lunedì 18 gennaio 2016

Born in the U.S.A., concerto di Antonio Pappano e Gil Shaham a Santa Cecilia



ACCADEMIA NAZIONALE DI SANTA CECILIA
Antonio Pappano, direttore
Gil Shaham, violino
Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia
Born in the U.S.A
Musiche di Leonard Bernstein, Samuel Barber e John Adams

Ma che cosa sanno veramente gli italiani della cultura degli USA? Me lo chiedevo mentre ascoltavo il bel concerto diretto da Antonio Pappano, sabato 16 gennaio, a Santa Cecilia, e replicato il 18 e 19 gennaio: titolo esplicito e illuminante, Born in the U.S.A.
Vanno quasi tutti a New York, quanti dicono di conoscere l’America, e molti si fermano là. Come se New York fosse l’intero paese. E’ una sorta di enclave. Come, in parte, Boston. che però riflette meglio di New York taluni caratteri generali della società e della cultura americane. O Seattle. L’ultima arrivata. La cultura americana ha, infatti, regalato al mondo alcuni dei più grandi poeti, scrittori e pittori del Novecento. Quasi nessuno era di New York. La poesia americana è tra le più visionarie del secolo. Faccio solo due nomi: Wallace Stevens e Mark Strand. Ma ce ne sono altri, e non pochi, tutti abbaglianti. E potrei risalire indietro a Sylvia Plath, e più indietro ancora all’immensa Emily Dickinson.  Quanto alla pittura bastano i nomi di Rothko, Pollock? Warhol? Ciascuno ha disintegrato un mondo e costruito un altro. Senza, però, dimenticare le macerie provocate. Come potevamo pensare che in musica, a parte il jazz, non ci fosse niente, o niente di rilevante? Il concerto di Pappano voleva, forse, significarci proprio questo.
 Una ghirlanda estemporanea, tre musicisti diversissimi, e di momenti, anche, diversi. I primi due, a dire il vero, quasi coetanei, ma appartenenti a mondi espressivi , se non opposti, certo molto distanti: Leonard Bernstein (1918-1990) e Samuel Barber (1910-1981), entrambi, comunque, del New England ed entrambi morti a New York. Il primo brano, di Bernstein, sono tre danze dal musical On the Town. L’ultimo, Times Square, un omaggio esplicito a New York, nello spirito di tutto il musical, del resto, che racconta una storia newyorkese.  Una sorta di prequel di Sex and the City, ma le distinzioni di genere – alto, medio, basso – care alla retorica europea medievale, e ancora, pur troppo, diffuse nella cultura media degli italiani (Beethoven è il genere alto, i Beatles quello basso), è del tutto estranea alla cultura americana. Lo notavano già, agli inizi del secolo scorso, un poeta russo e un musicista francese: Majakovskij e Varèse. Certi temi passano dal teatro al palcoscenico alla televisione alla canzone senza far sentire il salto di genere. Che tuttavia, manifesta le sue pretese. La musica che Bernstein scrive per un musical ha la stessa accuratezza di scrittura contrappuntistica e di strumentazione aggiornata di una sinfonia. Dietro, o sotto, ci si sente sempre il suo amatissimo Ravel.  Le tre danze non fanno eccezione: la calibratura dei timbri e la vivacità dei ritmi, il flessuoso ondeggiare della melodia, impregnata, simultaneamente, di swing e di melodizzare pucciniano,  sono un piacere per l’orecchio e uno continua provocazione per l’intelligenza, tutto sembra già udito, eppure tutto appare insieme nuovo.  L’orchestra ceciliana sembrava scoprire matrici incognite, e sono sicuro che suonando, i musicisti godevano. L’aspetto seduttivo, di piacevolezza, anche nei momenti più aspri, non è quasi mai trascurato dai compositori americani. E meno che mai da Bernstein. Pappano, a tale seduzione si abbandona e seduce l’ascoltatore.
Seguiva il Concerto per violino e orchestra di Samuel Barber.  Violinista attento, lucidissimo, e straordinariamente espressivo, Gil Shaham. Barber vive e lavora in tutt’altra regione, da quella di Bernstein. Il riferimento è la musica europea tra Otto e Novecento. Ma solo il riferimento, lo sfondo, l’orizzonte a cui guardare. La scrittura è raffinatissima, attacca subito il violino. Ma guai a pensare che ci si debba preparare a una bella e confortevole ubriacatura di melodie. Come scrive bene Gianluigi Mattietti nelle istruttive e accurate note del programma di sala, “questo lavoro ha dunque una forma molto tradizionale in tre movimenti, impiega un normale organico orchestrale, con i legni a due e l’aggiunta di un pianoforte, ma presenta dei tratti originali sia dal punto di vista della forma che della scrittura musicale, per la texture orchestrale molto trasparente, con rari momenti contrappuntistici, per il continuo melodizzare, rapsodico e divagante, per la struttura armonica diatonica e poco modulante”. L’originalità sta proprio nella melodia, e il modo di trattarla lo fa subito percepire come un compositore del Novecento.  Perché non abbandonarsi al piacere di cantare? sembra essersi chiesto Barber.  Tuttavia, l’irregolarità delle frasi. il pudore con sui si evita il canto spiegato, sono sintomi di una sfiducia tipicamente novecentesca per l’espressione esplicita dei sentimenti. Il vicolo cieco in cui si confina la musica del Novecento (quasi tutta, anche il celebratissimo Rachmaninov) è la consapevolezza di aver perduto il paradiso romantico, e che nessuna nostalgia imitativa è in grado di recuperare quell’artificiosa spontaneità emotiva. Il disegno della melodia si fa contorto, l’armonia, anche la più diatonica, come questa di Barber, spigolosa. Il canto, allora, si muta in desiderio di canto, paura di cantare,  e si contorce in labirinti melodici che sembrano cominciare dal niente e non finire se non nell’affondamento del suono, nel sospiro tacitato.  L’Andante di questo concerto è un capolavoro di esplicita confessione d’impotenza, ma proprio per questo, bellissimo, modernissimo, e, naturalmente, disperato. Pappano e Shaham hanno toccato vertici d’intensità espressiva. Il bis, chiesto al violinista da un pubblico osannante (ma allora il Novecento può piacere anche a un pubblico conservatore come quello di Santa Cecilia!), e concesso, solo apparentemente ritornava alla tradizione,  all’ordine, alla melodia. In realtà additava una fonte: Johann Sebastian Bach. Un breve, graziosissimo Rondò per violino solo. Ma il magistero della scrittura appariva, almeno per l’ascoltatore esperto, come il modello del magistero con cui Barber ha composto il Concerto per violino.
Chiudeva la bella serata una strana pagina di John Adams, Harmonielehre. Composta nel 1985, è una sorta di sinfonia in tre tempi, il titolo rinvia al famoso Manuale di armonia di Schoenberg, Sembrerebbe un titolo provocatorio, per chi conosce la fedeltà più volte affermata da Adams all’armonia tonale, e che fa collocare il compositore, riduttivamente tra i “minimalisti”. In realtà il riferimento a Schoenberg è anche un atto di amore alla musica del  tardo romanticismo tedesco e il riconoscimento di un debito.  Già nei titoli dei movimenti amore e debito si confondono: la ferita di Amfortas, Meister Eckhardt and Quackie. Nel segreto di quasi ogni artista americano giace una tentazione, o piuttosto una fascinazione, mistica. Quackie è il nomignolo della figlia di Barber, ma vi si associa anche un’allusione alla setta protestante dei quaccheri, attiva soprattutto nella Nuova Inghilterra. Meister Eckhart (Eckhardt è l’ortografia inglese) è un grande mistico tedesco del XIII secolo. La partitura è complessa e articolatissima, soprattutto ritmicamente. Orchestrata da una mano maestra. Tuttavia, devo confessarlo, alla fine si resta un po’ in attesa di qualcosa che non arriva, come se fosse una grande musica illustrativa, priva di spessore sia emotivo che intellettuale, la musica di scena di un dramma che non c’è. Del resto, Adams esprime il suo meglio proprio nel teatro. Successo travolgente per Pappano. Meritatissimo. Una nota spiacevole, della bellissima e interessantissima serata, il comportamento, al solito, maleducato, di una parte del pubblico di Santa Cecilia. Appena suonato l’ultimo accordo, è subito un alzarsi e un fuggi fuggi per guadagnare l’uscita, senza degnare d’uno sguardo i musicisti sul palco. Il concerto è finito alle 20. Dove correvano costoro? Possibile che non avessero la pazienza di aspettare che si accendessero le luci della sala? Quasi viene voglia d’invitare l’Accademia di Santa Cecilia a chiudere le porte a chiave, durante il concerto, come si fa in Austria e in Germania, così quei pochi maleducatissimi del pubblico che si affrettano a guadagnare l’uscio si vedrebbero le porte sbarrate. L’ho lamentato più volte, sulla Repubblica, nelle mie recensioni, e ho anche ricevuto lettere di protesta da parte di chi mi ha accusato di offendere il pubblico romano. Io non lo offendo. Si offende da sé, quella parte di pubblico che agisce in questa maniera. Il suo comportamento lo mostra come un pubblico maleducato: lasciamo perdere le caramelle scartocciate durane un adagio, o  i colpi di tosse senza portarsi la mano o un fazzoletto alla bocca, ma questo fuggi fuggi finale è ancora peggio, è insopportabile, e disturba chi vuole rimanere ad applaudire i musicisti.

Fiano Romano, 18 gennaio 2016

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