ACCADEMIA
NAZIONALE DI SANTA CECILIA
Antonio Pappano, direttore
Gil Shaham, violino
Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia
Born in the U.S.A
Musiche di Leonard Bernstein, Samuel Barber e John Adams
Ma che cosa sanno veramente gli
italiani della cultura degli USA? Me lo chiedevo mentre ascoltavo il bel
concerto diretto da Antonio Pappano, sabato 16 gennaio, a Santa Cecilia, e
replicato il 18 e 19 gennaio: titolo esplicito e illuminante, Born in the U.S.A.
Vanno quasi tutti a New York,
quanti dicono di conoscere l’America, e molti si fermano là. Come se New York
fosse l’intero paese. E’ una sorta di enclave. Come, in parte, Boston. che però
riflette meglio di New York taluni caratteri generali della società e della
cultura americane. O Seattle. L’ultima arrivata. La cultura americana ha, infatti,
regalato al mondo alcuni dei più grandi poeti, scrittori e pittori del
Novecento. Quasi nessuno era di New York. La poesia americana è tra le più
visionarie del secolo. Faccio solo due nomi: Wallace Stevens e Mark Strand. Ma
ce ne sono altri, e non pochi, tutti abbaglianti. E potrei risalire indietro a
Sylvia Plath, e più indietro ancora all’immensa Emily Dickinson. Quanto alla pittura bastano i nomi di Rothko,
Pollock? Warhol? Ciascuno ha disintegrato un mondo e costruito un altro. Senza,
però, dimenticare le macerie provocate. Come potevamo pensare che in musica, a
parte il jazz, non ci fosse niente, o niente di rilevante? Il concerto di
Pappano voleva, forse, significarci proprio questo.
Una ghirlanda estemporanea, tre musicisti
diversissimi, e di momenti, anche, diversi. I primi due, a dire il vero, quasi
coetanei, ma appartenenti a mondi espressivi , se non opposti, certo molto
distanti: Leonard Bernstein (1918-1990) e Samuel Barber (1910-1981), entrambi,
comunque, del New England ed entrambi morti a New York. Il primo brano, di
Bernstein, sono tre danze dal musical On
the Town. L’ultimo, Times Square,
un omaggio esplicito a New York, nello spirito di tutto il musical, del resto,
che racconta una storia newyorkese. Una
sorta di prequel di Sex and the City,
ma le distinzioni di genere – alto, medio, basso – care alla retorica europea
medievale, e ancora, pur troppo, diffuse nella cultura media degli italiani
(Beethoven è il genere alto, i Beatles quello basso), è del tutto estranea alla
cultura americana. Lo notavano già, agli inizi del secolo scorso, un poeta russo
e un musicista francese: Majakovskij e Varèse. Certi temi passano dal teatro al
palcoscenico alla televisione alla canzone senza far sentire il salto di
genere. Che tuttavia, manifesta le sue pretese. La musica che Bernstein scrive
per un musical ha la stessa accuratezza di scrittura contrappuntistica e di
strumentazione aggiornata di una sinfonia. Dietro, o sotto, ci si sente sempre
il suo amatissimo Ravel. Le tre danze
non fanno eccezione: la calibratura dei timbri e la vivacità dei ritmi, il
flessuoso ondeggiare della melodia, impregnata, simultaneamente, di swing e di
melodizzare pucciniano, sono un piacere
per l’orecchio e uno continua provocazione per l’intelligenza, tutto sembra già
udito, eppure tutto appare insieme nuovo.
L’orchestra ceciliana sembrava scoprire matrici incognite, e sono sicuro
che suonando, i musicisti godevano. L’aspetto seduttivo, di piacevolezza, anche
nei momenti più aspri, non è quasi mai trascurato dai compositori americani. E
meno che mai da Bernstein. Pappano, a tale seduzione si abbandona e seduce
l’ascoltatore.
Seguiva il Concerto per violino e orchestra di Samuel Barber. Violinista attento, lucidissimo, e
straordinariamente espressivo, Gil Shaham. Barber vive e lavora in tutt’altra
regione, da quella di Bernstein. Il riferimento è la musica europea tra Otto e
Novecento. Ma solo il riferimento, lo sfondo, l’orizzonte a cui guardare. La
scrittura è raffinatissima, attacca subito il violino. Ma guai a pensare che ci
si debba preparare a una bella e confortevole ubriacatura di melodie. Come
scrive bene Gianluigi Mattietti nelle istruttive e accurate note del programma
di sala, “questo lavoro ha dunque una forma molto tradizionale in tre movimenti,
impiega un normale organico orchestrale, con i legni a due e l’aggiunta di un
pianoforte, ma presenta dei tratti originali sia dal punto di vista della forma
che della scrittura musicale, per la texture
orchestrale molto trasparente, con rari momenti contrappuntistici, per il
continuo melodizzare, rapsodico e divagante, per la struttura armonica
diatonica e poco modulante”. L’originalità sta proprio nella melodia, e il modo
di trattarla lo fa subito percepire come un compositore del Novecento. Perché non abbandonarsi al piacere di
cantare? sembra essersi chiesto Barber.
Tuttavia, l’irregolarità delle frasi. il pudore con sui si evita il
canto spiegato, sono sintomi di una sfiducia tipicamente novecentesca per l’espressione
esplicita dei sentimenti. Il vicolo cieco in cui si confina la musica del
Novecento (quasi tutta, anche il celebratissimo Rachmaninov) è la
consapevolezza di aver perduto il paradiso romantico, e che nessuna nostalgia
imitativa è in grado di recuperare quell’artificiosa spontaneità emotiva. Il
disegno della melodia si fa contorto, l’armonia, anche la più diatonica, come
questa di Barber, spigolosa. Il canto, allora, si muta in desiderio di canto,
paura di cantare, e si contorce in
labirinti melodici che sembrano cominciare dal niente e non finire se non
nell’affondamento del suono, nel sospiro tacitato. L’Andante di questo concerto è un capolavoro
di esplicita confessione d’impotenza, ma proprio per questo, bellissimo,
modernissimo, e, naturalmente, disperato. Pappano e Shaham hanno toccato vertici
d’intensità espressiva. Il bis, chiesto al violinista da un pubblico osannante
(ma allora il Novecento può piacere anche a un pubblico conservatore come
quello di Santa Cecilia!), e concesso, solo apparentemente ritornava alla
tradizione, all’ordine, alla melodia. In
realtà additava una fonte: Johann Sebastian Bach. Un breve, graziosissimo Rondò per violino solo. Ma il magistero
della scrittura appariva, almeno per l’ascoltatore esperto, come il modello del
magistero con cui Barber ha composto il Concerto per violino.
Chiudeva la bella serata una
strana pagina di John Adams, Harmonielehre.
Composta nel 1985, è una sorta di sinfonia in tre tempi, il titolo rinvia al
famoso Manuale di armonia di
Schoenberg, Sembrerebbe un titolo provocatorio, per chi conosce la fedeltà più
volte affermata da Adams all’armonia tonale, e che fa collocare il compositore,
riduttivamente tra i “minimalisti”. In realtà il riferimento a Schoenberg è
anche un atto di amore alla musica del
tardo romanticismo tedesco e il riconoscimento di un debito. Già nei titoli dei movimenti amore e debito
si confondono: la ferita di Amfortas, Meister Eckhardt and Quackie. Nel segreto
di quasi ogni artista americano giace una tentazione, o piuttosto una
fascinazione, mistica. Quackie è il nomignolo della figlia di Barber, ma vi si associa
anche un’allusione alla setta protestante dei quaccheri, attiva soprattutto
nella Nuova Inghilterra. Meister Eckhart (Eckhardt è l’ortografia inglese) è un
grande mistico tedesco del XIII secolo. La partitura è complessa e
articolatissima, soprattutto ritmicamente. Orchestrata da una mano maestra.
Tuttavia, devo confessarlo, alla fine si resta un po’ in attesa di qualcosa che
non arriva, come se fosse una grande musica illustrativa, priva di spessore sia
emotivo che intellettuale, la musica di scena di un dramma che non c’è. Del
resto, Adams esprime il suo meglio proprio nel teatro. Successo travolgente per
Pappano. Meritatissimo. Una nota spiacevole, della bellissima e
interessantissima serata, il comportamento, al solito, maleducato, di una parte
del pubblico di Santa Cecilia. Appena suonato l’ultimo accordo, è subito un
alzarsi e un fuggi fuggi per guadagnare l’uscita, senza degnare d’uno sguardo i
musicisti sul palco. Il concerto è finito alle 20. Dove correvano costoro?
Possibile che non avessero la pazienza di aspettare che si accendessero le luci
della sala? Quasi viene voglia d’invitare l’Accademia di Santa Cecilia a
chiudere le porte a chiave, durante il concerto, come si fa in Austria e in
Germania, così quei pochi maleducatissimi del pubblico che si affrettano a
guadagnare l’uscio si vedrebbero le porte sbarrate. L’ho lamentato più volte,
sulla Repubblica, nelle mie recensioni, e ho anche ricevuto lettere di protesta
da parte di chi mi ha accusato di offendere il pubblico romano. Io non lo
offendo. Si offende da sé, quella parte di pubblico che agisce in questa maniera.
Il suo comportamento lo mostra come un pubblico maleducato: lasciamo perdere le
caramelle scartocciate durane un adagio, o i colpi di tosse senza portarsi la mano o un fazzoletto
alla bocca, ma questo fuggi fuggi finale è ancora peggio, è insopportabile, e disturba
chi vuole rimanere ad applaudire i musicisti.
Fiano Romano, 18 gennaio 2016
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