giovedì 28 gennaio 2016

Una noterella filologica: la Monarchia di Dante



Monarchia. - È il titolo (e non De Monarchia, estraneo alla tradizione manoscritta) di un trattato in tre libri di argomento politico, scritto da Dante in lingua latina. Il titolo non si riferisce genericamente a ogni stato in cui sia sovrano un re; si riferisce invece all'Impero: quell'unico principato che sta sopra tutti gli altri, relativamente a ciò che ha principio e fine nel tempo (cfr. Mn I II 2)”.
Pier Giorgio Ricci, curatore dell’edizione critica della “Monarchia”, Milano, Mondadori, 1965.
Dante non ha mai scritto un “De Monarchia”, come si sente spesso dire e più spesso si legge, anche da parte di emeriti studiosi di letteratura italiana e perfino di letterature classiche.  Il motivo è molto semplice, ed è ideologico: un trattato politico che riguarda il Potere Universale dell’Impero non può ammettere che tale Potere, la Monarchia Universale, sia denotato nel titolo dell’opera con un caso obliquo, ma pretende e ammette il solo caso soggetto, cioè il nominativo. Sarà pure una minuzia di bizantinismo medievale, ma per Dante ha un valore politico immenso: in parole povere la Monarchia, anche grammaticalmente, non può essere soggetta a nessun altro soggetto, non può dipendere, nemmeno come caso grammaticale, da nessun altro caso che la subordini al proprio dominio. Dante compie uno sforzo sovrumano per presentare il termine, anche nel corpo del testo, fin dalle prime righe, sempre, e solo al nominativo.  Quando gli serve il caso obliquo ricorre al sostantivo “Monarcha”, monarca, imperatore, pur di non intaccare la soggettività della Monarchia, presentata sempre al nominativo, “Monarchia”, e scrive, per esempio, “Ius Monarche”, diritto del Monarca. In calce: l’accento va sulla prima a, in quanto la i, breve, non può essere accentata, dunque: Monàrchia.  E’ possibile che nel tardo Medio Evo l’accento fosse scivolato sulla i, come in “philosophia”, che andrebbe pronunciato “philosóphia”, ma si leggeva, forse, già “philosophía”, come in italiano. Dante, però, conosceva bene la prosodia latina, scrive anche versi latini, e dunque è assai più verosimile che, almeno quando scriveva in latino, dicesse “Monàrchia” e “philosóphia”.
Sorprende perciò che uno studioso del livello di Luciano Canfora, nel suo interessantissimo, e documentatissimo, “Gli occhi di Cesare. La biblioteca latina di Dante”, Roma, Salerno, “Astrolabio”, 2015, a pag. 21 scriva “ne fa ampio uso nel De monarchia”.  Ma poi a pag. 31 presenta addirittura tutt’e due le titolazioni: rigo 11, “(De Monarchia, II, 36)”; righi 15-16, “Nel brano ora ricordato della Monarchia, Dante ecc.”
Mi perdonino i lettori questa noterella filologica. Ma la lettura del libretto di Canfora me ne ha risuscitato l’antica e mai smessa passione.
In calce: nel latino scritto medievale i dittonghi ae ed oe si scrivevano e, come si pronunciavano, e dunque, qui, Monarche sta per Monarchae.

Fiano Romano, 28 gennaio 2016

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