martedì 19 gennaio 2016

Boulez, riflessione provvisoria



Due note su Boulez

“Infine, l’indecenza e l’ignominia dell’italiana RAI, e, proprio della “culturale” Radio Tre, che la mattina del 7 gennaio, nella trasmissione Prima pagina, dopo avere parlato à gogo dei discorsi del Papa, delle geremiadi del cardinale Bagnasco contro le unioni civili (appunto: sempre contro qualcosa di civile), della morte di Silvana Pampanini, non si è degnata di nominare Boulez. Ecco, soltanto nel Giornale Radio Tre, come ultima notizia, ma per cinque secondi, soltanto come spassoso corollario alla morte della ex-divertente attrice: “Come la Pampanini, Boulez aveva 90 anni ...”.
Così Quirino Principe, sulla Domenica del Sole24Ore, 10 gennaio 2016, conclude il suo ricordo di Boulez.
I tempi sono questi. Che farci? Del resto, non mi sembra che sia andata meglio tra i musicisti e gli uomini di cultura. Il personaggio era certo spigoloso. E non sono mancati i commenti rancorosi, come a fare i conti, ora che non c’è più. Ma un compositore di tale levatura – uno dei quattro o cinque del secolo! – non poteva essere gradito a tutti. Forse proprio per la sua levatura. Mi riservo più avanti di riflettere sulla sua opera (ancora troppo dolorosa la ferita della perdita): il corso sul Pli selon pli tenuto al Conservatorio di Venezia, mi aiuterà a recuperare appunti e riflessioni. E naturalmente, anche le altre partiture, i libri scritti da lui, le conferenze, e le conversazioni tenute con lui quando era in vita.  Ma ora, anche sull’emozione, per me radicale, profonda, della sua scomparsa, mi piace mettere in rilievo alcuni punti.
Le sue opinioni radicali manifestate nei confronti di altri compositori. In particolare Schoenberg e lo Stravinsky neoclassico. Tutti a dargli addosso, per il suo “Schoenberg è morto”. Intanto la frase è un annuncio e non un programma. Fu detta appunto quando Schoenberg morì e divenne il titolo del commiato. Ma quanti si sono dati la pena di leggerlo, l’articolo, senza fermarsi al solo titolo? Boulez vi parla da compositore, non da critico musicale e tanto meno da storico della musica. In parole povere dice una cosa sensatissima: i giovani compositori devono proseguire, fermarsi a imitare il maestro è condannarsi alla sterilità o all’epigonismo. Che è esattamente ciò che hanno fatto molti compositori, di cui quasi non ci si ricorda più. La mediocrità ha sempre bisogno di modelli da imitare e da imporre.  Riferito ad altro contesto è quanto scrive Charles Rosen alla fine del volume dedicato allo stile classico: i veri continuatori di Beethoven non furono quelli che ne imitarono pedantemente le orme, ma quelli che andarono oltre, proseguirono, assimilando di Beethoven non il suo stile, ma la sua libertà nello strutturare una forma. Chopin, Schumann, Liszt. Lo stesso, dopo Schoenberg, partendo da ciò che aveva sviluppato Webern, ma non imitando nemmeno Webern.  Non è un caso che i meno ligi ai dettami del webernismo darmstadtiano risultino proprio quelli che sono accusati di averlo imposto: Boulez, Stockhausen, Maderna. La liberta della scrittura non è né un dono delle Grazie né un ossequio a dogmi prescrittivi, ma il frutto faticoso di una ricerca continua e costante, senza mai dare per definitivo il risultato raggiunto un attimo prima.
Stravinsky. L’analisi della Sagra resta un esempio, questo sì definitivo, di analisi musicale. Boulez, però, non amava lo Stravinsky neoclassico. E si capisce: gli sembrava un ritornare sui propri passi. Non è così. Ma a lui sembrava così. Tuttavia, invece, gli piacevano quelle opere in cui individuava gioco o ironia, per esempio il Pulcinella. Non ha mai fatto di ciò una scelta di giudizio critico, bensì solo di gusto. Glielo rimprovereremo?
Del resto, poi, l’interprete scavalcava sia il compositore che il musicologo. E ci ha donato interpretazioni mirabili proprio delle opere per le quali sembrava nutrire diffidenza. Schoenberg, Berg, Bartók, tra gli altri. Qui dovremmo aprire un discorso su Boulez interprete. Ma lo rimandiamo. Accenno solo a due compositori, dei quali ci ha fatto leggere cose nuove: Wagner e Mahler. Dopo di lui, la lettura di questi compositori non può essere quella di prima. C’è una consapevolezza della storia, inattaccabile. Wagner e Mahler sono letti non solo per ciò che hanno significato nel loro tempo (non è vero che il suo Wagner non è “romantico” e che il suo Mahler non è quello del suo tempo: nessun grande compositore è compositore solo del proprio tempo).  In Wagner Boulez legge anche la musica ch’è venuta dopo. Un esempio: la discesa a Niebelheim nell’Oro del Reno sembra un momento di musica concreta, e lo è, si martellano incudini. Mahler sembra farci capire di trovarci sul ciglio di un abisso: dopo, il nulla, il silenzio, o una musica che ubbidisce a nuove leggi armoniche. Naturalmente, ciò significa che Boulez legge una partitura più da compositore che da interprete, entra nel laboratorio del compositore, e vi entra, come se fosse il laboratorio di un compositore contemporaneo.  Ma senza per questo spegnere la fiamma dell’emozione. Sta qui il suo segreto e la commozione sublime che attanaglia l’ascoltatore.  Ho visto Luciano Berio piangere, a Salisburgo, dopo l’esecuzione del Mosè e Aronne di Schoenberg.  Quanto a me, a costo di scandalizzare i puristi e gli interpreti iperfilologici, confesso che mi piace anche il suo Handel (fuochi d’artificio e musica sull’acqua). Certo, non lo prenderei come esempio d’interpretazione handeliana. Ma c’è un aspetto accattivante: Boulez sembra intuire nella scrittura di Handel un’anticipazione della musica elettronica, un procedere per fasce sonore e per blocchi timbrici. Questo procedere per blocchi doveva essere del resto anche ciò che attirava Beethoven.  E perché non dovrebbe piacerci se qualcuno legge Handel come un compositore contemporaneo? La musica che suoniamo e che ascoltiamo è sempre musica contemporanea. Se non altro sono contemporanei gli occhi che la leggono e le orecchie che l’ascoltano. Possiamo anche suonare Beethoven sul pianoforte usato da lui, ma non potremo cancellare dalla nostra memoria che per quello strumento hanno scritto anche Chopin, Schumann, Liszt, Debussy, Ravel, Bartók. L’orecchio ha una memoria storica, e nello strumento attuale proietta tutta la musica scritta per quello strumento. Anzi il suono del pianoforte del primo ottocento ci farà l’impressione di uno strumento esotico, invece che familiare, come appariva a Beethoven.  Non è, dunque, in conflitto con il compositore barocco, correttamente eseguito (ma esiste un modo corretto di leggere un compositore?), lo stesso compositore letto come se fosse moderno, è semplicemente complementare. O davvero crediamo che l’Iliade come la leggiamo oggi sia quella che ha scritto Omero e come la leggevano o, anzi, l’ascoltavano i suoi contemporanei? Già Platone e Aristotele la leggevano in modo nuovo.

Fiano Romano, 19 gennaio 2016

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