Oggi, 27 gennaio, è nato Mozart.
Non è il caso di aggiungere parole alle troppe già
dette e scritte su di lui.
Ma vorrei riflettere su un punto. Ormai,
universalmente, Mozart è ritenuto creatore di musica bella, appagante,
armoniosa, per qualcuno addirittura olimpica, serena quanto altre mai. Eppure i
suoi contemporanei lo sentivano, invece, difficile, disturbante, spesso
addirittura aspro, troppo cervellotico, “drogato”, come scrive un critico del
tempo, citato più sotto. Oggi diremmo, “artificioso”, “troppo intellettuale”,
come si dice, per esempio, di Boulez.
Quando apparvero i sei Quartetti dedicati a Haydn la
critica ne parlò con rispetto, perché Mozart era pur sempre, ormai, un’autorità
musicale riconosciuta da tutti, e per di più era tra i compositori meglio
pagati; era, però, spendaccione, aveva le mani bucate, la sua povertà nasce dai
suoi sperperi, affittava una carrozza per mandare la moglie a Baden, come se
oggi uno prendesse un taxi da Milano a Cortina. Però di fatto, soprattutto
sulla “Wiener Zeitung”, gennaio 1787, i Quartetti furono impietosamente
stroncati: “Peccato che Mozart, nel lodevolissimo intento di diventare un
innovatore, si sia spinto troppo lontano; e non certo a vantaggio del
sentimento e del cuore. I suoi nuovi Quartetti sono troppo, troppo drogati e, a
lungo andare, nessun palato riesce a tollerarli. Perdonatemi questo paragone
preso dal libro di cucina”. Curioso che più tardi si scrivessero cose simili di
Beethoven, anzi si aggiungeva che se
Beethoven avesse continuato così, dopo qualche anno nessuno avrebbe più voluto
ascoltarlo (sempre la “Wiener Zeitug”, a proposito del Concerto per violino). Ci
sarebbe motivo di dubitare riguardo alla preveggenza della critica musicale, in
ogni tempo. Si noti, però, l’epiteto di
“innovatore” con cui viene designato Mozart.
Peggio si comportarono i compositori, soprattutto
italiani. Sarti, in una lettera, li definì “inascoltabili”, e soggiunse, con
disprezzo, “questi tedeschi che non sanno riempire con decenza un pentagramma
adesso si mettono a scrivere quartetti” (cito a mente). Era scandalizzato
soprattutto dalle dissonanze dell’Introduzione al Quartetto in do maggiore,
soprannominato poi, appunto, “delle dissonanze” (ma che titoli inappropriati si
davano e si danno alle composizioni! come “Chiaro di luna” per una sonata così
profondamente tragica come l’op. 27 n.2 di Beethoven). I teatri Italiani,
tranne in parte il San Carlo di Napoli, dove ci fu la prima italiana della
“Clemenza di Tito”, recalcitravano ad accogliere le sue opere. Il “Don Giovanni”,
alla Scala fu quasi un fiasco (la Scala, invece, aveva onorato e applaudito il
Mozart adolescente) e a Bari fu dato per la prima volta solo negli anni ’80 del
secolo XX. In quegli stessi anni una collega di conservatorio, insegnante di
canto, mi chiese: “Ma sei proprio sicuro che Mozart scrive bene per la voce?”.
Questa diffidenza degli italiani per la musica
tedesca ha dunque lunga origine. Come se gli italiani avessero dimenticato la
felice, e feconda, convivenza rinascimentale e barocca con i musicisti
d’Oltralpe! Un fiammingo, Adrian Willaert, è il fondatore della cosiddetta
Scuola Veneziana, e allievo di un compositore fiammingo è Palestrina. La cupola
brunelleschiana del Duomo di Firenze fu inaugurata con il motetto (si dovrebbe
scrivere così) “Nuper rosarum flores” di Guillaume Dufay (pronunciare “dufài”, con
la u lombarda, e accento sulla a, non “dufaì”, senza la u lombarda e con accento
sulla y finale, come si sente spesso impropriamente dire, in italiano il cognome
suonerebbe Del Faggio; i francesi moderni lo attualizzano e lo pronunciano “dufé”,
ma il dittogo ay nel francese del ‘400 non era ancora contratto e si pronunciava
ài”).
Ecco, allora rifletto: chi oggi lo considera un
modello di bellezza musicale, ne penetra anche le audacie armoniche, le
asprezze timbriche, la follia inventiva? Goethe lo considerava un musicista
“demoniaco”. E aveva ragione. Tutto il Kyrie della Messa in do minore, un
sublime torso, una sorta di “prigione” mozartiano, è di un’arditezza, di una
visionarietà quasi deliranti, folli. L’Andante della Sonata in la minore K. 310
per pianoforte ha nella sezione dello sviluppo improvvisi urti di seconde che
fanno rizzare i capelli, e così pure l’Andante della Sonata in fa maggiore K.
494 (con il rondò K, 533), sempre nella sezione centrale dello sviluppo,
presenta urti di settime, seconde da fare invidia a Stravinsky, in progressioni
che rinviano a lungo la risoluzione. Allora?
Ma non sarà il caso di riascoltare Mozart in tutta la
sua forza di musicista “innovatore”? Accade insomma, per Mozart, quanto in
poesia con Dante. Il Quinto Canto dell’Inferno è da tutti celebrato come una
sublime narrazione di amore passionale, talmente intensa che il poeta sviene
alla fine del racconto. Ma quanti si rendono conto che Francesca parla a Dante
con le immagini e le metafore dello Stil Novo?
“Amor che a cor gentil ratto s’apprende”. Ecco ciò che turba Dante.
Aveva cantato l’amore per Beatrice come una Via di Salvezza, l’impatto con una
donna-angelo, messaggera di Dio, un itinerario della mente a Dio (itinerarium
mentis ad Deum, San Bernardo, tra gli altri), e si ritrova che
quell’itineriario conduce alla dannazione. Ecco ciò che lo sconvolge, e gli
ritornano in mente la selva, le tre belve, la porta dell’Inferno. Il viaggio,
l’itinerario, sarà proprio questo, che conduce nel mondo dei morti, e solo la
conoscenza del rischio, in ogni atto, di fare la scelta sbagliata, lo guiderà
finalmente alla visione di Dio. Dante non si sente superiore ai dannati, ai
purganti che incontra, ma riconosce in ciascuno il rischio di fallimento della
propria vita che ha dannato i dannati e costretto al Purgatorio le anime peccatrici,
rischio che lui stesso ha corso, che corre ancora, se non lo guarda in faccia, se
non se ne libera, e non si prepara così, finalmente purificato, all’impatto con
l’Assoluto, l’Amor che muove il sole e l’altre stelle. Ecco l’amore che non
danna, ma salva.
Forza! Ogni nota che Mozart ha stilato sul
pentagramma è il frutto di una fatica inenarrabile (lo scrive lui stesso nella
dedica a Haydn), di un pensiero incandescente, di un tormento inarrestabile,
che si chiarifica, si sublima, solo al filtro di un paziente lavoro di
selezione e di prosciugamento degli stimoli creativi. Solo l’essenziale ha stanza
nell’opera, il superfluo è inesorabilmente, senza pentimento, spazzato via.
Beethoven impiega una vita per comprenderlo, e anche lui ci arriva, anche lui,
nelle opere tarde, toglie, prosciuga. Come prima di Mozart e di Beethoven aveva
fatto Bach nella Messa in si minore e nell’Arte della fuga. L’ispirazione è,
forse, un dono della Grazie, o dell’inconscio, ma l’opera è sempre il frutto di
un lungo, paziente e testardo lavoro. Anche quando sembra nascere dal niente,
anzi proprio quando sembra nascere dal niente.
Per una ghirlandetta
ch’io vidi, mi farà
sospirare ogni fiore.
Ma quanta frequentazione, quanta attenta lettura di
poeti latini, provenzali, francesi , siciliani, toscani, quanta riflessione su
che cos’è poesia e su che cosa non è, ci sono volute per ottenere il miracolo di
tanta spontanea freschezza? E’ tra le rime di Dante meno conosciute. Eppure
Dante conosce anche questa accattivante, irresistibile, leggerezza, la stessa
con cui descrive Matelda nel Purgatorio. Mozart compie, assai spesso, lo stesso
miracolo. E con lo stesso paziente, testardo, lunghissimo studio. In latino la
parola “studium” significa, soprattutto, amore.
Fiano Romano, 27 gennaio 2016
Buongiorno professore. Non sto qui a raccontarle come sono finita su questo blog, ma leggo molto volentieri le sue riflessioni su Mozart e sulla poetica dantesca, dopo essere stata sua allieva al conservatorio di Firenze nel lontano 1988/89. Grazie!!! Continuerò a seguirla. Ora sono insegnante di educazione musicale ma siccome non si finisce mai di imparare le sue "lezioni" continueranno ad essermi utili e proficue come allora. Buona giornata!!!
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