al re della mano
destra. Poi, sul secondo quarto della battuta, scende al la e appare finalmente
la triade di la minore. La cadenza sembra ripetere a specchio quest’andamento
armonico. Ma questa volta per portarci alla tonalità definitiva di la maggiore,
la tonalità d’impianto della sonata.
“Geschwind, doch nicht zu sehr, und mit
Entschlossenheit[41]. Allegro“,
scrive Beethoven sul lungo trillo di dominante. Il ritmo deriva da quello della
marcia. Ma ha il suo nucleo generatore nel tema del primo tempo. Così come si presenta nel
finale, se ne ha una prefigurazione alle battute 20-28 del primo tempo.
Caratteristica del tema del finale è, come avverrà per il tema del primo tempo
dell’op. 111, la sua ambiguità: più che un tema, sembra il soggetto di una
fuga. Ciò deve preparare l’ascoltatore ad aspettarsi un brano di fitta
elaborazione contrappuntistica. Il che di fatto avviene, ma chiarisce anche,
d’altra parte, che il carattere dell’intera sonata è contrappuntistico, nel
senso che l’esplicitarsi del contrappunto nel finale illumina a ritroso quanta
parte abbia avuto il contrappunto nella costruzione di tutti i tempi della
sonata. Non solo: anche un orecchio distratto coglie l’affinità tra l’andamento
sincopato delle battute 44-48 e gli accordi che preparano l’ingresso di mi
maggiore nel primo tempo. Così come afferra la somiglianza della figura di tre
crome alle battute 50 e 52, e la figura predominante dei due temi del primo
tempo, compresa l’anacrusi delle battute 49 e 51. Nella battuta 51, anzi,
l’anacrusi è preceduta dal bicordo sul secondo ottavo, di modo che tutta la
successione delle battute 44-51 si presenta come una sintesi dei caratteri
principali del primo tempo. La seconda sezione dell’esposizione, o secondo tema
(ma distinguere i temi in una sonata come questa non solo è vano esercizio
scolastico, ma non rende ragione dei reali processi messi in moto da
Beethoven), trae il proprio ritmo dalla marcia, ma poi il conseguente si
distende sullo stesso ritmo del tema di apertura, esposto in maniera più
graziosa. Ciò rende palese l’affinità tematica delle due sezioni. O meglio:
tutta la sonata consiste nel progressivo espandersi e trasformarsi di un’idea
tematica originaria, che non è detto sia quella che si presenta per la prima
volta, potrebbe essere questa sua apparizione nel finale l’idea definitiva e
compiuta verso la quale tende l’intero lavoro del compositore. Il fattore
subtematico, allora, funzionerebbe da collante. Tale fattore in questa seconda
sezione è spudoratamente esibito alle battute 81-88, col ritmo della marcia.
Alla battuta 123 (236, se si considera la ripetizione dell’esposizione)
comincia lo sviluppo. Qui troviamo un’altra sorpresa, tra le molte di questa
sorprendente sonata. L’intera sezione dello sviluppo è realizzata da una fuga
che va dalla battuta 123 alla battuta 231. Beethoven ci ha abituato fin dalle
opere giovanili a sviluppi molto originali, in qualche maniera anomali, sia dal
punto di vista armonico che tematico. Ma qui supera se stesso: Lo sviluppo non
è una zona di libera e divagante elaborazione armonica e tematica, bensì il
punto di maggiore concentrazione del brano, il momento in cui la forma della
sonata si raddensa nella chiusura di un’altra forma e l’accoglie, l’assimila,
ne fa un momento decisivo del proprio percorso. Ma si badi: non come brano
staccato, che la concluda: gli esempi abbondano in Haydn e in Mozart e nello
stesso Beethoven, prima dell’op. 101, per esempio nel terzo Quartetto Razumovskij,
op. 59 n. 3. Qui la fuga è la sezione interna di un movimento della sonata. Che
vuol dire? Cerchiamo di dare una spiegazione, anche alla luce di quanto poi
Beethoven andrà componendo dopo l’op. 101.
Si
è visto che Beethoven tende a privilegiare l’elaborazione progressiva di
un’idea tematica sulla determinazione chiara e impostata già dall’inizio di uno
o più temi, e ciò fin dalle opere giovanili (è importante insistere su questo
punto: il cosiddetto stile tardo non è una novità, un fungo che appaia all’improvviso,
ma l’estremo sviluppo di un atteggiamento, l’evidenziarsi di una tendenza più o
meno latente fin dagli anni giovanili). Ebbene, a un certo punto (abbastanza
presto, a dire il vero, si pensi all’op. 26, del 1801) la variazione gli appare
il veicolo principale o comunque il più duttile di questa concezione nuova
dell’elaborazione tematica. Ma poi gli pare anche troppo meccanica, troppo
semplicistica. Le variazioni dell’ultimo tempo dell’Eroica segnano il
passaggio a un’altra concezione. La variazione è essa stesa elaborazione
tematica e viceversa. Avviene un corto circuito. Subentra l’idea di variante o,
se si preferisce, di libera variazione: le ultime tre variazioni dell’Arietta
dell’op.111 ne sono l’estrema sublimazione. Ovvio che l’elaborazione
contrappuntistica venga a inserirsi in questo processo. E’ probabile che dal
flusso di tante idee nuove Beethoven si sentisse soffocare. Non nel senso
psicologico, ma riguardo alla scrittura, alle strategie del comporre, perché
vede aprirsi una costellazione illimitata di procedure, e poté forse sentirsi
spaventato dalle conseguenze che tali idee gli facevano intravedere. Ribadisco
una norma generale di lettura: un’opera non la si comprende appieno, se si
resta ancorati alla percezione dell’opera. Certo, la percezione è importante, e
ne va tenuto conto. Il primo a tenerne conto è proprio il compositore. Ma poi
c’è l’altra faccia. Passare dall’altra parte. Investigare sulla genesi
dell’opera. Entrare nel laboratorio del compositore. In questo, l’analisi ci è
di ausilio prezioso, ma non unica, né decisiva. Boulez sostiene che la
comprensione di un’opera avviene sovrapponendo il proprio labirinto emotivo e
intelletuale al labirinto emotivo e intellettuale di chi ha scritto l’opera[42]. E’
un’idea affascinante. E con Beethoven funziona a meraviglia. Proviamo a entrare
in questi due labirinti: il nostro, di noi che interroghiamo Beethoven, e
quello di Beethoven, che dietro la facciata dei suoi edifici sonori a sua volta
c’interroga su chi siamo e che cosa vogliamo. La fuga è una forma chiusa. Che
vuol dire, dunque, inserire una fuga nella sezione dello sviluppo ch’è la
sezione più aperta della sonata? Vuol dire una cosa semplicissima: nessuna
forma è chiusa, nessuna forma è data una volta per tutte. L’Infinito di Leopardi
è un sonetto anche se non è un sonetto. Il suo spazio poetico è quello del
sonetto. Mancano le rime. E allora? La forma dell’Infinito non si spiega
se non in relazione alla forma chiusa del sonetto. Di più: il suo senso, il suo
significato, la concentrazione di idee e immagini, sono il senso, il
significato, la concentrazione di idee e immagini di un sonetto. Non a caso è
il momento della poesia leopardiana in cui ci pare di vedere maggiormente in
atto la stessa operazione con cui più tardi Baudelaire apre il moderno: calarsi
nella forma della tradizione per dire, però, con una lingua in cui si mescolano
tradizione e presente, l’oggi. La lingua del momento era per Beethoven
l’elaborazione tematica nata dalla trasformazione dell’invenzione tematica dell’opera
buffa, che Haydn, Mozart e lui stesso avevano modellato in materiale per la
nuova musica strumentale. Ma non gli bastava più. Come a Leopardi non bastava
il sonetto, che pure a Foscolo, per dire il moderno, era bastato, e l’aveva
espresso con un’intensità che ha un parallelo solo in Goethe, il quale,
comnque, come Leopardi, travalica le forme della tradizione. Forse stiamo per
cogliere il segreto di Beethoven. L’idea, cioè, che il massimo di libertà
coincide con il massimo di rigore. Che idee, concetti, forme che il senso
comune giudica opposti sono le due facce della stessa cosa. La fuga è questa
libertà che si fa forma imbrigliata, ordine calcolato. Il senso della sonata,
la sua tensione tra la libertà dell’espansione melodica, la rifrazione dei piani
armonici e il severo controllo del contrappunto acquistano qui, nel punto in
cui la forma dovrebbe incrinarsi, aprirsi, il punto di maggiore coesione.
Beethoven farà qualcosa di analogo nello sviluppo del primo tempo dell’op. 130:
la tensione dell’esposizione trova proprio nella sezione dello sviluppo la
liberazione melodica, il dispiegarsi cantabile di un nuovo tema, che in realtà
è la faccia aperta e distesa di quanto prima appariva intricato e convulso. Già
nell’op. 10 n.1 abbiamo colto Beethoven nell’atto di dispiegare nuove idee
tematiche proprio nella sezione dello sviluppo, e rendere dunque stabile ciò
che per sua natura dovrebbe apparire instabile. Nell’Allegro finale
dell’op. 101 il senso di stabilità si coniuga, però, con la tensione di una fitta
elaborazione contrappuntistica. Ma questa volta il contrappunto non insinua
irrequietezze, sembra consolidare le certezze raggiunte, o piuttosto
fortificare il senso di pace, di gioia, di dissidio risolto, che sembra
costituire il nucleo poetico di tutta la sonata. Il passo gioioso della
riesposizione può così condurre al magnifico trillo misurato, quartine di
semicrome, che sorregge, al basso, la progressiva dispersione dell’inciso
tematico per sfociare nei festosi accordi di tonica che chiudono il tempo.
Quartetto
op. 130 in si bemolle maggiore.
Gli
ultimi cinque quartetti, all’interno della serie dei quartetti, costituiscono
un gruppo a sé, così come le ultime cinque sonate all’interno della serie delle
sonate. Esistono perfino delle corrispondenze, non tanto tematiche, quanto di
procedimenti compositivi, così come delle congruenze armoniche: la tonalità di
si bemolle maggiore, per esempio, in entrambi i gruppi è scelta come campo
armonico della sperimentazione più ardita, dal punto di vista dell’elaborazione
tematica, ma anche della più compatta coesione strutturale: op. 106 e op. 130.
Anche gli ultimi cinque quartetti, come le ultime cinque sonate, sono preceduti
da opere dal carattere divagante, melodico, in cui Beethoven sembra scegliere
la via che sarà poi quella imbroccata da Schubert: op. 74 in mi bemolle
maggiore e op. 95 in fa minore (la tonalità della sonata op. 57, la
cosiddetta Appassionata, con la quale il quartetto ha qualche parentela
tematica, ma soprattutto di carattere espressivo)[43]. E
anche nei quartetti, come nelle sonate, Beethoven fa tesoro di quell’espansione
melodica, ch’era stata di Mozart, miracolosamente ritrovata, sebbene per quanto
riguarda i quartetti, l’espasione melodica è raggiunta subito, già nell’op. 18,
ma soprattutto nel sublime trittico dell’op. 59, si pensi al meraviglioso
attacco del primo, in fa maggiore. Del resto, probabilmente è il suono
particolare degli strumenti ad arco che spinge Beethoven a individuare in
un’aperta cantabilità il principale carattere dei temi affidati a questi
strumenti. Vedi soprattutto il concerto op. 61 in re maggiore per
violino (nel quale, però, l’espansione cantabile nasce da un impulso ritmico),
opera contigua d’altra parte ai quartetti op. 59, e la sonata op. 69 in la
maggiore (la stessa tonalità dell’op.101) per violoncello e pianoforte. Le
due opere che precedono quest’ultima sonata sono, incredibilmente, le sinfonie
quinta, op. 67, e sesta, op.68, Pastorale, opere non
solo diversissime tra loro, ma contrastanti, soprattutto la quinta,
tanto con il carattere dell’op. 59 che dell’op. 61 che dell’op. 69. E’ indubbio
pertanto che la scelta del campo armonico ha per Beethoven una forza
caratterizzante, nel senso che la tonalità d’impianto prescelta guida
l’invenzione tematica e perfino la strutturazione dell’opera, il che del resto
è congruente col fatto che per Beethoven una tonalità constituisca un campo
amonico dalle molteplici ramificazioni. Sorprendeti da questo punto di vista le
affinità tra l’op. 106 e l’op 130. Entrambe le opere si aprono con un primo
tempo monumentale, sostituiscono lo scherzo, o comunque il tempo di danza, con
un tempo insieme conciso e visionario, allucinato, tuttavia di tempo ternario
nell’op 106, binario nell’op.130 (ma nell’op. 130 la danza riappare sotto forma
di danza popolare, ingenua, si direbbe, ma non ingenua come sarà
poi nello spirito romantico, bensì in quel gusto arcadico (come del resto anche
la Pastorale) tipicamente illuministico, improntato a un carattere
semplice, naturale, leggero: alla danza tedesca). Entrambe poi si
concludono con una immensa, titanica fuga. Che Beethoven poi, cedendo alle
pressioni dell’editore, la sostituisse con un
nuovo finale, nulla toglie al fatto che la concezione originaria
prevedeva come conclusione del quartetto una fuga. E Beethoven, con il nuovo
finale, scrive un altro capolavoro, che oltretutto illumina retrospettivamente
con una luce nuova, festosa, gioiosa, umoristica, l’intero quartetto. Ma se
Beethoven riesce a concludere lo stesso in maniera magnifica il quartetto
sostituendo un altro finale a quello originariamente pensato e scritto, resta
il fatto che lo fa controvoglia (che meraviglie però produce Beethoven anche
controvoglia! sembra quasi che la stizza di dover cambiare il finale lo
provochi a scrivere un pezzo irridente, beffardo, amaramente scherzoso). In
ogni caso la Grande Fuga restò per lui sempre il vero finale del
quartetto. E a ragione: non tanto perché con il nuovo finale il quartetto non
funzioni (funziona anzi benissimo!), ma perché da sola la Grande Fuga è
come un frammeno strappato alle rovine di qualche pagina dispersa, il frammento
d’un fregio greco perduto, o d’una poesia di Alceo. Le ragioni della sua
struttura restano campate in aria, in bilico sull’abisso di ciò che non c’è.
Certo si gode lo stesso: è bellissima (ma perché? l’adagio sublime dell’op.106,
da sé solo non è ugualmente godibile?). Non sta qui il punto. E’ che un ascolto
puramente edonistico di un’opera di Beethoven la mutila, ne fa percipire solo
la superficie. Non che manchi in Beethoven, come livello della percezione
dell’opera, anche il piacere dell’ascolto, anzi talora tale piacere è
programmato dallo stesso compositore, in maniera qualche volta perfino
impudica: tanto per restare nell’ambito delle opere qui esaminate, l’Adagio
molto dell’op. 10 n. 1. I livelli di ricezione, per Beethoven, come per
qualunque grande artista (ma il discorso in realtà vale per qualsiasi musica
ben fatta, anche per un canto popolare) sono molteplici. Il punto sta nel fatto
che in Beethoven i diversi livelli sono inestricabilmente e indissolubilmente
legati. Si potrebbe opporre che ciò è vero anche per Mozart o per Rossini o per
Wagner. Vero. Ma per Beethoven c’è un elemento in più: il piacere dell’ascolto
è volutamente ottenuto proprio con l’intrecciarsi intricatissimo dei livelli
strutturali dell’opera. I confronti possibili potrebbero essere indietro Bach e
avanti, per quanto la cosa possa sembrare strana, la Carmen di Bizet[44].
Forse adesso si chiarisce il senso di quell’attributo ingenuo sfuggito
alla mia nervosa digitazione sulla tastiera del pc a proposito del 4° tempo alla
danza tedesca dell’op. 130. E’ un’ingenuità riflessa, di secondo grado, un come
se del sentimento, un guardare di traverso, un porsi di sguincio, che
all’ascolto non dà la cosa, ma il suo rispecchiamento consapevole di essere
solo un rispecchiamento, non la cosa, bensì la sua immagine riflessa in uno
specchio, lo specchio del comporre: in parole povere, anche quando Beethoven
finge (in realtà non finge affatto, perché prende sul serio la finzione)
l’ingenuità, l’immediatezza, non c’è mai né l’una né l’altra, bensì il loro
rispecchiamento nel gesto compositivo. L’agire di Berg non è diverso, la
canzone viennese e il corale di Bach nel finale del Concerto per violino.
Ma: e Bartók? Chi sa perché quando compone il suo primo quartetto ha presente
come modello proprio l’op. 130 di Beethoven. Uno degli equivoci maggiori nella
comprensione della musica di Bartók nasce sul senso e sul carattere
dell’assunzione (e spesso invenzione) di temi popolari. Come se Bartók
facesse folklore o scrivesse musica per una compagnia di danzatori in abiti
tradizionali ungheresi che si esibiscono per i turisti. Et voilà: à vous l’ Hongrie. Quando affermo che Beethoven è il
primo dei compositori contemporanei, o se non altro del novecento, non dico una
boutade o almeno non nel senso che l’affermazione vada presa come una
metafora, un calcare la mano: no, va presa sul serio, dice quello che dice,
Beethoven compone già nel modo come comporranno i compositori del tardo
ottocento e del primo novecento (ma mi spingerei più in là: credo che la Seconda
sonata per pianoforte di Boulez debba molto al modello dell’op. 106 di
Beethoven). E probabilmente nel pieno dell’eruzione romantica c’è almeno un
compositore che coglie perfettamente, molto più di Wagner, il carattere avveniristico
della musica di Beethoven: Franz Liszt. Ma per quest’aspetto rinvio il lettore
alle bellissime pagine che Dahlhaus dedica a Liszt nel suo libro sulla musica
dell’ottocento[45]. Il carattere riflesso,
al quadrato, della semplicità (come poi il primitivo di Stravinsky o
l’ammiccamento galante di certe pagine del periodo neoclassico. L’Ottava
di Beethoven conosce già tali atteggiamenti, e questo sono: atteggimenti)
assume insomma la pregnanza o, per così dire, il senso allusivo, che aveva
nella poesia del rinascimento la sprezzatura, l’artificio che modifica
la natura del verso o della prosa (ma in pittura c’è qualcosa di analogo:
Correggio, certi manieristi) al punto di mostrarsi più naturale della natura
stessa, il cui capolavoro è l’Aminta del Tasso, ma se si vuole anche il Don
Chisciotte. Il naturale, il popolare, e quant’altro, insomma, non sono mai
il vero, bensì lo stile del vero. La terra trema di Luchino
Visconti è forse il più bel film del neorealismo proprio perché non è affatto
neorealista, non prende sul serio la riproduzione della realtà, ma sì lo stile
della riproduzione della realtà. In tal senso il film non ha pochi contatti con
l’espressionismo tedesco, contatti che si faranno più evidenti, anche per la
pressione del soggetto affrontato, nel film La caduta degli dei. Ma
stiamo andando troppo lontano. Il confronto tra generi, epoche, arti, artisti
così diversi e lontani tra loro, non nasce comunque da una voglia di
assimilazione, di omologazione delle arti a qualche modello contenutistico o di
ipotesi psicologiche sulle intenzioni dell’artista, si diverta la sociologia
dell’arte in queste sterili elucubrazioni, ciò che invece si vuole suggerire è
che le affinità tra un’epoca e un’altra, tra un compositore e un altro, si
possono riscontrare non già sulla superficie dello stile (come facevano i meno
avvertiti dei compositori neoclassici), ma nel profondo della struttura di
un’opera tra modi di strutturarla. Non c’è niente in comunque tra l’Ars Nova
francese e le neoavanguardie del secondo dopoguerra del novecento: ma tra
Machaut e Boulez o Stockhausen è comune l’idea che un’opera si possa preparare,
programmare, progettare e quindi predefinire con una griglia elaborata
astrattamente a tavolino. Anche Beethoven è ossessionato dalla volontà di
conferire unità organica all’opera, e anche lui ricorre a modelli astratti, ma
per vie tematiche: procedimento ignoto tanto a Machaut che, almeno in parte,
alle neoavanguardie, che addirittura ne facevano anzi un bersaglio polemico (ma
se riesce difficile individuare veri e propri temi, non si può negare che
esistano nelle loro composizioni altri elementi o fattori che ne sostituiscono
la funzione). Torniamo al’op. 130. Guardiamo la distribuzione tonale dei
movimenti.
La
successione tonale è così concepita:
1.
si bemolle maggiore 2. si bemolle minore 3. re bemolle maggiore 4. sol maggiore
5. mi bemolle maggiore 6. si bemolle maggiore.
Tra primo e
secondo movimento la tonica resta fissa, cambia il modo, da maggiore a minore.
Il terzo movimento è nel relativo maggiore del secodo, ma è anche la mediante
minore della tonalità d’impianto del quartetto. Con il che viene chiamato in
causa il rapporto di terza, centrale nella struttura armonica di tutto il quartetto,
ma tipico un po’ di tutto Beethoven, in particolare nel periodo tardo (cfr. op.
106, ma già op. 10), rapporto che entra in causa anche negli slittamenti da un
modo all’altro, dato che è la terza, minore o maggiore, a decidere il modo[46]. Il
quarto intona nel modo maggiore la tonica del relativo minore della tonalità
d’impinato, sol, con un cambiamento, tra terzo e quarto movimento, speculare al
passaggio tra il primo e il secondo. Un uguale slittamento dal modo minore a
quello maggiore si ha con il mi bemolle maggiore del quinto movimento, relativo
maggiore di do minore, di cui sol è la dominante, e come sempre in Beethoven la
dominante afferma la tonalità della sua tonica. Il che spiega il ritorno a si
bemolle, dominante di mi bemolle, nell’ultimo novimento.
Se adottiamo il
concetto schoenberghiano di regione, il campo armonico del quartetto
appare così stabilito:
|
Fa (dominante maggiore/minore)
|
|
Re (mediante maggiore/minore)
|
Si b (maggiore/minore)
|
Sol (tonica del relativo minore, in alternanza col modo
maggiore)
|
|
Mi b (sottodominante maggiore/minore)
|
Do b/si (2° grado abbassato: sesta napoletana, sol b/fa #
|
Il primo tempo
stabilisce già nell’impostazione tematica un contrasto agogico: Adagio –
Allegro. Potremmo in realtà individuare nelle prime 24 battute, che
stabiliscono tale contrasto, una sorta d’introduzione, e in effetti tali
battute hanno una funzione introduttiva, ma non nel senso tradizionale di
preparazione dei temi che verranno esposti o del clima armonico del tempo, una
esposizione di tal senso, e magistrale, è quella della Quarta Sinfonia[47]. Già, però, le
introduzioni dell’op. 13 e dell’op. 111, entrambe in do minore, pur coprendo lo
spazio formale di una vera e propria introduzione, e per di più, cosa insolita,
introduzione a un tempo di modo minore, impongono all’ascoltatore idee
circostanziate, individuabili, da cui scaturiscono non solo i temi del tempo
che segue, ma addirittura le premesse della loro storia. Nella scala cromatica
discendente da si bemolle a sol, esposta dal primo violino, troviamo l’idea
subtematica dell’intero quartetto. Non è l’idea tematica, si badi, il quartetto
anzi pullula di molte idee differenti. Ma è, come dire, la materia, lo sfondo,
sul quale sono costruite tutte le idee del quartetto, o per derivazione o per
associazione o per contrasto. Non è difficile riconoscerne la matrice: il nome
Bach. Trasportando infatti il semitono la bemolle sol una terza sopra si avrà
la successione si bemolle la naturale do si naturale, appunto BACH. Su questi
semitoni, diversamente giocati, sottoposti a inversioni, e via dicendo, sono
costruiti tutti e cinque i quartetti. E’ Beethoven stesso a confessarlo, del
resto, scrivendo a Holz: “Caro amico, ho avuto un’altra ispirazione, ma sarà
per l’altro Quartetto ancora, il prossimo ha già troppi movimenti”. L’“altro
Quartetto” è l’op. 131, “il prossimo” è il nostro op. 130. Ma il messaggio ci
conferma che la concezione dei cinque quartetti nasce da un’unica idea di
fondo. Ma ancora più sconvolgente si rivela all’analisi l’unità programmatica
di questo primo tempo. L’intero tempo è composto di 54 gruppi di battute, ogni
gruppo l’unità minima differenziata, si potrebbe chiamarlo inciso, ma non è la
stessa cosa. La prima parte, introduzione, esposizione, introduzione allo
sviluppo, ne comprende 27, la seconda, sviluppo, riesposizione e coda, gli
altri 27. Essi sono così distribuiti[48]:
I parte II
parte
Introduzione 6 Sviluppo 6
Esposizione: Ripresa:
Prima
sezione principale 6 Prima sezione principale 6
Modulazione
e introduzione
Modulazione
e introduzione 3 Seconda sezione principale 3
Seconda
sezione principale 3 Seconda sezione principale 3
Prima e
seconda sezione di chiusura con 6 Prima e seconda sezione di 6
transizione chiusura
con transizione
Introduzione
allo sviluppo 3 Coda 3
L’intero
tempo è dunque diviso in due parti di 27 gruppi ciascuna. Ma sembra che
Beethoven abbia cercato un equilibrio proporzionale basato sul numero 3 (nelle Variazioni sul valzer di Diabelli
cercherà la sezione aurea). I gruppi si corrispondono perfettamente nelle due
parti. Ai 6 gruppi dell’introduzione, nella prima parte, corrispondono i 6
dello sviluppo, nella seconda parte. Ai 3 dell’introduzione allo sviluppo i 3
della coda. In mezzo i 18 gruppi dell’esposizione e della ripresa. Pertanto
l’intero tempo appare diviso in 3 parti di 18 gruppi: la prima comprende
l’esposizione, la seconda la ripresa, e la terza è divisa tra l’introduzione,
l’introduzione allo sviluppo, lo sviluppo e la coda. Ma ciascuna delle tre
parti di 18 gruppi è a sua volta suddivisa in due parti di 9 gruppi, ciascuna
parte di 9 come segue: l’esposizione in 2, una di 6 + 3 e l’altra di 3 + 6, la
ripresa ugualmente in 6 + 3 e 3 + 6, nella terza parte la prima metà in 6 + 3
(introduzione e introduzione allo sviluppo) e la seconda anche in 6 + 3
(sviluppo e coda). Il centro cade esattamente tra l’introduzione allo sviluppo
e lo sviluppo, e dunque non ai due puntini di replica dell’esposizione, ma 12
battute dopo, tra la battuta 103 e la battuta 104. La parte che comprende i 18
gruppi dell’introduzione, dell’introduzione allo sviluppo, dello sviluppo e
della coda, è divisa tra l’inizio, il mezzo e la fine del tempo e si
corrispondono perfettamente. Il senso di profondo equilibrio che emana da
questo pezzo nasce anche dalla perfetta calibratura delle sue parti. Ma ancora
più interessante risulta riscontrare quale percorso armonico si compia nelle
varie parti. Una prima sommaria analisi individua quattro ambiti tonali (in
realtà tre, col ristabilimento della tonica di partenza) così distribuiti:
I II
Si bemolle 6 6 Re
6
6
3
3
Sol bemolle 3 3 Si bemolle
6
6
3
3
Ma
tanto il sol bemolle dell’esposizione che il ritorno alla tonalità d’impianto
della ripresa sono preparati, il sol bemolle da fa (dominante di si bemolle) e
il si bemolle da re bemolle. Di modo che l’intero quadro ruota da si bemolle a
fa a sol bemolle a re a re bemolle e infine di nuovo a si bemolle.
Anche
in questo quartetto Beethoven cerca per il cosiddetto secondo tema, o seconda
sezione, un’alternativa alla dominante, che sarebbe fa, e lo soccorre la sua
propensione napoletana, innalzondosi di un semitono al fa diesis, e
trasformandolo, con scambio enarmonico, in sol bemolle, il che gli permetterà
nella seconda parte d’introdurre l’ambito di re bemolle.
I II
Si bemolle 6 6 Re
6
6
Fa 3 3 Re bemolle
Sol bemolle 3 3 Si bemolle
6
6
3
3
Nell’esposizione
dell’introduzione e del primo tema, o piuttosto prima sezione[49],
viene ribadita ripetutamente l’alternanza di tonica e di dominante. Ecco perché
poi la dominante fa, per la seconda sezione, viene sostituita da sol bemolle.
Al solito, per Beethoven, la dominante ribadisce la tonalità d’impianto, per
uscire dal suo ambito bisogna cercarne un altro, e quale migliore di quello
della sesta napoletana (alternativa alla prediletta terza)? Va solo aggiunto
che, dato che l’esposizione viene ripetuta due volte, anche dal punto di vista
esteriore, della prima impressione percettiva, il tempo è diviso in tre parti.
L’analisi della costruzione del tempo, a questo punto, è lasciata al lettore.
Con l’avvertenza che, se vuole, e se è esperto di lingua tedesca, può trovarla
dettagliata nel citato numero di Musik-Konzepte.
Ma,
prima di passare al secondo movimento, mi sia permessa una digressione.
L’ascoltatore ingenuo, ammesso che ce
ne siano, percepisce, ascoltando questo meraviglioso tempo di quartetto, due
impressioni contrastanti: da una parte un senso di irrequitudine (ritmica,
armonica, agogica) irrefrenabile, e dall’altra, alla conclusione, un senso di
inossidabile equilibrio, una tranquillità spirituale che non si sa da che cosa
nasca. Ebbene, sono vere entrambe le impressioni. L’equilibrio, come s’è visto,
è cercato, voluto, costruito. Ma costruito con che cosa? Con un materiale
ritmicamente, armonicamente, melodicamente, agogicamente discontinuo. Sta qui
il segreto del laboratorio beethoveniano (visionariamente affine a tanti
compositori del xx secolo, o piuttosto, dai compositori del xx secolo
finalmente capito): che l’armonia si raggiunge solo sfidando il caos. O, in
altri termini, che la razionalità non è
soffocare, comprimere, l’irrazionale, ma dargli una forma. Francamente, nessuno
prima di lui l’aveva fatto: né il divino Mozart, troppo preoccupato della forma
per indagarne i contenuti nascosti, né il tutt’altro che olimpico Haydn, che
aveva intuito la spaccatura, ma non aveva voluto guardarla. Beethoven vi
affonda dentro. E se ne assume il compito: dire che la spaccatura c’è. Dopo di
lui, nessuno di noi può più guardare il mondo con sguardo innocente. Ecco
perché, per dirla con Liszt, esistono compositori che si ammirano e altri che
si amano o si odiano. Beethoven è di quelli che si amano o si odiano: ma amarlo
richiede l’operazione preliminarle di capirlo, e capirlo ci spoglia di tutte le
nostre false certezze. Mozart può illuderci, Haydn catturarci, Beethoven ci
chiede di confrontarci con la nostra coscienza. Ma il gioco vale la candela: vi
assicuro che come guida della coscienza è superiore perfino al Virgilio della Commedia. Col quale comunque ha più di
un punto di contatto: nel senso che, come Dante, ci obbliga a un confronto
senza menzogne con noi stessi. La sua ultima sinfonia insiste sul fatto che
“alle Menschen werden Bruder”, tutti gli uomini diventano fratelli: in un’epoca
di contrapposizioni (come la sua) e di reciproche sopraffazioni non è poco.
L’idea, comunque, di questo primo tempo,
non sta tanto nel contrasto di due temi, quanto nel fatto che ciascun tema è
costruito su un contrasto. Da qui la distanza armonica, che da una parte cela
la somiglianza, dall’altra invece la esalta.
Perché se si bemolle e sol bemolle sono tonalità lontane (ma
reciprocamente affini in un campo armonico che non sia solo quello del circolo
delle quinte), proprio questa lontananza rende evidente la somiglianza della
strutturazione ritmica. E Beethoven è un mago del ritmo. Ma anche un mago
dell’invenzione tematica: tutta l’intera sezione dello sviluppo è occupata da
un tema nuovo: in realtà è facile derivarlo da figure già presentate
nell’esposizione, ma il punto non sta nel fatto che la sua costruzione non
interrompa la salda e omogenea invenzione del tempo, bensì appunto nel fatto di
apparire, di essere udito come nuovo. Un’altra volta Beethoven, come già nell’Eroica, smentisce coloro che pretendono
di ricavere proprio dalla sua opera regole sulla costruzione della sonata:
proprio quando ci si aspetterebbe di udire una fitta rielaborazione dei temi
esposti, ecco invece che Beethoven, con un gioco di prestigio, tira fuori dal
cappello un tema vestito a nuovo. Perché lo fa? Per sorprendere l’ascoltatore?
In realtà il proposito è un altro (anche se comunque l’effetto sorpresa, in un
quartetto che è tutto una serie di sorprese, è calcolato): si tenga conto che
per Beethoven un tema è una figura instabile, in movimento, che fa spesso agire
al suo interno, come in questo stupendo primo tempo, una grande tensione, ed
entra inoltre in tensione anche con le altre figure tematiche del tempo. Ora,
sulla tensione interna di ciascun tema e sui contrasti dei temi tra di loro,
Beethoven ha molto insistito per tutta la durata dell’esposizione, addirittura
contrapponendo due movimenti agogici contrastanti, Adagio – Allegro,
all’interno di un singolo tema. E allora la sezione dello sviluppo metterà in
moto un altro tipo di tensione, presentandosi non già come l’area più movimentata,
bensì come la zona apparentemente più tranquilla del tempo. Ma un andamento
tranquillo in Beethoven cela sempre un altro tipo di tensione, che non sia
quella ritmica o armonica. Intanto è già un bel contrasto che dopo tanta
agitazione ritmica e armonica subentri una sezione relativamente calma. Ma si
tratta poi veramente di un momento di
calma? La programmazione del tempo, delle durate d’ascolto, in questo
quartetto, è semplicemente magistrale: ed è proprio a questo che pensa
Beethoven, alla scansione dei tempi tematici, vale a dire all’articolazione dei
pensieri musicali. Si tocca con mano, anzi con l’orecchio, quanto la musica sia
diventata nelle sua mani intellettuale, una forma di pensare. Non che Bach o
Mozart non siano anch’essi compositori che pensano, soprattutto il primo (ma
anche Mozart non scherza!), ma il punto è che in Beethoven la musica s’impone
di per sé come pensiero, come atto del pensare, ed è per questo che può
proclamare messaggi. Ritornando allo sviluppo di questo primo tempo, l’ascolto
coglie un’effusione cantabile nuova, e ci azzecca, perché qui appare, con
evidenza, il nucleo da cui poi nascerà la Cavatina,
che comunque deriva dalla figura del primo violino, all’inizio del tempo. Il
ritmo si fa cullante. E, pima il violoncello, poi il primo violino, intonano
una dolcissima e struggente melodia, dapprima in sol maggiore, poi in do
minore. Bemollizzandone la sensibile Beethoven ritorna a si bemolle maggiore e
attacca la ripresa.
Veniamo
al secondo movimento. Beethoven lascia immutata la tonica, ma cambia il modo
(Schubert avrebbe fatto lo stesso). Ma la tonalità di si bemolle minore si
giustifica anche come lontana proiezione del re bemolle maggiore del primo
tempo. Le relazioni armoniche tra i vari tempi di una sonata o di un quartetto
di Beethoven sono complesse. In ogni caso, questo Presto è uno dei pezzi più allucinati mai scritti non solo da
Beethoven. Intricatissimo il legame ritmico tra i quattro strumenti. Di fatto
ogni strumento ha un ritmo diverso. Il ritmo che risulta all’ascoltatore è la
combinazione di questi quattro ritmi diversi. Ed è sconvolgente. Un secolo
prima di Stravinsky. Se insisto su queste anticipazioni, non è naturalmente per
mettere in risalto la fantasia visionaria di Beethoven, ma al contrario per
individuare nella sua musica una delle matrici della musica del novecento. Ma
già nella seconda sezione, dalla battuta 17, senza contare le repliche, il
ritmo muta configurazione e si fa ritmo binario con suddivione ternaria (da 2/2
a 6/4). E questa volta scandito insieme dai quattro strumenti. L’alternaza dei
due ritmi, e di poliritmia polifonica e omoritmia monodica, caratterizza
l’intero tempo.
Arriviamo
così all’apparentemente scherzoso Andante
con moto ma non troppo, in re bemolle maggiore (ancora!), ma con un’ambigua
partenza in cui compare dapprima un si doppio bemolle e poi un la naturale,
quasi a proseguire il si bemolle minore del tempo precedente. Poi il brano si
assesta su un tranquillo la bemolle maggiore, e ritorna al re bemolle. Sono
variazioni molto abili e molto nascoste. Come se Beethoven volesse mascherare
che il tempo è una successione di variazioni. Ma si fa evidente d’altra parte
che la variazione è solo una tra le tante possibili elaborazioni di un tema.
Anche qui, il novecento incombe: Mahler, per esempio, primo tempo della Nona, guarda caso anch’esso un Andante, e anch’esso costruito
sull’intervallo di seconda maggiore/minore. Intervallo caratterizzante del
quartetto beethoveniano, come della sinfonia mahleriana. Del resto non è un
mistero che Mahler riflettesse sui quartetti di Beethoven, e se ne portasse
sempre dietro le partiture. Pensate un po’: tre tra i massimi compositori del
novecento, Mahler, Schoenberg e Bartók, confessano di ispirarsi al modello di
Beethoven, e in particolare, ai suoi quartetti, e dunque che dubbio più che
proprio in Beethoven debba in dividuarsi la matrice del pensiero musicale
contemporaneo?
Con
un salto, che è tipico del suo pensiero ellittico, Beethoven ci trasporta, nel
quarto tempo, da re bemolle maggiore/si bemolle minore/la bemolle maggiore a
sol maggiore. Nella regione di si bemolle maggiore, sol è la tonica del
relativo minore. Ma qui, dopo re bemolle maggiore/si bemolle minore, si
presenta come tonica maggiore. Armonicamente è una vera e propria Aufklärung, illuminazione, ma lo è
ancora di più ritmicamente. Lo scherzo ternario che era mancato all’appello,
sostituito dal visionario si bemolle minore del secondo tempo, eccolo qua, ma
ridotto alla facilità d’un trio popolare, come quello del trio del minuetto della sinfonia in mi bemolle di Mozart, solo
che in questo caso il trio è l’intero movimento. La capacità di Beethoven di
giocare con le forme e di trasformarne il significato raggiunge qui uno dei
suoi culmini. La scherzosità della
danza infatti è apparente. Ecco apparire subito dopo la Cavatina, a smentirla.
In
mi bemolle maggiore, precede il si bemolle (dominante) della Grande fuga o del secondo Finale. Prima osservazione: per tutta la
durata del tempo Beethoven non sale mai al di sopra del la bemolle del taglio
addizionale della chiave di violino né sotto il do dei due tagli addizionali
nella chiave di basso del violoncello. Limitazione che ricorda il Clavicembalo ben temperato. Ma non è a
Bach che pensa Beethoven. Quanto piuttosto all’esplosione di una tensione
all’interno di uno spazio limitato. E’ un tempo mirabile che procede per
successive varianti dell’idea di partenza (di nuovo l’idea della variazione,
come fondamento dell’elaborazione tematica) fino alla sua ripresa abbreviata
alla fine, di modo che invece di una successione di varianti l’orecchio
percepisce una andamento A B A. La finezza degli equilibri cantabili è straordinaria: il disegno del violoncello nasce
dall’inversione del disegno del violino nell’introduzione del primo tempo, la
figura ritmica del primo violino, e il salto di sesta, sono una contrazione
dell’impulso ritmico della prima sezione dell’allegro del primo tempo, ed egualmente derivati da figure del primo
tempo sono i disegni del secondo violino e della viola. Ma l’intensità esplosiva
del movimento sta nell’accumulazione contrappuntistica del canto: ogni
strumento ha un suo percorso melodico autonomo, ma la melodia cantabile che ne risulta sembra un unico
lineare continuo. In tal senso il contrappunto melodico della Cavatina fa da degna controparte del
contrappunto ritmico del Presto, la
loro stessa posizione, nell’ordine dei tempi, secondo e quinto tempo, ne esalta
specularmente l’affinità di concezione e la funzione di scatenamento delle
pulsioni ritmiche del primo tempo, per il secondo (non a caso impostato sulla
stessa tonica) e di preparazione riflessiva al finale, per il quinto.
Si
arriva così al finale. Quale?
Naturalmente
Beethoven pensava alla fuga, della quale già si è detto. E’ un degno,
gigantesco coronamento di un’opera monumentale. Sono state scritte tante pagine
su questo pezzo, che non è il caso di aggiungere altro a quanto già detto, e
splendidamente, da Adorno, Cooper, Dahlhaus. Ma qualche parola va invece spesa
per il finale che ha finito col sostituire la fuga. Non è vero che appare di
tono minore, rispetto alla monumentalità del quartetto. Il ritmo saltellante
dell’avvio è evidentemente preso dal primo tema del primo tempo e dunque il
pezzo si collega bene al resto del quartetto, dato che proprio nelle prime idee
del primo tempo si trovano le cellule generatrici dell’intera invenzione
musicale del quartetto. Ma c’è un altro aspetto, assai importante, da
considerare. Se la Cavatina appare
speculare al Presto, il nuovo finale
rinvia alla danza tedesca,
sbilanciando così il peso del quartetto su un tono leggero, ironico, scherzoso.
La fuga ingloba tutto il percorso del quartetto bruciandolo in una
incandescenza ritmica e armonica che ne fa straripare le tensioni: non è un
pezzo tragico, ma sì un pezzo teso. Del resto anche l’Inno alla Gioia è un pezzo pieno di tensione. La conquista della
felicità non è una grazia divina, per Beethoven. E nel caso della fuga la
felicità è tutta d’ordine intelletuale: di dominio di una materia complessa e
difficile, nella quale le tensioni alla fine si placano perché vengono fatte
esplodere. L’Allegro aggiunto come
nuovo Finale dichiara da subito il
suo carattere giocoso e a questo punto proietta la sua luminosità all’indietro
su tutto il quartetto. In musica il dopo è sempre conseguenza di un prima,
anche quando di fatto non lo è, perché l’ultima impressione è quella che decide
il senso di ciò che si è ascoltato. Beethoven lo sa perfettamente, è anzi un
maestro di strategie temporali, forse come nessun altro. Non è escluso, come si
è già detto, che il tono scherzoso di questo finale gli sia venuto anche per
stizza, per il gusto di vendicarsi di chi aveva storto il naso davanti alla
fuga e costituisca pertanto una risposta ironica alle orecchie che non avevano
gradito la fuga (Beethoven diventava furibondo quando qualcuno fraintendeva le
sue intenzioni musicali, ne sa qualcosa il povero Ries, che si vide tolto a
lungo il saluto solo per avere timidamente osservato che a suo avviso i corni,
nella ripresa del primo tempo dell’Eroica,
avevano anticipato l’entrata: Beethoven lo fissò furioso, era un effetto
voluto!). Ma quest’ironia si proietta allora all’indietro su tutto il quartetto
e invece di tranquillizzare l’ascoltatore gli fa percepire l’opera sotto una
luce sinistra. Un tono dichiaratamente sinistro ha del resto il finale dell’op.
131. Ma qui, nell’apparentemente sereno quartetto
op. 130? La felicità inventiva del primo tempo, l’ansia ritmica del secondo, la
grazia quasi settecentesca del terzo, l’innocenza del quarto, il turbamento del
quinto trovano la loro spiegazione in un sorriso che vede fuggire il tempo, in
una danza che può anche essere gioiosa, ma è pur sempre la danza che conclude,
che conduce a una fine. Beethoven ci ha squarnato per cinque tempi le facce
multiformi del tempo, che sono anche le facce della vita, di tutto quel
turbinare non resta nella memoria alla fine che il puro danzare (un ricordo
della Settima? Anche lì, all’interno
di un tumuto gioioso si apre l’abisso, si direbbe, baudelaireanamente, lo spleen dell’allegretto, e la tensione morale è forte quanto in Baudelaire). Il
pensiero musicale di Beethoven conosce questo sguaedo retrospettivo, questa
malinconia che guarda il tempo perduto, il paradiso lontano, o perché passato o
perché utopia, ne è tutta intrisa una sinfonia come l’Ottava. Ma c’è anche l’ultima variazione Diabelli o il ritorno del tema nelle variazioni dell’op. 109. Ci
sono le ultime, splendide, Bagattelle.
Quanto alle Variazioni su un valzer di
Diabelli, vedremo che posto occupano nel pensiero musicale di Beethoven.
Intanto, impariamo questo: se il senso di una musica sta nel suo percorso, il
percorso sempre così incidentato e fitto di richiami, ricordi, allusioni, della
musica di Beethoven sembra indicarci un salto di valore rispetto alla musica
precedente: come se la musica, nel momento in cui si pone, si facesse carico
della storia che l’ha preceduta, e non solo storia personale del compositore,
ma storia della musica, e storia della musica in quanto rispecchiamento della
storia umana, riflessione sul pensiero contenuto nell’atto stesso di comporre,
e allora, sotto questa luce, da una parte Fidelio
ci costringe a pensare che non c’è valore più alto della libertà, libertà anche
di comporre il pensiero della libertà, e dall’altra la Missa Solemnis ci addita l’impossibile compito di trovare in noi
stessi la fede in un Dio che ormai sembra invece assente, e al quale sembra non
giunga il nostro grido di pace, ma proprio perché forse la libertà è utopia e
la fede impossibile in un mondo sdivinizzato, Beethoven ci dice che bisogna
chiedere l’utopia e imporsi l’impossibile. Ma qui Beethoven incontra Kant. Ma,
a differenza di Kant, non parla ai filosofi, si rivolge a tutta l’umanità:
“Seid umschlungen, Millionen, Alle Menschen werden Brüder”. L’Ode di Schiller An die Freude, alla gioia, s’intitolava
in realtà An die Freiheit, alla
libertà, e Beethoven lo sapeva.
Dino
Villatico
Roma,
30 agosto 2004
[1] Theodor W. Adorno, Beethoven.
Filosofia della musica, a cura di Rolf Tiedemann, traduzione italiana di
Luca Lamberti, Torino, Einaudi, 2001, pag. 222. Ed. orig.: Beethoven. Philosophie der Musik, Frankfurt am Main,
Suhrkamp Verlag, 1993.
[2] Ibidiem, pag. 218.
[3] Josef Rufer, Teoria
della composizione dodecafonica, traduzione italiana di Laura Dallapiccola,
Milano, Il Saggiatore, 1962, pag. 47. Titolo originario: Komposition mit 12 Tönen, Berlin, Max Hesses
Verlag.
[4] L’osservazione è di Carl
Dahlhaus.
[5] La prima e la seconda
parte di un tema.
[6] Rufer, Teoria della
composizione dodecafonica, cit., su Beethoven, pagg. 38-62, sull’op.10 n.1
in particolare, pagg. 54-62.
[7] Forse, più corretto,
enunciazione.
[8] In Carl Dahlhaus,
Beethoven e il suo tempo, traduzione italiana di Laura Dallapiccola, Torino,
EDT, 1990, pag. 177.
[9] La Missa solemnis
richiederebbe un discorso a parte: è scritta come ricerca di una forma
collettiva, anzi come lo sforzo di fondare soggettivamente l’ormai perduta
tradizione di uno stile musicale religioso. Da qui la tensione, il senso di
smarrimento, l’impressione di una rinuncia: mancano veri e propri temi, o
meglio i temi sono ridotti all’osso, coincidono con l’elaborazione dei
procedimenti contrappuntistici e delle trasformazioni armoniche. Salvo che nel Benedictus,
sembra mancare l’invenzione melodica vera e propria, in poche parole il piano
dell’elaborazione prevale sulla distribuzione della forma, è esso stesso la
forma dell’opera, un laboratorio, provvisorio, di come si possa scrivere una
messa. Il senso di disagio che l’ascolto può generare dipende probabilmente
proprio dalla percezione che Beethoven stia rischiando una carta
inutilizzabile, e allora scopre i trucchi, lancia una sfida, come dicesse:
questo che faccio non si può più fare, ma faccio appunto qualcosa che porti
all’evidenza l’impossibilità della cosa, e in ogni caso anche la stessa imposibilità
può essere impostata in un modo solo una sola volta, le successive saranno
altre forme d’impossibilità, mai la stessa. Da questo punto di vista l’evidente
arcaismo di molte scelte si ribaltano in visionaria modernità: come già nell’Ottava
ci si sente già l’aria dello Stravinsky neoclassico, comunque emerge lo stesso
problema, risolto, o meglio non risolto, in maniera simile. L’atto della
volontà prevale dal dato oggettivo, ma il dato oggettivo si ribella mostrando
alla scoperto la sua inattualità.
[10] Ciò non giustifica,
certo, la durezza di certi provvedimenti. Il difetto di Karl era di non essere
l’eroe che lo zio s’illudeva di risvegliare in lui. Come quasi sempre,
soprattutto nei vincoli familiari, l’amore nasceva da un complicato e terribile
equivoco, da entrambe le parti. E siamo sicuri che il sostrato più profondo di
una così sconvolgente esperienza non ci venga filtrato dalle asprezze degli
ultimi quartetti? Il tentativo di suicidio del nipote cade nell’anno in cui
Beethoven conclude la sua ultima opera, il Quartetto op. 135. Ma non possiamo
dire di più. Guai a cercare corrispondenze immediate: tanto più in un’arte,
come quella beethoveniana, che non lascia nessun particolare al caso, che anzi
fa della mediazione quasi una categoria morale del comporre, piano estetico e
piano etico in Beethoven coincidono. Del resto anche lui, in un momento
particolarmente buio, aveva meditato il suicidio. Come per Goethe, il gesto è
trasferito sulla pagina. Cfr., sui rapporti di Beethoven col nipote, più che il
sopravvalutato libro di Luigi Magnani, le belle pagine che vi dedica la troppo
presto scomparsa Brigitte Massin in: Jean et Brigitte Massin, Ludwig van
Beethoven, Paris, Fayard, 1967, pagg. 281-291.
[11] In Carl Dahlhaus, La
musica dell’Ottocento, Firenze, La Nuova Italia, “disCanto”, 19972,
pagg. 250-261. Ma, sempre di Dahlhaus, v. anche anche il cap. Opera e
biografia in Beethoven e il suo tempo, Torino, EDT, 1990, pagg.
17-54.
[12] La denominazione di Sinfonia
eroica composta per festeggiare il sovvenire di un grand’uomo compare solo
nell’edizione del 1806 (parti d’orchestra) e del 1809 (partitura) e poi in
quella tedesca del 1822. All’origine la sinfonia si chiamava Bonaparte.
E’ noto l’episodio ricordato da Ferdinand Ries e confermato da Schindler, che
Beethoven avrebbe cambiato il titolo quando seppe che Napoleone si era
proclamato imperatore: “Anche lui non è altro che un uomo comune! Ora
calpesterà anche lui tutti i diritti umani, si porrà più in alto di tutti,
diventerà un tiranno!”.
[13] Anche questo tempo è in
tre quarti.
[14] La sezione del cosiddetto
sviluppo ha in Beethoven sempre un carattere molto particolare. Proprio
perché Beethoven estende a tutto un tempo, anzi addirittura a tutta un’opera,
l’idea di una tema che si sviluppa, concentrare in questa sezione
l’elaborazione tematica non ha più senso. Beethoven sceglie diverse soluzioni:
intensificazione armonica, esasperazione ritmica, distensione melodica
(anticipando in questo Chopin o, piuttosto, offrendone a Chopin il modello).
Nell’op. 101 lo sviluppo è interamente occupato da una fuga.
[15] Beethoven riprende invece
la scansione binaria all’interno di un ritmo ternario nello Scherzo
della Quarta.
[16] Sul Finale dell’Eroica
v. le belle pagine che vi dedica Dahlhaus in Beethoven e il suo tempo,
cit., pagg. 39-43.
[17] Accolgo l’impostazione
teorica di A. Schoenberg, com’è espressa in Funzioni strutturali
dell’armonia, Milano, Il Saggiatore, ed. “Catalogo”, 1985, pagg. 48-67. Il
campo armonico di una tonalità costituisce una regione in cui agiscono,
intorno alla tonica, con diverso grado di affinità e di subordinazione, altre possibili toniche,
che in rapporto alla tonica principale sono la dominante, la sottodominante, la
mediante, il relativo minore o maggiore, la tonica maggiore o minore, il
secondo grado abbassato (sesta napoletana), ecc. Schoenberg ipotizza che in una
composizione, soprattutto del periodo classico, non si presentino via via,
linearmente, tonalità differenti, ma che le diverse tonalità che si affacciano
siano tutte contenute nel campo d’attrazione della tonica principale, e che si
dovrebbe perciò parlare di monotonalità. Con le parole dello stesso
Schoenberg: “Il concetto di regione
è una conseguenza logica del principio della monotonalità, secondo il
quale ogni digressione dalla tonica viene considerata sempre nell’ambito della
tonalità in base a un rapporto che può essere diretto o indiretto, vicino o
lontano. In altre parole: in un pezzo di musica esiste solo una tonalità,
e ogni sua parte che un tempo veniva considerata come tonalità diversa è
soltanto una regione, un contrasto armonico nell’ambito della stessa tonalità”
(i corsivi sono di Schoenberg).
[18] Sul colle siedo io
scrutando.
[19] Delicatamente lento e con
espressione.
[20] Lontano io sono da te
diviso, / ci distaccano montagna e valle / tra noi e la nostra pace, / tra la
nostra felicità e il nostro tormento.
[21] Dove le montagne così
azzurre dal nebbioso grigio guardano.
[22] Un po’ mosso.
[23] Cfr. nota 17.
[24] Leggere vele nelle alture
(le nubi).
[25] Queste nuvole nelle
alture.
[26] Non troppo mosso, grazioso
e con molto sentimento.
[27] Torna maggio e fiorisce
il prato.
[28] Torna maggio e fiorisce
il prato, / l’aria soffia così mite, così tiepida. / Io solo non posso muovermi
da qui.
[29] Se tutto ciò che vive si
unisce alla primavera, /soltanto il nostro amore nessuna primavera unisce, / e
lacrime sono per esso ogni trionfo.
[30] SWì, essa penetra nel
profondo del cuore.
[31] Accolga ella dunque là
queste canzoni.
[32] In Beethoven e il suo
tempo, cit., pag. 213.
[33] Nulla di simile in
Italia, dove pure gli zingari non sono mancati e non mancano. Segno di una
secolare diffidenza per il diverso?
[34] Due esempi, tutti e due
del periodo tardo: l’inizio della Nona e l’ultima variazione Diabelli.
Nella Nona agiscono due modelli complementari: l’inizio dell’ultima
sinfonia di Haydn, la Sinfonia 104 London e La rappresentazione del
Caos che apre La Creazione.
Dalla sinfonia Beethoven trae la suggestione dell’intervallo di quinta
vuota, ma il doppio movimento ascendente e discendente ribadisce in Haydn il
rapporto di tonica e dominante, laddove il movimento sempre discendente nella Nona
lascia sospeso il rapporto, e tale sospensione è mutuata a sua volta dal
cromatismo della Rappresentazione. Ma Beethoven non ricorre al
cromatismo, lascia navigare a lungo la quinta la mi, senza introdurre nessun
altro suono, la quinta costituisce sia l’inciso giambico che il pedale, e
pertanto la percezione tonale è sospesa: mancando la definizione della terza,
la quinta infatti può appartenere a quattro tonalità diverse, la maggiore e la
minore, se costruita sulla tonica, re maggiore e re minore se costruita sulla
dominante (anche se l’abitudine di Beethoven a considerare la dominante come
grado che ristabilisce la tonica dovrebbe metterci in guardia). La sospensione
tonale ha una funzione anche ideologica oltre che musicale: Beethoven vuole
suggerire l’impressione di un inizio (l’aveva già fatto splendidamente
nell’introduzione della Quarta) e per un compositore tonale l’inizio è
l’emergere della tonalità. Ed infatti solo quando il mi grave scende al re e il
fagotto intona un fa, abbiamo finalmente la triade di re minore, tonalità della
sinfonia. L’ultima variazione Diabelli è poi un evidente e, pur col suo
carattere scherzoso, quasi nostalgico omaggio a Haydn, che non è però un
desiderio di restaurazione, ma lo sguardo disincantato al paradiso perduto.
Anche qui Beethoven sembra anticipare insieme sia lo struggimento di Mahler
(attacco della Quarta) che il tono scanzonato di Stravinsky, ma anche
certo neoclassicismo schoenbergiano, per esempio quello della Suite op. 25.
Con Schoenberg Beethoven condivide inoltre l’esigenza di non imitare dalla
tradizione recente o lontana uno stile estinto, ma di assimilare un pensiero
musicale sentito ancora vivo, vale a dire di mettere in azione un principio
formale, o, boulezianamente, un formante.
[35] Lo intuisce bene Thomas
Mann, nel Doctor Faustus, per bocca di Kretschmer.
[36] Un po’ vivace e con
intimo sentimento.
[37] Solo chi conosce la
nostalgia sa che cosa soffro.
[38] Aristotele, Problemi,
XXX.
[39] Il tempo lento di uno dei
quartetti op. 18, dunque un’opera relativamente giovanile, ha per titolo La
malinconia.
[40] In realtà la 22ma, in
quanto Beethoven ha concepito l’Adagio, la ripresa del tema del primo tempo e l’Allegro
finale come un unico tempo, di cui dunque l’adagio costituisce l’introduzione.
Così, dopo, la quinta battuta è in realtà la 25ma.
[41] Presto, ma non troppo, e
con risolutezza.
[42] Non ricordo dove, e
richiederebbe troppo tempo cercare il passo, credo comunque in Per volontà e
per caso.
[43] Andrebbero considerati anche
i due Trii dell’op 70 e il Trio
op. 97, detto dell’Arciduca.
L’effusività cantabile tocca in essi vertici sublimi: la lezione mozartiana
appare decantata, sublimata, appunto, in un tipo assolutamente nuovo di melodia
cantabile, che può assomigliare, e talora molto, al melodizzare schubertiano,
ma non rinuncia mai a una inflessibile organizzazione strutturale, a un’idea
dominante che accoglie la cantabilità non già come momento evasivo, bensì la
include nel proprio programma. Ecco allora che il bellissimo, straordinario Andante cantabile ma però con moto
dell’op. 97, in forma di tema con variazioni (ma attenzione! la variazione non
è una forma), non solo sembra sintetizzare tutto ciò che per Beethoven
significhi, all’interno di una forma, l’espansione melodica, e lo confessa nel
programma agogico, “cantabile”, ma ne proponga, quasi ideologicamente, la funzione di
partenza e non di arrivo, o se mai di una partenza che arrivi a ritornare su se
stessa. Le variazioni diventano allora il campo in cui si svelano le tensioni
nascoste del tema, il territorio in cui se ne spermenta la disintegrazione e la
trasformazione, di modo che poi quando il tema ritorna uguale all’inizio, o
quasi uguale, lo si percepisce come assolutamente nuovo, perché carico di tutte
le trasformazioni subite precedentemente, e dal punto di vista espressivo tale
novità può anche proporsi come uno struggente sentimento del tempo perduto, non
diversamente dal sapore della madeleine. Ma musicalmente la variazione viene ad
affiancarsi all’elaborazione tematica e talora a sostituirla. Se poi si pensa
che il tema non conosce mai nell’opera beethoveniana una forma unica, ma si
attua attraverso una serie di varianti che ne precisano via via i caratteri
distintivi, e se si osserva inoltre che funzione analoga viene assunta
dall’elaborazione contrappuntistica, al punto che, come si è visto, nel finale
dell’op. 101 l’intera sezione dello sviluppo è costituita da una fuga (che
anch’essa non è una forma, ma un procedimento), ebbene, se esaminiamo insieme
tutti questi aspetti del modo di procedere beethoveniano, riconosciamo
un’evidente equiparazione dei procedimenti dell’invenzione con quelli della
trasformazione, che è quanto voleva dire Schonberg quando parlava di variazione
permanente dell’idea. Alla luce di tutto
questo, l’Andante dell’op. 97 si
rivela pertanto come il punto di svolta che condurrà agli esiti dell’op 109,
111 e 120, per il pianoforte, e in genere a tutto il lavoro degli ultimi
quartetti. Ma non nasce come un fungo: è preceduto dalle variazioni che aprono
la Sonata op. 26, dalle Variazioni op 34 e op 35.
[44] Il mistero della bellezza
di questa splendida partitura, anzi il segreto del suo fascino sta nel fatto
che si tratta di musica dotta quante altre mai, ma alla percezione la
sapienza della scrittura appare, più che mascherata, sopraffatta dall’irruenza
dell’effetto drammatico ed espressivo ed esattamente come per Beethoven la
musica di Bizet può essere goduta tanto dall’ascoltatore ingenuo che
dall’avvenuto conoscitore dei procedimenti compositivi. Naturalmente chi ne
penetra anche le ragioni compositive, ne gode anche di più.
[45] La musica
dell’ottocento, cit., pagg. 250-261, ma v. anche 160-62.
[46] Nella Nona la
terza gioca il ruolo dell’indeterminatezza tonale: la sua assenza non permette di
precisare l’ambito tonale della quinta vuota la - mi. Tale quinta,
infatti, se costruita sulla tonica, può appartenere o a la maggiore o a la
minore, ma se costruita sulla dominante, allora ci si trova o in re maggiore o
in re minore. L’ambiguità tonale ha qui una funzione insieme narrativa e
ideologica: è un inizio. L’abbassarsi del mi a re, e l’intonazione del fa da
parte del fagotto, introducono finalmente la triade di re minore, tonalità
d’impianto della sinfonia.
[47] Cfr. Carl Dahlhaus, La Quarta Sinfonia di Ludwig van Beethoven,
Milano, Ricordi, 1992. In compendio ci si trova la storia della composizione,
della sua fortuna, e un’analisi dettagliata dei tempi. Soprattutto proprio le
pagine dedicate all’introduzione sono un modello di metodo analitico da una
parte e d’impostazione dei problemi generali che ogni analisi particolare
presuppone e impone.
[48] Cfr. Ulrich Siegele, Beethoven Formale Strategien der späten Quartette,
Musik-Konzepte 67/68, München, Januar 1990, pagg. 72-113. La
terminologia tedesca è più precisa di quella italiana. Ho reso il concetto di Hauptsatz, che nel testo sostituisce il
concetto di tema, con sezione principale, e il termine Taktgruppe con gruppo di battute, perché il concetto non coincide con l’italiano inciso. Colgo l’occasione però per
ricordare che fin dalle analisi di Tovey (1927) i termini tema, soggetto,
apparivano inadeguati a rendere ragione dei procedimenti compositivi di
Beethoven. E anche al Tovey, come prima di lui a Schoenberg, appariva
inadeguatissima la sistemazione scolastica dell’armonia come si era venuta a
codificare nei trattati del secondo ottocento. E’ alla luce di ciò che la costellazione armonica di un Webern
appare assai meno lontana dall’idea di campo
armonico (Schoenberg direbbe regione)
che s’individua nelle opere di Beethoven. Il Quartetto op. 130 me è un’incarnazione esemplare. L’andamento
drammatico, spesso irruento delle idee beethoveniane fa passare per molti in
secondo piano la finezza, la fantasia inesauribile delle soluzioni formali,
così come il suo sostanziale diatonismo fa dimenticare la sua spercolatezza
armonica, un po’ come per Mahler, altro compositore essenzialmente diatonico,
ma non per questo privo di fantasia armonica. Il fatto è che si parte da una
concezione erronea dell’armonia, erronea soprattutto storicamente: che cioè il
cromatismo equivalga a tricchezza armonica e il diatonismo a povertà di scelte
armoniche. Niente di più falso: la ricchezza è assolutamente pari, diversi sono
i percorsi, graduali nel compositore cromatico, ellittici in quello diatonico.
[49] Mai come in questo quartetto appare fallace
la terminologia scolastica. Beethoven non ragiona in termini di tema o di
soggetto, ma di idee (anche qui una incredibile sintonia con Schoenberg). Ha
bisogno di programmare una successione di eventi musicali. Poco importa che
vengano individuati in temi, soggetti o motivi. C’è un piano di successione di
diverse figure ritmiche, armoniche, melodiche, possibilmente derivate da
un’unica cellula. Dopo di che, per esempio, in questo primo tempo del quartetto
op. 130, è riconoscibile la scansione in
un’introduzione, un’esposizione divisa in due sezioni unite da una transizione
e concluse da una sezione modulante a re maggiore ch’è l’introduzione allo
sviluppo, a cui segue la riesposizione o ruipresa seguita da una coda. Ma
l’eleaborazione tematica è assai complessa, e così la strutturazione armonica,
insomma niente di meno scolastico di questo tempo che manda all’aria qualsiasi
tentativo di riconoscervi la forma di ciò che tradizionalmente si chiama
forma-sonata.
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