DINO VILLATICO
BEETHOVEN
Musiche per la scena
E quand’anche l’arte si limitasse a questo, a porre
di fronte all’intuizione il quadro delle passioni, e quand’anche addirittura le
lusingasse, vi è già in ciò una capacità di addolcimento, in quanto viene per
lo meno portato a coscienza nell’uomo ciò che altrimenti egli è solo
immediatamente. Poiché ora l’uomo osserva i suoi impulsi e le sue
inclinazioni, e mentre prima questi lo avevano irriflessivamente travolto, ora
egli li vede fuori di sé ed incomincia a sentirsi libero nei loro confronti
poiché gli si contrappongono come qualcosa di oggettivo.
G. W. F. Hegel[1]
Coloro che continuano a ragionare in termini di
“teatralità”, che credono, cioè, che esitano dei requisiti capaci di abilitare
un’opera alle scene, mancando i quali l’opera sarebbe pura letteratura, magari
alta, ma non teatro, coloro che credono che tali requisiti possano essere
individuati attraverso la sola lettura dell’opera, non solo proiettano nel
passato il poco teatro che conoscono, come se fosse l’unico teatro possibile,
ma perdono il senso storico della dialettica fra teatro vigente e teatro
potenziale.
Claudio Meldolesi, Ferdinando Taviani[2]
1. Le riflessioni di Adorno[3].
Quanto segue sono frammenti dai
frammenti del libro mai compiuto di Adorno su Beethoven. Ciascuno di essi si
presta a numerose e feconde riflessioni, a integrazioni, contraddittori,
confutazioni, entusiasmi. Mai, come in queste pagine, il pensiero musicale
beethoveniano è stato meglio indagato appunto come vero e proprio pensiero. La
musica di Beethoven tende infatti a stabilire con capillare precisione la
costruzione dei procedimenti formali, al punto che la precisione di tali
procedimenti sembra coincidere, analogicamente, con la precisione semantica del
linguaggio. Come se Beethoven avesse scoperto una doppia articolazione
della musica equivalente alla doppia articolazione del linguaggio[4]. Non
aveva tutti i torti Wagner nell’individuare nella musica di Beethoven una
volontà di dire, ma tale volontà non va nella direzione del dramma, o non solo
nella direzione del dramma, bensì in quella del pensare. Non che fosse
ignota ai musicisti precedenti la capacità della musica di evocare
l’extramusicale, di farsi rappresentazione, imitazione, di un fenomeno naturale
o di un moto dell’animo. Vicino a Beethoven, si pensi solo alla mirabile
introduzione della Creazione di Haydn (musicista molto più intellettuale,
di quanto storici e critici abbiano creduto e voluto supporre). Pagina che deve
essere rimasta impressa a lungo nella mente di Beethoven, insieme
all’introduzione dell’ultima Sinfonia in re maggiore, la cosiddetta London.
La loro suggestione feconderà l’attacco della Nona. Dramma e pensiero,
anzi, per Beethoven sono complementari, inscindibili. In ciò rivelandosi vero
erede di una tradizione teatrale tipicamente tedesca: quella di Lessing,
Schiller e Goethe, tanto per intenderci[5].
Le riflessioni di Adorno
costituiranno dunque il punto di partenza del nostro viaggio nel teatro di
Beethoven[6].
29, 4. La chiave per comprendere
l’ultimo Beethoven consiste probabilmente nel fatto che in questa musica la
presentazione della totalità come già compiuta divenne insopportabile per il
suo genio critico. La via materiale presa da questa consapevolezza all’interno
della musica di Beethoven è quella della contrazione.
30. Il procedimento critico di
Beethoven, la famosa “autocritica” deriva dal senso critico della musica
stessa, il cui principio è in sé la negazione immanente di tutte le sue
posizioni. Non ha nulla a che fare con la psicologia di Beethoven.
31. … Forse anche in Beethoven la
necessità è quella prodotta soltanto dalla coscienza, in un certo senso una
necessità di pensiero. … L’arte è più reale della filosofia poiché dichiara
l’identità come apparenza[7].
A questo riguardo cfr. l’appunto
su Rembrandt in questo quaderno:
“Con questo finisce il desiderio
di tutto il mondo”. Sull’autoritratto di Rembrandt alla Frick Collection: in
questo quadro mi sembra fissata un’esperienza borghese originaria. Si potrebbe
quasi chiamarla l’esperienza della legge del valore. Scambio degli equivalenti
significa qui: non esiste nessuna felicità che non si debba pagare con la
stessa quantità di dolore. Conoscere la vita significa qui: sapere che a ogni
desiderio di felicità viene presentato il conto. Il pittore è però colui il
quale si dimostra ancora all’altezza di questa esperienza. La sua fortuna è
quella di partecipare al bilancio della felicità che non lascia nulla in
avanzo. Lo sguardo stoico del medico è quello del pittore sull’oggetto. Tanta
rovina quanta felicità. La forza particolare della consolazione nel rapporto da
vicino, senza eccitazione - si potrebbe dire: pratico - con rovina e morte. La
grandezza di quadri del genere consiste nel fatto che sono stati dipinti
al cospetto della loro esperienza.
49. In musica ogni particolare è
ambiguo, sibillino, mitico - e il tutto è chiaro. Questa è la trascendenza
della musica. Ma partendo dalla chiarezza del tutto si può identificare
l’ambiguità del particolare[8].
50. Dopo un’esecuzione della Leonore
n. 2 diretta da Scherchen[9] mi è
diventato chiaro il seguente, forse decisivo anello di congiunzione della mia
costruzione: la negazione del particolare in Beethoven, la sua nullità, ha la
sua causa oggettiva nella natura del materiale: è nullo in sé, non
solo nell’immanenza del movimento della forma in Beethoven[10].
Questo significa che nella musica tonale quanto più si scende in ogni
particolare, tanto più questo è mero esemplare del suo concetto. Una triade
minore espressiva dice: io sono qualcosa, voglio dire qualcosa, ma è solo il
suono qui presentato, per così dire eteronomo (cfr. a questo proposito
l’osservazione di Beethoven sull’effetto dell’accordo di settima diminuita
utilizzato abilmente, che viene erroneamente attribuito al genio naturale del compositore[11]).
L’autonomia di Beethoven non può sopportarlo: è proprio il punto in cui si
concretizza musicalmente la categoria dell’autonomia. Egli trae la conseguenza
da due cose, dall’aspirazione del particolare a essere qualcosa e dalla sua
effettiva nullità. Il suo significato viene salvato dalla sua nullità: il tutto
in cui perisce realizza il significato - proprio questo - che il particolare
attribuisce erroneamente a sé. Questo è il nucleo della dialettica di parte e
tutto in Beethoven. Il tutto mantiene la falsa promessa del particolare.
53. La nullità del particolare,
il fatto che il tutto significa ogni cosa e - come alla fine dell’op. 111 -
retrospettivamente evoca in quanto compiuti, dettagli che non sono mai
esistiti, resta una questione centrale di ogni teoria su Beethoven. Qui c’è in
sostanza il fatto che non esiste nessun valore “di natura” e che esso è dovuto
soltanto al lavoro. Si uniscono qui motivi protoborghesi (quello
ascetico) e critici: il superamento del momento individuale nella totalità. In
Beethoven il particolare deve rappresentare sempre la materia naturale non
lavorata, in certo qual modo preesistente:da qui le triadi[12].
Proprio la sua non qualificazione (a differenza del materiale altamente
qualificato del romanticismo) rende possibile il completo superamento nella
totalità. La negatività del principio viene alla luce nei temi diatonici di
natura, nei falsi fenomeni primordiali di Wagner. In Beethoven è possibile:
1) grazie all’omogeneità del
materiale. Nei suoi più piccoli tratti ogni cosa si differenzia grazie alla
parsimonia del tutto. La banalità vale sempre solo relativamente ad un
principio già contrapposto al materiale divenuto banale.
2) in Wagner ciò che è nullo deve
significare qualcosa in quanto individuale; in Beethoven mai[13].
Il più grande esempio relativo a
questo argomento è l’inizio della ripresa dell’Appassionata (I tempo, b.
151). Se isolato, non è affatto convincente. In relazione allo sviluppo, uno
dei grandi momenti della musica.
84. Ad[14]
Beethoven e rivoluzione francese: … NB Il rapporto di Beethoven con la
rivoluzione francese va colto in concetti tecnici, determinati. Vorrei
fissare un punto: Beethoven si comporta nei confronti delle forme in
maniera assai simile alla rivoluzione francese, che non ha creato una nuova
forma di società ma ha soltanto aiutato a imporsi una forma già delineata. In
lui non si tratta della produzione di forme ma della loro riproduzione in base
alla libertà (anche in Kant c’è un aspetto molto simile[15]). Ma
questa riproduzione in base alla libertà ha almeno un tratto fortemente
ideologico. Il momento della non-verità consiste nel fatto che pare venga
creato un qualcosa che in verità già esiste (questo è esattamente il rapporto
fra presupposto e risultato che cercavo di definire). Di qui anche l’aspetto
“rozzo”: la pretesa di libertà là dove in verità si ubbidisce.
L’espressione del necessario in Beethoven è incomparabilmente più sostanziale
di quella della libertà, che ha sempre un qualcosa di finto (vedi gioia a
comando). La libertà è reale in Beethoven solo come speranza. Questo è uno dei
nessi sociali più importanti. Da confrontare ad es. “Dir werde Lohn”[16] con
la fine del Fidelio. “Inafferrabilità della gioia”[17].
108. L’inizio della Leonore
n. 3 suona come se fosse stato raggiunto il mare in fondo al carcere.
159. La posizione di eccellenza
del primo tempo dell’Eroica. E’ davvero il pezzo di Beethoven, la più
pura espressione del principio, il più accurato, l’assoluto capolavoro a cui
conducono tutte le opere precedenti. Forse uno degli impulsi più essenziali di
Beethoven è quello di non ripetere questo pezzo. Qui bisognerebbe aggiungere
osservazioni dialettiche su “perfezione” nell’arte[18].
172. Uno dei mezzi formali più
formidabili di Beethoven è quello delle ombre. L’Andante dell’Appassionata
inizia come se si piegasse sotto la forza del primo tempo e rimane lì sotto;
forse questo senso della forma ha scacciato l’Andante favorì dalla Sonata Waldstein:
l’introduzione al rondò, che lo sostituì, trattiene il fiato. Nell’ombra è però
anche la prima variazione dell’Arietta dell’op. 111. La voce animata non osa
quasi tendersi verso il tema che appare, che è. L’elemento dell’“angoscia” -
l’espressione appare nell’Arioso dell’op. 110 |recte: Adagio| del
Quartetto in si bemolle maggiore |op. 130, Cavatina, b. 42|, ma vale anche per
l’Arioso dell’op. 110 e per il passo in mi bemolle maggiore delle variazioni
sull’Arietta !bb. 119 sgg.| - ha qui il suo posto. I momenti dell’angoscia in
Beethoven sono quelli in cui la soggettività “afferra” il suo essere estraneo.
“Prima che voi afferriate il corpo su questa stella”[19]
l’angoscia domina. Quartetto del Fidelio.
175. Come esiste un musicalmente
stupido, così riguardo Beethoven - ad esempio nell’Eroica - si insinua
in me un concetto del musicalmente intelligente, e questo sia nel
procedimento in sé sia in una espressione. che ne deriva, cleverness,
vivacità, furbizia. P. es. le interpolazioni nella I parte dello sviluppo, la
cui cellula tematica appare dapprima a pag. 23 del primo tempo dell’Eroica.
Occorrerebbe approfondirlo. NB qualcosa di operistico, come spesso in Fidelio.
Intenzione di ciò che porta avanti. “Intelligenza”, come elemento soggettivo,
compare per superare l’oggettiva forza di gravità, la staticità della cosa
stessa. “Spirito”. Affinità con il principio del dilettevole, forse perfino del
galante.
176. Il contenuto della musica è
trasformato in categorie sintattiche. P. es. il momento drammatico
dell’Eroica - il tema con le semicrome che irrompe sull’accordo di settima
diminuita |I tempo bb. 65 sgg.| - un’interruzione del secondo episodio
dell’esposizione poi ripreso, una congiunzione di congiunzione, simile a una
secondaria, una proposizione concessiva. Tali mezzi sono decisivi per la
costruzione del nesso musicale.
198. Le ouvertures da concerto
rappresentano spesso un’ulteriore semplificazione rispetto allo stile
sinfonico. L’oggetto poetico non porta in Beethoven a una pittura
lussureggiante, bensì, proprio all’opposto, conduce a una riduttiva drasticità
a scapito dei caratteri di mediazione. Spoglia antiteticità: da nessuna parte
l’elemento classicistico è più forte che qui. L’ouverture del Coriolano,
anche quella dell’Egmont sono in Beethoven come movimenti sinfonici per
bambini. Un po’ così è Guglielmo Tell. Perciò emergono qui un effetto
convincente, ma anche certe debolezze di Beethoven, che egli altrove ha
grandiosamente dominato. Quindi, carattere decisivo di questi pezzi per il
momento critico nei confronti di Beethoven. Una certa rozzezza, incompiutezza
del dettaglio à la Haendel e quindi qualcosa di vuoto.
(Soprattutto l’ouverture dell’Egmont, nonostante l’impronta lucida,, o a causa
di essa, profondamente insoddisfacente). La forza convincente del sinfonico
assume qui qualcosa di brutale, tedesco, ostentato, perché in certo qual modo
le manca il materiale di cui potrebbe occuparsi. Si mostra l’intreccio del
lucido e pomposo, usurpatorio nell’Empire. Cfr. soprattutto la parte in
fa maggiore, 4/4, dell’ouverture Egmont |Allegro con brio; Eulenburg,
partiturina, pp. 34 sgg.| dove la semplificazione porta alla rozzezza da
fanfara. Ancora trionfo senza conflitto. Una coda di questo tipo presupporrebbe
uno sviluppo molto più dialettico - invece quello di questo pezzo è solo
accennato[20].
310. Ciò che è davvero
caratteristico in Schumann - e poi in Mahler e Alban Berg - è il
non-potersi-trattenere, il regalarsi via, il buttarsi via. Il principio
romantico significa qui abbandonare il carattere di possesso dell’esperienza,
addirittura l’Io. La nobiltà ha qui un contenuto non ideologico: il disgusto
per il carattere privativo del privato. Si sente per così dire lo sfruttamento
fin nel principium individuationis e ci si allontana. In Schumann la
coscienza è giunta molto vicino a questo. Così, sulle parole “anche se il mio
cuore dovesse spezzarsi, spezzati, o cuore, che importa”[21] (il
testo di Frauenliebe und -leben, che provocò lo scherno borghese, ha un
profondo significato. “Masochismo” non dice abbastanza. L’identificazione con
la donna mira a un comportamento che dichiara guerra al carattere di
appropriazione del patriarcale e del maschile, Hölderlin ha tratti simili.
Forse è proprio qui l’idea del Biedermeier). Oppure, espresso in modo immediato negli
scritti di Schumann: “La ricchezza della gioventù. Ciò che so lo getto
via; ciò che possiedo lo regalo. Florestano”. Questo motivo si trova però allo
stato più puro nella Fantasia in do maggiore, il cui ultimo tempo è del tutto
simile al lasciarsi-spingere-in-mare. Nella differenziazione di questo gesto
rispetto a quello wagneriano così simile, naufragare, affondare,
inconsapevolmente, suprema letizia[22] è
quasi racchiusa la verità filosofica. La differenza tra interiorizzazione ed
ebbrezza dei sensi è davvero troppo convenzionale per arrivarci. Schumann è
molto meglio che interiore. Il gesto è soltanto molto discreto: prendo congedo.
Non vorrei disturbare di più (borghese. Schumann è tanto migliore di Wagner
quanto è più borghese). La morte è il togliersi un peso (anche in Schubert),
l’abbandonare se stesso perché non si può sopportare l’ingiustizia della vita,
ma non l’identificarsi con l’ingiustizia della morte. Vi è piuttosto un momento
di fede, che però non ha nulla a che fare con la fede nel potere di ciò che
esiste - del destino - ma risiede nella teologia.
Proprio questo tratto segna un
limite di Beethoven o un momento in cui il romanticismo lo supera
effettivamente. L’opera rappresentata da Beethoven è quella che si trattiene.
Nella sua totalità vi è la positività del possesso, che supera la negatività di
tutti i singoli momenti. Il suo sigillo espressivo è l’ostinazione - cui però è
collegato l’umano. L’umano in Beethoven è connesso con la misura come
nel Goethe vecchio. “Potessi mai ricompensarti!”[23].
Schumann è privo di misura, se non può ricompensare dà se stesso. E però resta
di nuovo indietro rispetto a Beethoven perché per così dire si rende il mondo
troppo facile. Questa riflessione dialettica rappresenta il presupposto per
comprendere l’ultimo Beethoven.[24]
364. Oggi non c’è più
l’esperienza dell’addio: essa sta alla base dell’humanitas:
presenza del non presente. Humanitas come funzione di rapporti di
circolazione. E: esiste ancora speranza senza addio?[25]
2. Il teatro tedesco,
tra settecento e ottocento[26].
Il movimento dello Sturm und
Drang prende la sua denominazione non a caso da un’opera teatrale, il
dramma di Klinger, del 1777. Ma nel 1774
era uscito il romanzo di un giovane scrittore di Francoforte appena venticinquenne, che
avrebbe cambiato la scrittura romanzesca europea: I dolori del giovane
Werther. Johann Wolfgang Goethe, nel suo romanzo, vuole già rappresentare
il mondo, la totalità del mondo in cui si sente immerso, e parte da qui:
dall’analisi di un disagio, o, come scrisse, di una “malattia”. Il suo teatro
era ancora più innovativo. A parte l’abbozzo del Faust, una commedia
come Stella, del 1775, porta sulla scena l’inadeguatezza, o piuttosto la
labilità, fino alla crisi estrema del fallimento di qualunque rapporto d’amore,
fondato com’è sempre sulla sostanziale incomunicabilità degli uomini tra loro.
Il vincolo sociale appare allora, al giovane Goethe, edificato sulla
convenzione di una specie di patto di convivenza e di reciproca tollerabilità,
patto che viene messo in crisi ogni volta che uno dei soggetti venga invaso e
posseduto da qualche passione. Ovvio l’influsso di Rousseau, e più ancora di
Herder, ma la visione goethiana dei meccanismi sociali è assai più articolata e
meno manichea di quella del filosofo ginevrino. Tornando alla commedia, più che
conteso da Cecilia e da Stella, Fernando si riconosce incapace di scegliere tra
le due donne alle quali è appartenuto: è stato, infatti, prima l’amante di una,
Cecilia, e poi dell’altra, Stella. Il dovere sociale entra in conflitto con la
scelta individuale della felicità o, più prosaicamente, del proprio egoistico
piacere. L’indecisione, o piuttosto l’ incapacità di assumere un ruolo definito
nei confronti delle due donne, il che equivarrebbe a scegliere la convivenza
con una delle due e a escluderne l’altra, arriva al punto che Fernando pensa di
abbandonarle entrambe, perché si sente inadeguato ad affrontarle
simultaneamente, e a prendere una decisione che comporterebbe la felicità di
una a prezzo dell’infelicità dell’altra. Esse decideranno allora di restare
entrambe sue. Ma non è una conclusione. E’ la sospensione di una conclusione.
Il ménage à trois dispiacque
naturalmente alle autorità civili e religiose del tempo, la commedia venne
tolta dalle scene. Pubblicata nel 1776, dovette essere immaginata e scritta
l’anno prima, vale a dire un anno dopo il Werther.
Ma è il segno dell’alto grado di tensione della scena tedesca negli ultimi
decenni del secolo XVIII. Goethe, con finale cambiato, fa rappresentare Stella a Weimar nel 1806. Nel frattempo
c’era stato il viaggio in Italia e il vincolo d’amicizia e di collaborazione
con Schiller. Il nuovo finale è tragico. Fernando si tira un colpo di pistola
alla testa, come Werther, e Stella si avvelena. Cecilia, e sua figlia Lucia,
restano così un’altra volta sole. Il finale tragico rende palese ciò che il
finale lieto mascherava con l’allegoria dell’amore equamente diviso tra tutti e
tre. Di fatto nessun personaggio ama realmente chi crede di amare, ma ciascuno
ama un fantasma del proprio desiderio d’amore: tutti e tre colgono l’attimo di
un piacere intenso, lacerante, il cui ricordo è il “risarcimento” della reale
solitudine in cui vivono (lo dice Cecilia, parlando della Natura, ma
riferendosi di fatto al proprio sentimento d’estraneità al mondo). Ora,
quell’attimo intensissimo, fulminante, di piacere è lo stesso che, nelle Affinità Elettive, Edorado e Carlotta
afferrano l’uno nelle braccia dell’altra, immaginando però, e sentendo,
ciascuno, tra le braccia, non il corpo del consorte, bensì quello invano
desiderato dell’amato Capitano, da parte di Carlotta, e dell’amata Ottilia, da
parte di Edorado. Un amplesso tra marito e moglie diventa pertanto, nella
fantasia e nei sensi di chi lo compie, l’adulterio
fortemente desiderato da entrambi, ma respinto e rimosso per
il rispetto, non ipocrita, bensì sinceramente sentito da entrambi, delle regole
sociali. E se il maschio, Edoardo, presto soccombe all’impeto della passione,
la donna, Carlotta, resta salda nella difesa e protezione del vincolo
coniugale, soffrendo ancora più del marito, perché anche l’attrazione era da
lei sentita con maggiore violenza. In questo modo, i legami e le attrazioni
degli elementi naturali paiono a Goethe il sostrato dei legami e delle
attrazioni che sconvolgono la vita emotiva degli uomini, i meccanismi della
chimica si fanno specchio dei meccanismi delle passioni. Sembrerebbe dunque
possibile controllarli, regolarli. Ma è un non fare i conti con
l’imprevedibilità dei casi. Il figlio di Edoardo e Carlotta, nato con gli occhi
del Capitano e il viso di Ottilia - tanto il pensiero di una passione può
influire sul seme e sull’ovulo di due coniugi, da fargli commettere adulterio
nell’atto stesso con cui assolvono al loro dovere coniugale - il figlio che
testimoniava l’illiceità di quell’atto, muore annegato nel lago, cadendo in
acqua proprio dalle braccia di Ottilia.
L’irrequietezza, la
spregiudicatezza della rappresentazione teatrale e romanzesca nella Germania
preromantica è dì un livello d’incandescenza inimmaginabile altrove: eppure le
sue radici sono francesi. E del resto, quanto a spregiudicatezza, il romanzo
francese non è da meno. Due sono in Germania i centri teatrali principali, e in
tutt’e due le città a capo del teatro c’è una figura tra le più rappresentative
della cultura, della poesia, del romanzo e del teatro tedesco: Lessing ad
Amburgo (dal 1767 al 1769) e Goethe a Weimar (dal 1791 al 1817). La loro
funzione è quella di Dramaturg, una
figura ignota in Italia e in Francia. Il loro compito non è solo scrivere testi
per la scena, ma scegliere anche nuovi testi, curarne l’allestimento, scegliere
e preparare gli attori, dirigerne la recitazione[27]. Una
sintesi dunque di funzioni negli altri paesi separate: scrittore,
amministratore, regista, scenografo, attore (Goethe prendeva parte ai suoi
spettacoli, ammiratissimo, anche come attore: recitò per esempio la parte di
Oreste, a Eltersburg, il 6 aprile 1779, nella prima versione, in prosa, dell’Ifigenia in Tauride): personaggi come
Wagner, Piscator, Reinhardt, lo stesso Brecht, non si capiscono bene se non si
comprende anche il molteplice ruolo di Dramaturg
che rivestivano in tutti i teatri dove operavano. Tanto Lessing che Goethe,
inoltre, guardano come a un modello, sentito attualissimo, al teatro di
Shakespeare. Wilhelm Meister, il protagonista del romanzo omonimo, è, oltre che
un giovane di cui il romanzo racconta la formazione, come dice Goethe,
l’“apprendistato”, è prima di tutto un uomo appassionato di teatro e
l’apprendistato al quale deve sottomettersi è appunto un apprendistato
teatrale, in cui riconosce via un apprendistato della vita, la sua formazione
teatrale viene perciò a coincidere con la sua formazione esistenziale, la sua
educazione alla vita[28].
Ebbene, proprio nelle pagine del Meister
leggiamo la prima, e più profonda, interpretazione moderna del personaggio di
Amleto.
Ma non sta tanto nella cura messa
nell’allestire gli spettacoli la novità dell’agire di Lessing e di Goethe,
quanto piuttosto nell’innalzamento dello spettacolo a dignità culturale. La
rivoluzione di Lessing, continuata da Goethe, sta infatti nell’attribuire alla
rappresentazione teatrale la stessa importanza culturale ed estetica della
pagina stampata. Anzi, il salto di pensiero compiuto da entrambi è proprio nel
considerare teatro la rappresentazione, non il testo. Certo che il testo è
anche letteratura, anche poesia. Ma la sua vera realizzazione,
l’estrinsecazione più efficace della sua sostanza letteraria e poetica si ha
sulle scene. Sono già qui le radici del pensiero teatrale di Wagner. Ma, prima
di Wagner, anche di Beethoven. E’ il
nodo di questa ricerca: leggere il Fidelio
come grande opera di teatro. Contrariamente alle critiche mosse da più parti
alla sua struttura drammatica, il Fidelio,
e si cercherà di dimostrarlo, s’inserisce assai bene in questa stagione tedesca
di sperimentalismo teatrale e anzi, ne è un anello indispensabile, come già
scriveva anni fa Fedele d’Amico[29] Ma
tutta l’Europa era in fermento, anche l’Italia, altrimenti non si spiegherebbe
un fenomeno come Rossini. In Inghilterra poi il teatro stava compiendo una
evoluzione ancora più radicale, ma simile a quella tedesca. Del resto gli
spettacoli di attori inglesi in Germania erano comunissimi. L’attore, a
differenza dell’Italia, dov’è pur sempre poco più di un guitto (il che non
esclude, anzi quasi le reclama, singole figure significative già nel primo
settecento, come, per esempio, l’attore Lelio,
vale a dire Luigi Riccoboni, che emigrato in Francia diventa il portavoce di
Marivaux), l’attore, dunque, in Germania, in Francia, acquista prestigio
culturale, è anche un intellettuale, è ammirato oltre che per la sua bravura
anche per la sua cultura (già durante settecento: la grande attrice Adriana
Lécouvreur, colei che ha inventato la recitazione moderna parlata, invece che
declamata, era amica di intellettuali e di uomini di potere, amica, tra gli
altri, di Voltaire, e veniva favorevolmente accolta dai migliori salotti di
Parigi; proprio la sua frequentazione dei philosophes,
assai più del fatto che fosse un’attrice, le meritò l’avversione della Chiesa,
che volle il suo cadavere sepolto fuori della terra consacrata di un cimitero,
condanna che indignò Voltaire). In Inghilterra, ancora oggi, il Re può
innalzare un attore, proprio per i suoi meriti teatrali, al rango
dell’aristocrazia conferendogli un titolo nobiliare. Si va a teatro, insomma,
con la stessa disposizione d’animo con cui si legge un libro, si ammira il
capolavoro di un grande pittore, si ascolta la musica di un grande compositore.
Haydn ebbe a Vienna, nel 1809, funerali degni di un capo di Stato: fu lo stesso
Napoleone a ordinare che fossero i più solenni e degni del grande uomo che
scompariva con lui. Ma già due decenni prima, a Londra, Haydn aveva avuto
accoglienze trionfali, e n’era stato commosso, a vedersi onorato con gli onori
che si danno a un generale d’armata, a un uomo di stato. Si pensi invece al
nostro povero Cimarosa, costretto a lasciare Napoli e a rifugiarsi in varie
città, perché colpevole di avere ammirato Napoleone. Alla fine, malato e senza
soldi, muore solo come un cane a Venezia: eppure era stato l’unico compositore
italiano a capire la novità e la grandezza di Mozart. Ma la classe dirigente
italiana, da sempre classe di un paese dalle abitudini servili, non ha mai
perdonato la libertà d’opinione né sopportato che qualcuno tra i suoi
amministrati osasse pensare con la propria testa.
La ferita che Goethe incide sulla pagina, o
infligge sulla scena, è’ la ferita, ancora aperta, inflitta al lettore del suo
romanzo dal suicidio di Werther. Ci fu subito un equivoco. Goethe aveva steso
l’analisi di una malattia: ma il malato venne, impropriamente, scambiato per un
eroe. Il punto, dunque, che forse Goethe aveva sottovalutato, non come
scrittore, bensì come scrittore che si rivolge a un pubblico di lettori, dei
quali i più giovani erano malati proprio della stessa malattia di Werther,
stava forse nel fatto che quella malattia aveva un fondamento reale nel disagio
intellettuale, politico, sociale di chi guardasse senza illusioni al caos di
quegli anni (e il caos rivoluzionario era ancora là da venire: ma Goethe e i
suoi amici, come vedremo, lo avevano colto in anticipo, e in ogni caso
l’ingiustizia sociale feriva gli animi più sensibili e le menti più pensanti).
La commedia Stella, riscritta più
tardi come tragedia, cerca pertanto una conciliazione utopica, o piuttosto una
fuga fantastica, fiabesca, nell’irreale mondo dei desideri appagati, proprio il
mondo che Goethe sa irrealizzabile, riconoscendo nella nostra società il mondo
dell’inconciliabile (nel Fidelio si
riconosce la stessa dialettica!). “Noi siamo tue”, dice Cecilia a Fernando, e
si riferisce a se stessa e a Stella, le due donne tra cui l’uomo non sa
scegliere. L’inadeguatezza sta in questa indecisione: davanti alla vita,
davanti all’obbligo di una scelta, l’uomo, e dovremmo dire il maschio, sceglie la fuga. La vera scelta
perciò la compiono le donne, come avverrà più tardi nella più matura Ifigenia
in Tauride (stesura definitiva, in versi, nel 1787, dopo una prima
rielaborazione nel 1780, e un’altra, di nuovo in prosa, nel 1781). Anche in Fidelio,
guarda caso, a sciogliere il nodo drammatico è una donna. Beethoven era un
ammiratore incondizionato e un lettore accanito di Goethe, sicuramente
conosceva l’Ifigenia e molto probabilmente anche Stella[30].
Ma il finale conciliante, con la proposta, non solo allora, e non solo per i
benpensanti, scandalosa, di un tranquillo e sereno ménage à trois (lo
scandalo stava, e sta, forse, più nel fatto che lo si propone tranquillo e
sereno che nel fatto di accettare un rapporto amoroso tra due donne e un uomo)
dispiacque, come s’è detto, alle autorità religiose e civili di Weimar e Goethe
fu costretto a sostituire la soluzione lieta con una soluzione tragica del
conflitto (vale a dire a lasciare il conflitto insoluto, e ideologicamente
insolubile: ideologicamente, perché ne veniva esclusa l’unica soluzione reale),
col suicidio dell’uomo e dell’amante: dove il lato più tragico non è la morte
dei due amanti, ma la solitudine della moglie, Cecilia, inutilmente
conciliante. Ma cerchiamo di mettere un po’ d’ordine e di configurare i confini
del rinnovamento teatrale tedesco.
Prima di tutto alcune date.
1764, Minna von Barnhelm
di G.E. Lessing;
1772, Emilia Galotti di G.
E. Lessing;
1773, Götz von Berlichingen di J. W. Goethe
1774, oltre a pubblicare Die
Leiden des jüngen Werther[31],
e a cominciare la prima stesura del Faust (il cosiddetto Urfaust),
Goethe scrive Clavigo, una cupa storia d’intrigo amoroso tratta dalla
vita del Beaumarchais, l’autore delle tre famosissime commedie che ruotano
intorno al personaggio di Figaro: Il barbiere di Siviglia, Le nozze
di Figaro e La madre colpevole;
1775, Stella
di J. W. Goethe (prima versione, col finale lieto);
1776, Die Soldaten[34]
di J. M. R. Lenz;
Die
Zwillinge[35] di
F. M. Klinger;
Julius
von Tarent[36] di
J. A. Leisewitz;
1777, Sturm
und Drang di F. M. Klinger;
1779, Nathan der Weise di G. E. Lessing;
Iphigenie
auf Tauris[37] di J. W. Goethe (prima
versione, in prosa);
1781, Die Räuber[38]
di J. C. F. Schiller.
Si disegna un
percorso intricato e complesso: dalla distanza quasi sapienziale, profondamente
ironica e tuttavia eversiva, di Lessing, al furore giovanile di Schiller, coevo
del raggiunto equilibrio classico di Goethe. Tuttavia un grande teatro, proprio
perché irruente, contraddittorio, lancinante, vertiginosamente utopistico e
ciononostante profondamente radicato nella realtà del proprio tempo, il teatro
tedesco del tardo settecento anticipa tutte le contraddizioni del successivo
teatro europeo. Inutile dire che, a parte la luminosa figura di Lessing, i
drammi più significativi appaiono oggi quelli di Goethe e di Schiller. L’idea
che si vorrebbe qui suggerire è che il Fidelio di Beethoven, opera di
grandissimo teatro, s’inserisce in questo filone, ma contemporaneamente, anche,
con un occhio più che spalancato sul teatro rivoluzionario francese. L’occhio
alla Francia, del resto, non lo chiudono nemmeno gli Stürmer. Goethe
meno che mai. Per comprendere questa relazione, bisognerà fare lo sforzo,
difficile soprattutto per un italiano, di non considerare il teatro musicale un
settore separato del teatro. Esso anzi, almeno in Germania, ma anche in
Francia, è immerso nel clima di un’epoca che mescola tutte le carte teatrali:
per il Goethe del Wilhelm Meister sono teatro anche i funambolismi e le
acrobazie dei saltimbanchi (sarebbe dovuto arrivare il secolo xx, e Picasso!,
perché si comprendesse la profonda verità dell’intuizione goethiana). Ma non a
caso, più tardi, nel 1819, Giovanni Berchet, sul “Conciliatore”, introdurrà, in
un dialogo sul teatro “romantico”, il coreografo Salvatore Viganò a difendere
la legittimità teatrale del balletto: e si trattava di una ripresa milanese
delle Creature di Prometeo di Beethoven!
3. Il
teatro francese tra settecento e ottocento.
Il teatro
francese del declinante sec. XVIII e dei primi decenni del secolo successivo
non conta tra i suoi testi capolavori paragonabili a quelli del coevo teatro
tedesco, di cui pure in qualche modo è il modello, e tuttavia è proprio il
teatro francese a porsi come esemplare punto di riferimento del teatro europeo,
in particolare il teatro musicale, che venne ad assumere quasi un ruolo di
guida per qualsiasi genere di teatro. In particolare l’opéra-comique[39], che
finì col porsi come il tipo ideale di teatro rivoluzionario e borghese, il che
non sarà di poco peso per la successiva evoluzione del genere, fino alla Carmen
compresa. Un semplice elenco può illustrarne l’incidenza, la frequenza e
l’importanza.
L’avventura
della Tragédie può dirsi conclusa con l’Iphigénie en Tauride di Gluck nel
1779, anche se due anni dopo Piccinni, sempre a Parigi, fa rappresentare a sua
volta una sua versione musicale, su diverso libretto, della stessa tragedia che
Guimond La Touche aveva mandato in scena nel 1757 al Théâtre-Français, traendone
l’argomento dalla quasi omonima tragedia di Euripide[40]. La
tragedia di Guimond La Touche riscosse un notevole successo e restò in
repertorio fino al 1831. Quanto al rinvio della prima dell’opera di Piccinni,
esso è dovuto alle pressioni dello stesso Gluck, che fece prevalere, a ragione,
il proprio diritto di precedenza, dato che l’opera gli era stata commissionata
prima che a Piccinni. La scena tragica, in musica, percorrerà, però, dopo
Gluck, ma anche dopo Piccinni, dopo Salieri, Traetta, Jommelli, e perfino dopo
Cimarosa, altre strade. Già in qualche modo prefigurate dalla Clemenza di Tito mozartiana. Vale a
dire, attuando l’innesto delle forme dell’opera buffa nel corpo del melodramma
tragico. Il processo può darsi definitivamente attuato con Rossini. Ma, anche
in questo, il teatro musicale tedesco percorre una sua strada singolare,
parallelo a quello dell’opera italiana, della quale, comunque, pur tenendosi a
distanza, non rifiuta a priori modelli e strutture, ma avvertendo, come sempre,
fin da Telemann e Bach, una maggiore affinità e sentendosi più in sintonia con
la musica e con il teatro francese.
Prima della
vampata rivoluzionaria, che sconvolge tanto la scena musicale che quella
teatrale, il teatro “parlato” francese offre, però, la rappresentazione di due
testi, che presto intrattengono un rapporto strettissimo con il teatro
musicale. Si tratta di due commedie, d’intrigo e d’impianto abbastanza
tradizionali, ma di contenuto ideologico esplosivo (all’epoca parve anzi
eversivo), entrambe dovute alla penna di un fortunato avventuriero:
Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais (Parigi, 1732-1799). Il barbiere di
Siviglia, 1775[41] (nella
ripresa del 1785 il ruolo di Rosina è recitato dalla regina Maria Antonietta),
e Le nozze di Figaro, 1784, 27 aprile, un trionfo[42].
Paisiello compone il suo Barbiere nel 1782, sette anni dopo la prima
parigina della commedia, e Mozart le sue Nozze nel 1786, appena l’anno
dopo la rappresentazione parigina, e la pubblicazione del testo. Segno d’un
clima intellettuale ed emotivo che si respirava nell’aria: l’opera di Paisiello
venne scritta per il teatro di Pietroburgo. La grande Caterina, del resto, non
nascondeva le sue simpatie per Voltaire e per i philosophes. Il
dibattito teatrale trovava dunque immediato riscontro anche sulla scena del
melodramma. E sarà così fino a Ottocento inoltrato; dopo Wagner, anzi, è la
scena musicale a offrirsi come modello del teatro parlato, anzi del teatro tout court. Ebbene, tale
identificazione, tra teatro musicale e teatro parlato, trova una sua prima
affermazione proprio nel teatro francese degli anni rivoluzionari. E ne è
genere conduttore l’opéra-comique, in
cui parola recitata e parola cantata si pongono come forme complementari della
strutturazione drammatica. Proprio per influsso dell’opéra-comique, già prima della rivoluzione, il Singspiel tedesco subisce una radicale trasformazione per opera di
Mozart: in tal senso Il ratto dal
serraglio è una pietra miliare del teatro tedesco, senza la quale non ci
sarebbero né Il flauto magico, dello
stesso Mozart, né il Fidelio, né Il franco cacciatore, né perfino Wagner[43].
Ma sono altri, e
d’altro genere, i titoli che determineranno un cambiamento di repertorio e di
gusto, nel teatro musicale francese, durante la rivoluzione. Titoli che al
pubblico di oggi dicono forse poco, tranne qualcuno, ma che invece attuarono un
vero e proprio ribaltamento del gusto in tutta Europa, Italia compresa.
Eccone un
sommario elenco cronologico, comprese le musiche di circostanza, che tanto peso
avranno per la formazione di certi stilemi di marcia beethoveniani, ma anche
per le numerose marce che animano il teatro rossiniano.
1790 François-Joseph Gossec, Te
Deum. Rielaborazione di una partitura del 1779, composta per i
Concerts Spirituels di Parigi, interamente trasformata per la Fête de la
Fédération al Champ de Mars in occasione del centenario della presa della
Bastiglia. E’ il primo esempio di musica celebrativa, solenne, grandiosa e
fastosa: oltre mille uomini nel coro, una grande orchestra di fiati, bande de tambours e pièce d’artillerie. C’è già il modello del beethoveniano Wellingtons Sieg, oder die Schlacht bei
Vittoria (La vittoria di Wellington, o la battaglia di Vittoria),
1791
Luigi
Cherubini, Lodoïska. Reca il
sottotitolo di comédie-héroïque. La
partitura fu a lungo, per Beethoven, un livre
de chévet.
1792
Claude-Joseph Rouget de l’Isle, La
Marseillaise.
Ignaz Pleyel, La Révolution du 10 Août 1792, ou le Tocsin
allégorique. Immenso l’apparato strumentale. Coro a 4 voci,
orchestra, trombe, tamburi e pifferi, 7 campane e cannoni. Citati e
contrapposti, una melodia di Grétry (“Ô Richard, ô mon roi”), come canto dei realisti, e il canto rivoluzionario “ça
ira”.
François-Joseph
Gossec, Marche lugubre. Modello
per Cherubini e Beethoven.
Jean-François Lesueur, La caverne ou le repentir. Drame-lyrique in tre atti. Tipica opera rivolzionaria “à sauvetage”.
1793
Etienne-Nicolas Méhul, Chant du
départ.
André-Ernest-Modeste Grétry, La rosière républicaine ou La fête de la vertue. Opéra-comique. Si
conclude con il ballo della Carmagnole
1797 Etienne-Nicolas Méhul, La
chasse du jeune Henri. Brano descrittivo, nato come ouverture a
un’opera perduta, su libretto di Bouilly. Alla base di composizioni simili
(comprese le tre ouvertures beethoveniane intitolate Leonore) e del futuro poema sinfonico.
Luigi Cherubini, Médée.
1799
Etienne-Nicolas Méhul, Ariodant. Opéra-comique dedicata a Cherubini. La musica è
sviluppata da un motivo base., indicato dal compositore come “cri de fureur”,
grido di furore. L’interesse del procedimento sta nel fatto che la drammaturgia
viene costruita con una logica sinfonica. Non si tratta tanto di subordinare
l’azione allo sviluppo tematico, quanto di strutturare tematicamente il
procedere dell’azione. Beethoven ne tiene il dovuto conto. Ma sono anche
gettate le premesse di uno sviluppo che da una parte conduce a Rossini e,
trascurando Bellini e Donizetti, da questo punto di vista irrilevanti, a Verdi,
dall’altra a Wagner.
1800
Luigi
Cherubini. Les deux journées, ou Le
porteur d’eau. E’ il modello immediato del Fidelio, quanto al rapporto tra drammaturgia e strutturazione
musicale. Beethoven ha comunque già composto la sua prima Sinfonia e sta lavorando al balletto Die Geschöpfe des Prometheus (le creature di Prometeo) op. 43, la
cui contraddanza finale (in realtà una danza composta in precedenza) offrirà il
tema alle Variazioni op. 35 per
pianoforte e al Finale dell’Eroica.
François Adrien Boieldieu, Le califfe de Bagdad. Opera in un atto, dalle Mille e una notte.
1804
Jean-François
Lesueur, Ossian, ou Les bardes. Opera
in 5 atti.
1807
Gaspare
Spontini, La Vestale. Tragédie-Lyrique
in tre atti che prelude ormai al futuro grand-opéra.[44]
Ma lo spettacolo, durante la
rivoluzione, non era solo quello che si andava a vedere nei teatri. Erano
spettacolo le rivolte, le parate militari, l’esecuzione delle pene capitali.
Anzi, proprio dalla spettacolarizzazione dei suoi momenti decisivi la
rivoluzione traeva l’efficacia di una propaganda politica accattivante. Non
solo ogni rappresentazione era sottoposta a un rigido controllo di censura, ancora
più che nell’ancien régime. Ma i discorsi stessi degli oratori all’assemblea
erano teatro. Era teatro la pittura. Ogni momento della vita pubblica era
regolato da specifiche regole di scenografia e coreografia. In fondo la
vocazione totalizzante e totalitaria è tipica di qualsiasi rivoluzione. Non è
da ciò che si misura la reale incidenza di trasformazione di una rivoluzione, o
in senso autoritario o in senso democratico. E’ indubbio che il bonapartismo
fosse una sorta d’imposizione autoritaria degl’ideali rivoluzionari di libertà,
uguaglianza e fraternità. E Beethoven se ne accorge subito, non tanto e non
solo, durante la composizione dell’Eroica,
ma anche dopo, a catastrofe avvenuta e Congresso di Vienna in atto, quando
innalza un inno alla libertà celebrando l’eroismo di una donna che muore
combattendo Napoleone, Leonore Prohaska.
“Wir kampfen für Freiheit”, gridano i soldati che vanno a morire sul campo di
battaglia, sterminati da Napoleone. Non si dimentichi che dei 600.000 uomini
della campagna di Russia ne tornarono indietro solo 40.000. Beethoven visse la
propria condizione di testimone, ma anche di vittima, di quella meteora, con
animo lacerato. La sua sordità divenne definitiva e irreversibile proprio
durante i bombardamenti di Vienna. E’ in questo clima storico che nasce la sua
musica, la testimonianza forse più alta cui mai una artista, Dante compreso,
abbia dato forma delle irrisolvibili contraddizioni del proprio tempo: perciò
in Beethoven è tragica anche la gioia, o comunque frenetica, dionisiaca, perché
non è una gioia reale, ma la speranza di una gioia, vale a dire la speranza
della libertà di tutti gli uomini:
Seid
umschlungen, Millionen!
Diesen Kuss der ganzen Welt![45]
Beethoven non
rinnegò mai gli ideali repubblicani e giacobini della rivoluzione. Il che non
gl’impediva di stringere amicizia con gli esponenti più in vista e più
influenti dell’aristocrazia viennese, e dell’aristocrazia russa e ungherese
residente a Vienna. Ma ora quella stessa rivoluzione che proclamava ai quattro
venti la libertà dei popoli invadeva con gli eserciti le terre di quei popoli e
li assoggettava. In tal senso l’atteggiamento di Beethoven sugli eventi
rivoluzionari e la sua riflessione sulla storia non sono molto diversi da
quelli manifestati da Büchner nel Dantons
Tod (la morte di Danton). O, un secolo dopo, da Majakovskij, Esenin, Blok
sulla rivoluzione d’ottobre. E’ in questo contesto convulso, tragico, di stragi
spaventose e di ancora più spaventose repressioni, che va immersa tutta
l’attività di Beethoven, compositore attento quanto altri mai ai venti del
proprio tempo. E i venti del suo erano tra i più tempestosi mai registrati
dalla storia d’Europa. Se non ci si immerge, anche con l’animo, e non solo con
l’erudizione, in questo clima d’incandescenti passioni, di furori, di speranze
frustrate, non si capisce nemmeno quanto c’è di più profondo nel furore, ma
anche nella dolcezza, della musica di Beethoven. Non si comprende, soprattutto,
la ferita dolorosa che le guerre napoleoniche infliggono alla sua fede repubblicana.
Napoleone era il suo eroe, l’uomo ideale, e gli si rivela, invece, come ebbe a
dire, “un uomo come tutti gli altri”. Beethoven è l’artista dell’umanità
affratellata, ma è anche, forse soprattutto, un tedesco, fiero della propria
tradizione musicale, e culturale, un tedesco erede di Lessing. L’idea che
Beethoven ha della fratellanza umana non è quella di una generica
universalizzazione o, come oggi si direbbe, di una globalizzazione che
appiattisca tutti gli uomini in un generico esemplare di uomo. Beethoven crede
che la fratellanza non schiacci l’individualità, ma la esalti. Il coro dei
prigionieri, nel Fidelio, non è un
coro amorfo di carcerati, ma un coro di singoli che subiscono ciascuno un
diverso grado d’ingiustizia, e tutti la ingiustizia massima di essere privati
della libertà. Perciò dalle voci del coro se ne distaccano due: una, di tenore,
che si apre alla speranza di essere presto liberato:
Wir wollen
mit Vertrauen
Auf Gottes
Hilfe bauen!
Die Hoffnung flüstert sanft mir zu:
Wir
werden frei, wir finden Ruh’.[46]
L’altra, di basso, dice:
Sprecht
leise! Haltet euch zurück!
Wir
sind belauscht mit Ohr und Blick![47]
Alla speranza,
per lui illusoria, del primo prigioniero, costui contrappone la paura del
suddito di una tirannide, la fragilità di colui che è stato seviziato, il
terrore del perseguitato, la frustrazione di chi ha avuto i nervi spezzati, il
panico e l’accondiscendenza della vittima. E’ un momento terribile: Beethoven
sembra anticipare la situazione di un Lager. Ritorneremo su questo punto.
L’episodio che dà lo spunto a Bouilly,
per scrivere la sua Leonore, fonte
del Fidelio, avvenne sotto il
Terrore. Recentemente, in occasione della rappresentazione di un Fidelio alla
Scala, i pennitenguli da sempre ossequienti al potere di turno scrissero che
Beethoven non inneggiava agli ideali rivoluzionari, ma anzi li deprecava,
perché il carcere portato sulla scena era un carcere della rivoluzione. E’ una
lettura deformante, non solo di Beethoven, ma anche del libretto di Bouilly per
Gaveaux. Che un giudice della Repubblica, infatti, com’era Bouilly, denunci i
soprusi di un governatore, sta se mai a indicare proprio la fedeltà di Bouilly
a quegli ideali. Fu lui stesso ad aiutare la donna, che poi chiamò Leonore, a
liberare il marito ingiustamente carcerato. Naturale che in una rivoluzione si
compiano dei soprusi, ma è tipico di una vera rivoluzione denunciarli. In ogni
caso il discorso sul Terrore è un discorso assai complesso che non può essere
liquidato con qualche trucco ideologico, né da una parte né dall’altra. Né per
deprecarlo né per giustificarlo. Torneremo anche su questo punto. Ma per
Beethoven la questione era un’altra. Egli guardava alla rivoluzione dal di
fuori, un po’ come Herder e come Kant.
Un poeta
italiano, Carlo Porta, espresse, nei confronti della rivoluzione, sentimenti
simili, mettendoli in bocca a un popolano milanese che vedeva scappare via i
francesi, sapendo che però sarebbero arrivati, a sostituirli, gli austriaci:
Paracar che
scappee de Lombardia
Se ve dan quaj moment de vardà
indree
Dee
on’oggiada e fee a ment con che alegria
Se festeggia
sto voster sant Michee.
E sì che
tutt el mond sa che vee via
Per lassà el
post a di olter forastee
Che per
quant fussen pien de cortesia
Voraran anca
lor robba e danee.
Ma n’avii
faa mò tant violter balloss
Col ladrann
e coppann gent sora gent,
Col pelann,
tribolann, cagann adoss,
Che infin
n’avii redutt al punt putanna
De podè
nanca vess indiferent
Sulla scerna
del boja che ne scanna[48].
I pensieri dei
soldati della Leonore Prohaska non
devono essere molto diversi. “Combattiamo per la libertà”, come a dire: meglio
morti che schiavi vostri. E’ uno dei canti più commoventi di Beethoven: a
cappella, senza strumenti, e solo voci maschili, un unico ritmo da cima a fondo,
con la consapevolezza che la morte è preferibile alla mancanza di libertà.
Potrebbe essere il canto di un dramma di Brecht: ma la bellezza di Beethoven, è
che il canto è cantato senza livore, e non solo per se stessi. Una bellezza la
cui realtà era completamente ignota a Brecht. Si annota, per osservare e far
riflettere sul fatto che il teatro di Beethoven (e dunque non solo il Fidelio,
ma tutta la musica composta per la scena, in particolare quelle per l’Egmont
goethiano e queste, appena ricordate, per il dramma Leonore Prohaska)
nasce sempre come palcoscenico per un confronto di idee, e in ciò Beethoven non
appare affatto come una figura isolata, ma s’inserisce nello sviluppo del
teatro tedesco dall’illuminismo al romanticismo e ne condivide gli orientamenti,
vi partecipa con animo acceso. Non sarà mai abbastanza sottolineata la
preminenza che ha nel teatro tedesco, anche oggi, l’idea del dramma, da non
confondersi tuttavia con una manifesta perorazione ideologica, che sarà invece
più facile riscontrare, se mai, nel teatro francese e ancora più in quello
italiano, proprio perché più che teatro di idee il teatro francese e italiano
si pongono e vogliono offrirsi al pubblico come teatro di passioni. L’idea
individuata dal dramma tedesco agisce e viene discussa dai personaggi come
problema, non già come perentoria affermazione di un principio. Esemplare in
ciò il Tasso goethiano (tragedia bellissima, che si amerebbe vedere
rappresentata più spesso in Italia). Il dissidio che lacera il Tasso, tra
passione (al limite della follia - platonicamente la matrice d’ogni più alta
poesia, ma anche della filosofia) e intelletto, vale a dire riconoscimento
della necessità delle convenzioni sociali e dunque cedimento all’ordine, alla
regola della vita collettiva, rinunciando al disordine, alla libertà
dell’impulso vitalistico soggettivo, trova un’estrinsecazione teatrale nella
figura di un personaggio contrapposto, Antonio Montecatino, tutto teso al
controllo razionale delle proprie passioni e dunque predisposto ad accettare le
regole della convivenza civile. Ma ciò non significa che Antonio sia un
personaggio privo di passioni: le controlla, il che è tutt’altra cosa. Così
come il Tasso non è affatto un individuo che si abbandona sconsideratamente
alle proprie passioni, ne è invaso, posseduto, spesso sopraffatto, ma non
ignora la necessità di un distacco, di una calma, l’opportunità di regolarle,
controllarle. L’ordine invocato, però, la regola riconosciuta indispensabile
per una vita tranquilla, gli appaiono come il mondo di un sogno, l’utopia di
un’umanità ideale, ma inesistente. E’ di nuovo il conflitto di Werther. Non
tanto tra passione e ragione, quanto tra individuo e collettività, e, più
profondamente, tra vitalità animale e linguaggio. Il tragico sta proprio in
questo, nell’insanabilità del conflitto. L’esito non può essere che la
sconfitta di chi lo subisce: il suicidio di Werther, la follia del Tasso.
Antonio guarda precipitare l’amico nella pazzia e se ne commuove, ma sa anche
che una simile commozione è impotente, sterile come qualsiasi pietà: consola e
gratifica chi la prova, non salva chi ne è l’infelice oggetto. Felicità e
infelicità non sono merce di scambio, sono una condizione del vivere. Il
mutamento è possibile solo attraverso un atto estremo della volontà: il
suicidio (Werther), la rinuncia (Faust), la solitudine (Tasso). I personaggi
beethoveniani sono più compatti, ma non ignorano il conflitto, e in ogni caso
c’è sempre conflitto tra essi. Anche l’eroica, granitica Leonore ha un momento
di sconforto, in cui crede perduta ogni speranza: quella che nella grande aria
del primo atto le sembra così lontana. Ed è quando scesa nelle segrete del
carcere, colta dall’orrore delle condizioni in cui è tenuto il prigioniero a
lei ancora sconosciuto, con un atto deciso della volontà, prende una decisione
estrema: “Chiunque tu sia, voglio salvarti”. L’insopportabilità
dell’ingiustizia la conduce a riconoscerla in chiunque la subisca, non conta
più l’individualità di chi la subisce, ma il fatto che qualcuno la subisca, e allora
chiunque di coloro che la subiscono deve essere salvato. Il dovere di salvare
l’inerme, l’oppresso, non nasce più dall’amore per il marito, ma dalla
comprensione del male che viene attuato, e allora l’amore che spinge a spezzare
le catene dell’ingiustizia non è più l’amore egoistico per la persona amata, ma
l’amore per tutta l’umanità. In altre parole il male inflitto al singolo si
rivela come male inflitto ad altri singoli, e dunque la liberazione di uno solo
non basta ad annientarlo: le catene che vanno spezzate sono le catene di
chiunque sia incatenato.
Nein, nicht länger knieet sklavisch nieder,
(Die
Gefangenen stehen auf.)
Tyrannenstrenge
sei mir fern.
Es
sucht der Bruder seine Brüder,
Und
kann er helfen, hilft er gern[49].
Il principio
morale che deve guidare il comportamento di ciascuno non è gridato, ma
semplicemente esposto, come una verità ovvia. Il ministro non dice che l’uomo deve aiutare l’altro uomo, ma che se può
aiuta, come non potesse fare altrimenti, una sorta d’istinto o, piuttosto, una natura, come si mangia, si dorme, si
vive. Non è eccezionale la solidarietà, l’amore, eccezionale è il crimine. O
almeno è questo il sogno, la speranza di Beethoven. La sublime tensione di
questo momento del Fidelio sta tutta
qui: nella naturalezza con cui viene detta la cosa più grande, nella semplicità
con cui si afferma la vera sostanza dell’uomo, si chiarisce, cioè, che cosa sia
essere un uomo.
Wer du auch seist, ich will dich retten,
Bei
Gott, du sollst kein Opfer sein[50].
Ebbene,
tutto ciò è profondamente intriso dallo spirito non solo dell’illuminismo
tedesco (il Faust nasce
dall’indignazione di Goethe per le condanne delle ragazze madri e dalla pietà
della loro sorte), ma anche, e soprattutto, della Rivoluzione e del teatro
della Rivoluzione, erede in questo di certo patetismo del teatro precedente,
confluito perfino nell’opera italiana (La
Cecchina, ossia La buona figliola, Goldoni-Piccinni,1760; La Nina pazza per amore, Paisiello,
1789).
Ma la realtà, più che patetica (Beethoven segue la corrente, quando non protesta per il
titolo dell’op. 13, e siamo nel 1797), era tremenda.
“Nel
dicembre 1789, Verminac de Saint-Maur manifesta la propria ostilità alla
proposta appena avanzata nell’Assemblea Nazionale dal deputato J. I. Guillotin,
mirante a far compiere le esecuzioni dei condannati a morte per mezzo d’un
‘semplice meccanismo’, l’ipotesi poteva anche essere fi-losofica e umanitaria,
ma la macchina in sé avrebbe potuto rivelarsi troppo spettacolare, e suscitare
i peggiori istinti del popolo: ‘La novità di questa macchina, il fascino del
suo funzionamento non mancheranno di attirare in piazza l’orribile curiosità
della gente; distraendosi dalla lezione sanguinosa che gli si vorrebbe
impartire, il popolo finirebbe col battere le mani al verificarsi d’un vero e
proprio colpo di scena; che dico? Si spingerebbe forse sino al punto di
mancanza di senso morale da desiderare la massima frequenza di queste terribili
rappresentazioni’. Una simile intuizione risulta confermata, quattro anni più
tardi, da Camille Desmoulins in persona, nel numero IV del Vecchio Cordigliere: ‘A fianco della ghigliottina sotto la quale
cadevano le teste coronate, sulla stessa piazza e nello stesso tempo, veniva
ghigliottinato anche Pulcinella, e il fatto suscitava lo stesso interesse. Non
era l’amore della Repubblica ad attirare ogni giorno tanta folla sulla piazza
della Rivoluzione, ma la curiosità per l’allestimento di quel nuovo tipo di
dramma, che non poteva avere che una sola rappresentazione. Sono sicuro che la
gran parte del pubblico di questo spettacolo si divertiva, e che riusciva a
vedere solo lame di cartone, e attori che fingessero di fare i morti’.
“Dunque,
ben lungi dall’essere quello ‘strumento per morti rapide e discrete’ che
diverrà progressivamente a partire dalla fine del XIX secolo, la ghigliottina
della Rivoluzione si accampa al centro di un ‘grande rito teatrale’”[51]
Lo
scenografo di questi grandi spettacoli era un grande pittore: Jacques-Louis
David. E un grande, importante uomo di teatro come Louis- Sébastien Mercier, che
rinnova le scene, il tipo di allestimenti e la drammaturgia del teatro
francese, avviandolo a quel tipo di
dramma e di commedia, in cui prenderà forma, nel secolo XIX, il dramma borghese
(da Dumas padre e fils, al Verdi della Traviata e al Bizet di Carmen, a Becque,
a Ibsen, a Hauptmann, ma prima ancora influendo enormemente sull’opéra-comique), può scrivere nel 1798:
“Il Terrore non aveva cambiato per nulla certe abitudini. Andando a teatro in
carrozza, ci si imbatteva quasi sempre nella carretta che trasportava i resti
delle sventurate vittime cadute durante il giorno sotto la fatale mannaia. Ci
si limitava, allora, a chiudere le cortine della carrozza, e si proseguiva
imperterriti, per correre ad ammirare le esibizioni degli attori in voga”[52].
Da
questo scenario di orrori reali e rappresentati si leva il grido di libertà di
Florestano, l’anelito di fratellanza universale di Leonore. Se Beethoven
rappresenta un carcere che sembra anticipare le nefandezze di un Lager nazista,
non è perché abbia anticipato i tempi, ma perché coglie un carattere
fondamentale di qualsiasi reclusione: la privazione della libertà, il degrado
dell’individuo a puro oggetto, l’imposizione del potere non più solo ai
comportamenti dell’uomo, ma alla sua stessa vita, alla sua nuda esistenza, per
assoggettarlo integralmente e incondizionatamente al dominio di un potere
tirannico e omicida[53]. Qualche
anno dopo (10 dopo la prima versione del Fidelio
e appena tre dopo l’ultima), nel 1815 Beethoven scrive le musiche di scena per
il dramma di Friedrich Duncker Leonore
Prohaska. E’ la storia, vera, di una ragazza che si arruola volontaria in
abiti maschili nell’esercito prussiano per combattere gli invasori francesi e
che muore a Donnenberg nel 1813 per le ferite ricevute in battaglia. Il primo
numero è un coro maschile a cappella. Bellissimo! Il testo dice: “Wir bauern
und sterben”, noi costruiamo e moriamo. E qualche verso più avanti: “Wir
sterben für Freiheit und Liebe”, moriamo per la libertä e l’amore. Il tema
ricorda molto da vicino l’attacco della Sonata
in si bemolle maggiore op. 106. Probabilmente Beethoven, che ha letto Kant,
non ha capito gran che delle sue idee filosofiche. Ma ha colto in pieno il nodo
tematico della Critica della ragion
pratica, vale a dire l’essenza della fondazione di una morale per Kant.
Tale essenza sta nel principio che l’uomo non può, non deve mai essere
degradato a strumento, a mezzo, ma deve costituire, sempre, per l’altro uomo,
un fine. La musica di Beethoven sembra l’esplicazione di tale principio. E nel
caso, perché il principio venga rispettato, morire. E’ incredibile la quantità
e la complessità di pensiero francese e tedesco che confluisce in questo
atteggiamento di Beethoven, che potrebbe anche sembrare rigido, moralistico, o
quanto meno ideologico (ma non lo è, come non lo è l’affermazione del principio
universale che fonda l’universalità, non già di una morale, bensì di
un’esigenza morale: Nietzsche di tale esigenza abolirà la pretesa che una
morale particolare s’innalzi a morale universale, ma non la percezione che
anche l’assenza di morale sia a suo modo una posizione morale, e n’è spia lo
stile concitato, risentito e alto, quando ne scrive). L’inno alla gioia di Schiller s’intitolava originariamente An die Freiheit, alla libertà. Goethe
intitola la propria autobiografia Dichtung
und Wahrheit, poesia e verità, non poesia e realtà, poesia e vita. E nel
Fidelio, Florestano prigioniero, così spiega la propria prigionia:
“Wahrheit wagt’ ich kühn zu sagen,
Un
die Ketten sind mein Lohn“[54].
Verità,
libertà, gioia sono intercambiabili. Pochi versi più in là, nella zona più
concitata della sua aria, Florestano vede un angelo che viene a liberarlo, che
lo conduce all’agognata “Freiheit”, cioè la libertà, e quest’angelo è sua
moglie, Leonore. Come cantano i soldati della Leonore Prohaska: moriamo per la libertà e l’amore. L’una non c’è
senza l’altro. “Seid umschlungen”, abbracciatevi. La grandezza, e la bellezza,
della musica di Beethoven sta nel fatto che l’appello civile, l’appello
politico, non si restringe a perorazione retorica, ma s’innalza a principio
filosofico, lo stesso che aveva mosso la plebe parigina ad assaltare la
Bastiglia: “Liberté, Fraternité, Egalité”, e non solo tra gli individui, ma
anche tra i popoli. Lo choc delle guerre napoleoniche fu per Beethoven che
Napoleone tradiva quel principio, ecco perché Beethoven poteva poi inneggiare a
una ragazza sassone morta per combatterlo. L’atteggiamento non è diverso da
quello di un Manzoni che distingue tra oppressori tedeschi e popolo tedesco.
Ciò che Beethoven ha in più, rispetto a tutti costoro, è la tensione con cui
anela alla libertà. Non rappresenta la bellezza della gioia, la grandezza della
verità, l’ebbrezza della libertà, ma l’impeto dell’aspirazione alla verità,
alla libertà, alla gioia. E’ una visione lontana, una speranza. Mai una realtà.
La realtà sono il carcere di Florestano, il primo, terribile, tempo della Nona, lo struggimento inconsolabile
della Cavatina, nell’op. 130. E’
proprio la durezza, la violenza del dolore, a chiedere che ci sia una
“ricompensa” diversa dal carcere e dalla morte. Un “risarcimento”, come dice la
Cecilia goethiana. La storia della musica beethoveniana, e in particolare del Fidelio, è la ricerca di questa
“ricompensa”. Alla lettera: un pareggiamento dei conti, come dice bene la
parola italiana.
4. Esempi
di analisi drammaturgica e musicale del Fidelio.
Una
volta, durante il terzo rifacimento dell’opera, Beethoven ebbe a dichiarare che
se il Fidelio non gli avrebbe fatto,
può darsi, ottenere la gloria, sicuramente gli avrebbe fatto conseguire la
corona del martirio (viene una certa tristezza a pensare che, teatralmente,
Beethoven aveva invece ragione e avevano torto i costumi teatrali del suo
tempo, e in particolare gli impresari del suo tempo: un po’ come si resta
amareggiati sapendo che per Les Noces
Stravinsky avrebbe voluto i pianoforti sulla scena, ma Diaghilev si oppose
sostenendo che avrebbero disturbato i danzatori! non tutti hanno la fortuna
d’incontrare un Viganò, la cui modernità non solo fu compresa da Beethoven, e
viceversa, ma più di un secolo dopo s’incontra con l’intelligenza di una Pina
Bausch, per una nuova coreografia delle Creature
di Prometeo).
Del
martirio fanno fede ben quattro ouvertures. Le tre chiamate Leonore, e quella definitiva che
introduce l’ultima versione dell’opera. La prima non venne mai eseguita.
Beethoven la fece suonare da una piccola orchestra in casa del principe
Lichnowsky e già durante l’esecuzione si accorse che non aveva un carattere
abbastanza incisivo. Gli amici che ascoltavano furono d’accordo con lui. La
notizia è riferita da Schindler[55] e
quindi va presa con le pinze. L’ouverture che venne eseguita la sera del 20
novembre 1805 è quella conosciuta come Leonore
n. 2 op. 72a. Per la ripresa del 1806 Beethoven scrisse una nuova
ouverture, la più famosa, oggi, quella conosciuta cioè come Leonore n. 3 op. 72b. Mahler ebbe la
sciagurata idea d’inserirla tra il primo e il secondo quadro del secondo atto,
e la pratica si protrae fino a Bernstein (che tuttavia ha forse inciso
l’edizione più entusiasmante dell’opera). L’idea è sciagurata perché blocca
l’azione drammatica, quando invece proprio per ottenere un effetto di maggiore
concitazione teatrale Beethoven abolisce il pur bellissimo episodio di Leonora
che, dopo avere sopportato la tensione di affrontare Pizzarro, sviene e
Florestan ancora in catene non può soccorrerla, quando rinviene i due sposi
cantano il sublime duetto di ricongiungimento. In effetti il tormento di
Beethoven è proprio quello di trovare l’ouverture teatralmente più efficace.
Esclusa in partenza la prima Leonore,
per una supposta inefficacia espressiva, le altre due sono due splendide pagine
sinfoniche, soprattutto la terza, ma appunto troppo ingombranti, troppo
sviluppate, per una semplice funzione d’introduzione all’opera. Ecco perché poi
per l’edizione del 1814 Beethoven ne scrive una quarta brevissima e, a
differenza delle altre che sono piene di agganci tematici e addirittura
anticipano l’esito finale sia armonico che drammatico – do maggiore e liberazione
dei prigionieri – dell’opera, in essa Beethoven non sembra introdurre apparenti
agganci tematici con il resto dell’opera (ma dalla battuta 21 alla battuta 30,
il semitono, ch’è l’intervallo tematico del Fidelio,
acquista un’evidenza sinistra). Tutt’e tre le Leonore sono in do maggiore e anticipano, dunque, come s’è detto,
la risoluzione armonica della partitura. Proprio per evitare
quest’anticipazione, che avrebbe rovinato l’effetto di sorpresa con cui nel Finale dell’opera irrompe la tonalità di
do maggiore (proprio come nel Finale
della Quinta Sinfonia) Beethoven
sceglie per l’ultima ouverture la tonalità di mi maggiore, piuttosto lontana da
do maggiore, ma ad esso legata da una parentela alquanto stretta, essendo la
dominante del suo relativo minore. Il piano tonale dell’opera è calcolatissimo.
Per creare una relazione armonica tra l’ouverture e il primo numero del primo
atto, Beethoven sposta il duetto Jaquino-Marzelline, in la maggiore, al primo
posto, e colloca al secondo posto l’aria di Marzelline, in mi bemolle maggiore,
che invece apriva le due precedenti versioni dell’opera. Abbiamo così un
movimento mi-la, che esplicita la relazione col do maggiore del Finale, ma ne
attenua l’evidenza impostando sulla tonica la non già il modo minore, che
rinvierebbe subito a do maggiore, bensì il modo maggiore. Inoltre, nel corso
del duetto, al la maggiore insistente e affermativo di Jaquino, Marzelline
risponde in si minore: in tal modo esplicita il proprio rifiuto, allontanandosi
dalla tonalità e dal modo di Jaquino e pone un’altra volta in evidenza, dopo
l’ouverture, l’intervallo tematico di semitono, passando prima da la a la
diesis, la sensibile di si minore, e risolvendo subito tale grado nella sua
tonica si. L’intervallo di semitono percorre tutta la partitura, come un filo
nascosto, segreto, un’ombra cupa che minaccia la stabilità tonale (Beethoven
impara la tecnica da Haydn: Sinfonie 103
e 104, inizio della Creazione, Haydn però in genere prepara
la dissonanza, mentre Beethoven ama enunciarla ex abrupto, come nell’attacco della sua Prima Sinfonia). Il semitono sembra un intervallo simbolico e
ossessivo, nella musica beethoveniana, alla faccia di chi legge la sua musica
come posseduta da un inossidabile diatonismo. Negli anni in cui lavora al Fidelio, tale intervallo acquista un
rilievo speciale nell’op. 57, la cosiddetta “Appassionata”, lì si presenta come
urto dissonante tra do e re bemolle. Ma lo si ritrova anche nell’introduzione
della Quarta Sinfonia, come una sorta
di discesa agl’inferi (che riascolteremo nel Fidelio!), le terze discendenti che si susseguono spostano ciascuna
di un semitono discendente la probabile triade, di modo che non è mai chiaro in
che tonalità si voglia sostare, tutta quanta l’introduzione sembra configurarsi
pertanto come un’invenzione atematica (com’è giusto per un’introduzione) sul
semitono, e Alban Berg è ancora di là da venire. Il semitono assume un
carattere addirittura di enigmatico disorientamento nella XX Variazione Diabelli, perché ad esso si riduce ormai l’intero
tema che costituisce il fondamento della variazione. Il duetto
Jaquino-Marzelline, però, ci fa capire anche un altro aspetto della
drammaturgia musicale beethoveniana: la caratterizzazione armonica dei
personaggi. Ogni personaggio è individuato in un suo preciso campo armonico:
Florestan occupa il campo cupo di fa minore (la stessa tonalità dell’Appassionata), Pizzarro è confinato nel
campo di re, minore quando esterna il proprio livore e maggiore per l’urlo belluino
di trionfo; Leonore, nella sua grande aria, oscilla tra il tragico sol minore con
cui attacca il cromatico recitativo e il mi maggiore dell’aria, invoca in essa
la speranza, che Leonore vedrà alla fine realizzarsi allo squillo delle trombe
e nel do maggiore liberatore del Finale, di cui pertanto la tonalità di mi
maggiore, e cioè della speranza, appare come una sorta di prefigurazione (ma mi
maggiore è anche la tonalità dell’ouverture, che dunque solo adesso cogliamo
come un vero e proprio ritratto di Leonore, la quale però nell’aria lascia che
quel mi maggiore della speranza tocchi più volte pericolosamente il cupo do
diesis minore della disperazione – op. 27 n.2).
Ma prima
di proseguire nell’analisi dei piani tonali del Fidelio, confrontiamo le
diverse stesure dell’opera, tenendo presente anche il modello di
Bouilly-Gaveaux da cui Beethoven parte. I rimaneggiamenti sono profondi. E
tendono tutti a una maggiore concitazione drammatica. Ma in tutte e tre le
versioni la coerenza tonale è mantenuta come una funzione importante della
stessa drammaturgia. Anzi, gli spostamenti dei numeri tendono a mettere in
evidenza proprio tale organica pianificazione dei percorsi tonali (e poteva
essere diversamente per un compositore che aveva fatto dell’impostazione
armonica la vera cellula generatrice dell’invenzione tematica e dunque il
centro del suo sistema di comporre? si faccia caso che quasi sempre un tema
beethoveniano, almeno all’origine, non è quasi mai caratterizzato da
un’invenzione melodica invadente, ma si riduca spesso quasi solo
all’individuazione di un campo armonico e alla sua scansione ritmica, op. 53,
op. 57, per esempio; nella Missa Solemnis
il tema può addirittura limitarsi a un accordo, come accade all’accordo di mi
bemolle maggiore – lo stesso dell’Eroica
– per il Credo).
Le
diverse versioni del Fidelio (Leonore) confrontate con l’opéra-comique
di Bouilly e Gaveaux.
Le versioni del 1806 e 1814 sono mostrate
con riferimento ai numeri della versione
del 1805.[56]
Gaveaux,
1798 Beethoven, 1805 Beethoven. 1806 Beethoven, 1814
Léonore, ou L’amour Fidelio (J. von Sonnleithner) Leonore, oder Der Fidelio (Sonnleith-
conjugal Triumph der eheli- ner. rev. Breuning,
lichen Liebe (Sonn- G. F. Treitsche) leithner, rev. G. F.
von
Breuning)
Ouverture:
Leonore n.2, Do Ouverture:
Leonore Ouverture : Fide- n. 3, Do lio,
Mi
Atto 1 Atto 1 Atto 1 Atto 1
Aria (Marceline) 1. Aria (Marzelline) “O wär ich 1. 1805/1 1. 1805/2
schon”, do, Do.
Duetto (Marceline/ 2. Duetto (Marzelline/Jaquino) 2. 1805/2 2. 1805/1
Jaquino) “Jetz, Schätzen”, La
3.
Terzetto (Marzelline, Jaquino, 3. 1805/4 3. 1805/4
Rocco)
“Ein Mann ist bald genom-
Men“,
Mi b
4.
Quartetto (Marzelline, Leonore, 4. 1805/6 4. 1805/5
Jaquino, Rocco) “Mir ist so wun-
derbar“, Sol
Aria (Roc) Chanson 5. Aria (Rocco) “Hat man nicht 5. 1805/7 5. 1895/6
auch
Gold beineben“, Si b
6.
Terzetto (Marzelline, Leonore, 6. 1805/8 6. 1805/7
Rocco)
“Gut, Sönchen, gut”, Fa
Atto 2 7. 1805/9 7. 1805/8
7. Marcia, Si b (forse esclusa). 8. 1805/11 8. 1805/9
8. Aria (Pizzarro) “Ha! welch ein 9. 1805/10 9. 1805/11 con
Augenblick”, re/Re un
nuovo recit.
9. Duetto (Pizzarro, Rocco) “Jetzt, 10. 1805/3 “Abscheulicher!
Alter”,
La Wo
eilst du hin?”
Duetto (Marceline, 10. Duetto (Marzelline, Leonore) 11. 1805/12
Léonore) “Um
in der Ehe froh zu leben”, Do
Aria (Léonore) “Ro- 11. Recit. e aria (Leonore) “Ach 10. Nuovo Finale.
mance” brich
noch nicht… Komm,
Hoffnung”,
sol, Mi
Aria (Léonore) “Air” 12. Finale (Marzelline, Leonore,
Coro (prigionieri) Rocco, Jaquino, Pizzarro, prigio-
nieri, Si b
Atto 2 Atto
3 Atto
2 Atto 2
Recit. e aria (Flore- 13. Recit. e aria (Florestan) “Gott! 12. 1805/13 11. 1805/13 con
stan) “Romance” welch Dunkel hier… In des Lebens una
nuova sezione
Frühlingstagen”, fa, La b, fa finale:
“Und spür
ich
nicht linde”, Fa
Duetto (Léonore, 14. Melodram e duetto (Leonore, 13. 1805/14 12. 1805/14
Roc) Rocco)
“Nun hurtig fort”, la
Terzetto (Léonore, 15. Terzetto (Leonore, Rocco, 14. 1805/15 13. 1805/15
Florestan, Roc) Florestan) “Euch werde Lohn”, La
16. Quartetto (Leonore,
Florestan, 15. 1805/16 14. 1805/16
Rocco, Pizzarro) “Er sterbe!”, Re
Duetto (Léonore, 17. Recit. e duetto (Leonore, Flo- 16. 1805/17 15. 1805/17 senza
Florestan) restan)
“Ich kann nicht fassen… O recit.
namenlose Fruede“, Sol
Coro fuori scena
Coro “Final, Choeur 18. Finale (Leonore, Marzelline, 17. 1805/18 16. 1805718 ma
général” Rocco, Florestan, Jaquino, largamente
rielabo-
Pizzarro, Fernando, prigionieri, rato.
popolo), do, Do.
Nella tavola qui sopra delle
diverse versioni sono segnate anche le tonalità fondamentali dei singoli numeri
(iniziale maiuscola per il modo maggiore, minuscola per quello minore). Anche a
una rapida scorsa il percorso tonale appare saldamente concepito in funzione di
una tenuta organica, si sarebbe tentati di dire “coerente”, del campo tonale.
Tutta la partitura sembra ruotare intorno al campo armonico di do maggiore (è
la tonalità dell’op. 53), di cui le altre tonalità appaiono come una sorta di
espansione, e di tale espansione fa parte anche la ricerca del contrasto. Ed è
per questo che le prime tre ouvertures sono tutt’e tre in do maggiore.
Incorniciando l’opera con un’apertura e una chiusura entrambe in do maggiore,
Beethoven addita in questa tonalità il perno del dramma. La cosa non deve
meravigliarci. Do maggiore è una tonalità tutt’altro che solare, apollinea.
Proprio l’assenza di alterazioni in chiave la predispone ad accoglierle tutte.
Il che può farle assumere anche un carattere altamente drammatico, il che non
significa necessariamente tragico, come per esempio nel primo tempo dell’op. 53
o nella fuga del terzo quartetto dell’op. 59, tempi assai mossi e armonicamente
imprevedibili (ma il modello poteva già trovarsi nel Finale dell’ultima sinfonia mozartiana). In ogni caso la tonalità
di do maggiore è assunta in vista della conclusione affermativa dell’opera, sia
dal punto di vista drammatico che musicale.
La lettura della partitura del Fidelio, come quella di qualsiasi altra
partitura beethoveniana, offre un campo privilegiato e fecondo a qualsiasi
tentativo di analisi. Non è il caso di procedere pagina per pagina. Si
indicheranno solo taluni punti, come modelli di altre possibili analisi. Ma
cominciamo dal piano generale.
Atto
primo: Mi, La, do-Do, Sol, Si b, Fa, Si b, re-Re, La, sol-Mi, Si b.
Atto
secondo: fa-La b-fa, la, La, Re, Sol, Do.
In
un’opera di tale cupezza sorprende la prevalenza delle tonalità maggiori. E in
ogni caso il modo minore non impregna mai per intero un numero, nel primo atto,
e nel secondo solo uno, il terribile duetto dello scavo nella cisterna. Perfino
il cupissimo fa minore del grido di Florestan si apre, nella zona centrale del
suo monologo (non è una vera e propria aria, vedremo) a un rasserenante la
bemolle maggiore. Ma si andrebbe fuori strada se si scambiasse pedantescamente
il modo maggiore come modo della positività e il modo minore della negatività.
In parte è così, e proprio Beethoven ha messo in luce ed esasperato questo
aspetto della configurazione di un modo, ma solo come meta di un percorso, non
già come carattere specifico del modo. In ogni caso, soprattutto nel Fidelio, il modo maggiore è
continuamente minacciato di sprofondare in qualche catastrofe armonica,
attivata dal dissonante intervallo di semitono. Se Bach amava trasgredire le regole dell’armonia e raddoppiare, per
esempio, la sensibile, Beethoven non è meno audace nell’introdurre
comportamenti armonici anomali e inattesi: indeterminatezza tonale, settime e
none sospese, quinte vuote, terze che non risolvono su nessuna triade. Ovvio
che tanto l’uno quanto l’altro possono permettersi tali libertà perché per
entrambi l’organizzazione tonale dell’armonia è indiscutibile, “quanto un
dogma”, ebbe a dichiarare lo stesso Beethoven. Ma la tonalità da essi accettata
è quella organizzata all’interno del sistema temperato equabile, e dunque con
largo impiego dell’enarmonia. L’accordo di settima diminuita (ma anche di
quinta e di quarta), il ricorso alla sesta napoletana, sono tra gli strumenti
messi in atto più frequentemente per provocare il brivido di una sorpresa
armonica o per ristabilire i confini della trasgressione. Ciò vale anche per le
relazioni armoniche tra un movimento e l’altro di uno stesso pezzo, e dunque
anche per i numeri di un’opera teatrale. Ma il Fidelio è un opéra-comique[57] tedesco. O
piuttosto, il tipo teatro musicale tedesco da confrontarsi con l’opéra-comique. Il Singspiel, dopo Mozart, ha perso il carattere leggero, che lo
faceva assomigliare al vaudeville,
per trasformarsi sempre più in un vero e proprio opéra-comique in lingua tedesca: in questa direzione si muoverà
anche Weber, anzi nell’Euryanthe,
sotto l’influsso di Rossini, abolisce anche i dialoghi parlati, e dunque il
passo verso Wagner è compiuto. In ciò, ma solo in ciò, Wagner non aveva poi
tutti i torti nel sostenere che Mozart, Beethoven e Weber gli avevano indicato
la strada per la costruzione di un’opera tedesca. Tornando al Fidelio, bisogna tener presente che tra
un numero e l’altro, dunque, non c’è musica, perché i dialoghi sono recitati e
non cantati. Ciò farebbe presupporre un legame armonico meno vincolante tra un
numero e l’altro. Ma Beethoven non riesce a rinunciare all’organizzazione
globale anche, o piuttosto soprattutto, del percorso armonico di un’opera.
L’invenzione tematica beethoveniana, è bene ricordarlo, nasce prima di tutto
come invenzione armonica. E dunque anche i numeri di un Singspiel o di un opéra-comique
devono percepirsi armonicamente correlati. Del resto non dimentichiamo che la
pratica concertistica del tempo prevedeva lo smembramento di una sonata, di una
sinfonia, di un quartetto, di un concerto solistico, nei singoli movimenti, tra
i quali l’interprete o gli interpreti infilavano svariati brani virtuosistici:
poteva così accadere che tra un tempo e l’altro di una sinfonia o di un quartetto
s’inserisse l’esibizione di un tenore o di un violinista. L’esigenza di
organicità sentita da Haydn, da Mozart e ancora di più da Beethoven, è
un’esigenza allora inattuale, in anticipo sulla prassi esecutiva del tempo (ci
riflettano i patiti troppo dogmatici delle cosiddette prassi esecutive
“originali”, spesso rischiano di retrodatare le intenzioni di un compositore:
Beethoven è più moderno dei pianisti del suo tempo, il che però non vuol dire
che debba essere suonato come se fosse Brahms, anzi, per certi aspetti Brahms è
meno moderno di Beethoven!). Il primo a capire il senso di tale esigenza di
organicità armonica fu Liszt. Ma il discorso su Liszt ci porterebbe ora troppo
lontano. Basti accennare al fatto che proprio il tipo di elaborazione tematica
attuata da Liszt, il fatto di partire cioè da un disegno astratto di altezze,
che poi s’incarnano in figure tematiche diversificate ritmicamente, se da una
parte è la diretta conseguenza dell’influsso che esercita su Liszt l’elaborazione
tematica dell’ultimo Beethoven, dall’altra prefigura, e forse addirittura
glielo suggerisce, il sistema dodecafonico di Schoenberg. Dobbiamo pertanto
immaginare la successione dei numeri del Fidelio
non già come pezzi che per il fatto di essere separati da dialoghi parlati non
siano in qualche relazione armonica tra di loro, ma anzi che proprio perché si
trovano di fatto a essere separati dai dialoghi parlati, riconnettono
organicamente la successione interrotta con la relazione armonica tra un pezzo
e l’altro.
Il
primo atto si apre in mi maggiore e si chiude in si bemolle maggiore, passando
per la maggiore, do minore, do maggiore, sol maggiore, si bemolle maggiore, fa
maggiore, di nuovo si bemolle maggiore (tonalità centrale e predominante
dell’atto, a creare l’urto dissonante tra si e si bemolle, e cioè l’intervallo
tematico di semitono, urto enfatizzato dal si naturale dell’ouverture in mi
maggiore, e dunque la sua dominante, e il si bemolle, tonica del Finale
dell’atto), re minore, re maggiore, la maggiore, sol minore, mi maggiore. La
tonalità dell’aria di Leonore, mi maggiore, la stessa dell’ouverture, riappare
non a caso proprio prima del Finale, che è in si bemolle maggiore, a ribadire
la dissonanza tra si e si bemolle.
Il
passaggio più ardito è proprio quest’ultimo, ma non inspiegabile: si bemolle è
la tonica di cui fa è la dominante, e in Beethoven la dominante riafferma la
tonica, e quanto a fa, è il secondo grado abbassato di mi maggiore. Riecco
l’amata sesta napoletana! E’ possibile anche un altro percorso: la quinta mi-si
di mi maggiore, diventa quinta diminuita con l’abbassamento di si a si bemolle,
intervallo da Beethoven amatissimo. Inoltre la tonalità di si bemolle maggiore
è prefigurata dal sol minore con cui Leonore attacca il recitativo della sua
grande aria, e pertanto il percorso degli ultimi due numeri non è da mi
maggiore a si bemolle maggiore, ma da sol minore (relativo minore di si bemolle
maggiore), con un percorso cromatico accidentatissimo, a mi maggiore, e da mi
maggiore al relativo maggiore di sol minore, e cioè a si bemolle maggiore. Né
si deve dimenticare, come è stato visto nel corso sulle strategie compositive,
che per Beethoven la tonalità non è un punto fisso dal quale si proceda
linearmente a successivi punti tonali, ma è bensì un campo nel raggio della cui
tonica, con maggiore o minore tensione, entrano in azione gli altri gradi,
imponendosi di volta in volta o come sensibili secondarie o attraverso altre
funzioni come nuovi centri di attrazione tonale. Sembrerebbe il percorso di una
sonata o di una sinfonia. Ma questo di fatto fa Beethoven, trasferisce sulla
scena la costruzione musicale della sinfonia, non per entrare in urto con la
drammaturgia del testo, ma anzi per enfatizzarne le tensioni. Se poi si pensa
che il Finale è costruito sul canto dei prigionieri, l’organicità del percorso
armonico acquista una valenza simbolica: Beethoven visualizza, cioè, già
nell’azione musicale, l’azione che si svolge sulla scena, preparando così il
terreno a Wagner, ma ancora di più a Berg. Nel senso che l’azione teatrale è
già contenuta nell’azione della musica. La musica, insomma, agisce, si fa
dramma, narrazione, conflitto. Non in maniera descrittiva (questo lo faranno i
romantici, ma nemmeno tutti), bensì con strumenti esclusivamente musicali: la
costruzione della forma musicale. Non è il singolo particolare musicale a
descrivere un gesto, un’azione, ma è il processo stesso con cui si attua la
forma musicale a porsi come struttura analogica dell’azione teatrale. Perfino
Verdi, sotto questo aspetto, ne resta soggiogato, e per la battaglia finale del
Macbeth non pensa al chiasso
scatenato di un’orchestra tutta piatti, trombe, corni, tromboni, e timpani: le
trombe ci sono, ma per attaccare il soggetto di una fuga. Come per il grande
Haydn, che Verdi amava, a rappresentare il Caos c’è il calcolatissimo
cromatismo di un ordinato do minore che sfocia nel do maggiore in cui appare la
luce, così per Verdi a rappresentare la mischia disordinata di una battaglia
c’è l’ordine sovrano del contrappunto.
Il
secondo atto del Fidelio ha un
percorso armonico più stringato del primo.
Il
cupissimo fa minore che lo comincia è in stretta relazione con il si bemolle
che chiudeva il primo atto. Il recitativo di Florestan parte da questo
terribile fa minore e si muove cromaticamente fino ad adagiarsi sul la bemolle
maggiore dell’aria, la cui conclusione è però in fa maggiore. Segue il melodram, cioè il melologo, e il duetto
tra Rocco e Leonore che scavano la fossa del condannato: la minore, relativo
minore della dominante di fa. Il suono cupo del controfagotto si fa udire
un’altra volta (lo si era udito nella marcetta che precedeva l’ingresso di
Pizzarro, nel primo atto): eccolo l’inferno di Pizzarro, il Lager del Tiranno,
che la marcetta del primo atto ci aveva fatto presagire. Ed è in questo
inferno, il cui orrore sembra intirizzirle le ossa, che Leonore si risolve a
salvare il prigioniero, chiunque egli sia. Si rende conto che il suo compito
non è solo salvare il marito, ma che, come donna, e dunque come membro
dell’umanità (i tedeschi direbbero Mensch),
deve impedire che chiunque altro faccia la fine di suo marito, prende cioè
coscienza che si può liberare qualcuno dalla condizione degradata in cui
l’ingiustizia lo confina, solo combattendo l’ingiustizia, qualunque
ingiustizia, per proclamare con forza il diritto universale della libertà, per
dichiarare che non c’è dignità umana senza libertà, e non c’è uguaglianza senza
giustizia. Si passa quindi al terzetto in la maggiore. Il concitatissimo
quartetto che segue è in re maggiore: re è la tonica di Pizzarro, che qui crede
di vedere realizzarsi il suo trionfo, e di vedere finalmente appagata la sua
ansia criminale di vendetta, ma vede invece crollargli d’un tratto addosso
tutta la macchina persecutoria attivata. In sol maggiore è il duetto di
ricongiungimento dei due sposi e in do maggiore il grande Finale dell’opera.
Solo
poche osservazioni sui singoli numeri. Più che altro come suggerimenti di
un’analisi tutta da fare.
Intanto
tutt’e tre le grandi arie che caratterizzano i personaggi principali del
conflitto sono in forma sonata. Naturalmente una sonata come ormai la elabora
Beethoven, vale a dire con un tema in perpetua trasformazione. Si cercherebbero
invano i profili di due temi distinti, magari contrapposti. Nell’aria di
Pizzarro, per esempio, il semitono gioca un ruolo determinante a delineare il
carattere sulfureo, demoniaco del personaggio. L’ingresso di Pizzarro è però
preceduto da una marcia in si bemolle maggiore. Beethoven ha innalzato la
marcia, che è un pezzo caratteristico, e dunque di livello inferiore al livello
della sonata, a pezzo di uguale dignità di qualsasi altro movimento della
sonata. Nell’op. 26, una sonata per pianoforte, l’adagio è sostituito da una
marcia funebre (ne terrà conto Chopin) e così pure nell’Eroica. Sia l’una che l’altra sono pezzi di altissima elaborazione
e di grande impatto emotivo. Qui, nel Fidelio,
invece, Beethoven sembra voglia serbare alla marcia che annuncia l’ingresso di
Pizzarro il tono di un pezzo caratteristico, la funzione appunto, di una musica
da parata, di una musica d’occasione, e sembra volere creare sulla scena
l’effetto di una vera e propria banda militare. L’attacco è vertiginoso: solo
due colpi di timpano, piano, raddoppiati da violoncelli e contrabbassi
pizzicati e dal controfagotto (come anticipazione della discesa nell’inferno
della cisterna dov’è racchiuso Florestan: anche lì un controfagotto segna,
infatti, come s’è visto, l’ingresso nel dominio del male). La marcia che segue
è una marcetta, scrittura raffinatissima, ma una marcetta, sembra prefigurate
certe sinistre marcette mahleriane. Il male fa il suo ingresso presentato da
una marcetta di tono minore, come uno sberleffo, una smorfia di disgusto.
L’effetto è sinistro, come quasi tutto, in quest’opera, prima della liberazione
finale. E’ sinistra anche la quotidianità di Rocco, di Marcellina, di Jaquino.
Non è vero che Beethoven cominci con lo scrivere un’opera comica e non sappia
che cosa fare e poi, appena precipita nel tragico, trovi la sua strada. E’ vero
invece che il livello “comico” è il livello della quotidianità, della banalità
del quotidiano. Rocco, Marcellina, Jaquino sono i secondini di un carcere che
sembra una perfetta prefigurazione del Lager nazista. Ma a loro l’orrore di
quanto si compie là dentro non sembra fare impressione. Anzi, Rocco può perfino
inneggiare alla forza dominante del denaro, nella vita, senta sentirsene
turbato, e lo fa a ritmo di marcia. Accetta il denaro anche per coprire un
crimine: si rifiuta di compierlo, ma non di occultarlo. Nella versione del 1806
Beethoven aveva eliminato l’aria cosiddetta “dell’oro”, di Rocco, probabilmente
per dare retta agli amici che la ritenevano estranea al carattere dell’opera,
ma nel 1814 la reinserisce, e con ragione, perché disegna un carattere comune,
quello di una persona buona, ma che per timore, e per avidità, non sa opporsi
al sopruso, al crimine di chi detiene il potere. Come ha scritto Hanna Arendt
il male non è sublime, ma banale. Goebbels adorava i canarini. I secondini e i kapò
dei Lager nazisti non si sentivano minimamente scossi da quanto vedevano e
facevano. Al processo di Norimberga si scusarono dicendo che ubbidivano agli
ordini. Questo vuole rappresentarci Beethoven: la complicità di molti, della
moltitudine dei pavidi, dei corrotti, dei voltagabbana, degli egoisti, degli
indifferenti, nel costruire l’edificio di una tirannide. L’indifferenza
colpevole di chi assiste al male e non solo non lo combatte, non lo ostacola,
ma non se ne indigna, finge di non vederlo, o si autoconvince di non vederlo,
non è meno colpevole della colpa di chi commette il crimine. Beethoven non
poteva certo conoscere l’orrore dei campi di sterminio nazisti (e poi di quelli
bosniaci, e cambogiani, e giapponesi, e americani). Ma conosceva l’esistenza
del carcere. Sapeva che non c’è società che non preveda la reclusioni di una
parte dei propri componenti, e sapeva anche che spesso la reclusione è
immotivata, ingiusta, o che è motivata solo dalla volontà di reprimere chiunque
si opponga all’azione di chi detiene il potere. Conosceva, dunque, che cosa sia
la privazione della libertà. E porta sulla scena la sua indignazione, il suo
dolore, la sua angoscia per uno spettacolo umano, troppo umano, che degrada
l’uomo alla condizione di recluso, di oggetto. “O Freunde, nicht diese Töne!”[58]
Tornando all’aria di Pizzarro, ci si soffermi alle battute 8-14: c’è una
successione tesissima di semitoni, alle parole:
“Die Rache werd’ ich kühlen!
Dich,
dich rufet dein Geschick!
In
seinem Herzen wühlen…” [59]
La
concitazione, la rabbia del suo canto è bene espressa proprio da questo
accavallarsi di semitoni: la-si bemolle, do diesis-re, re-mi bemolle, fa
diesis-sol, sol diesis-la, fino all’esplosione di un urlo, il suono insieme di
rabbia, di furore e di trionfo tenuto sulla tonica re per due battute e mezzo.
Un autoritratto impressionante. Del resto l’orchestra aveva introdotto la deflagrazione
della sua malignità con un passo contorto, attorcigliato, dei primi violini:
la-si bemolle, fa diesis-sol, re diesis-mi, si diesis-do diesis.
Ancora
più sconvolgente il duetto seguente con Rocco.
Pizzarro
gli chiede di uccidere Florestan. Ma non lo fa capire subito. Gli dice solo che
resta ancora un servizio da fare.
Rocco non capisce e gli chiede di spiegarsi meglio. Lo dice con una musica che
ricorda molto da vicino Papageno. La citazione non è casuale. Papageno, nel Flauto Magico, è il popolo austriaco, il popolo allo stato di natura. E
solo con la complicità di un popolo un tiranno può esercitare il suo potere.
Qui Rocco è il popolo che si fa complice dei misfatti di un tiranno. Quando
capisce, prova orrore: “O Herr!”, la-sol diesis, di nuovo il semitono, ma qui a
denotare lo sconcerto di Rocco. Ma lo sconcerto non lo incita alla ribellione.
Ha accettato, poco prima, la borsa di denaro che Pizzarro gli ha offerto e non
ha nessuna intenzione di restituirla. Cerca di aggirare la richiesta
compromettente. Si scusa: togliere la vita non è il suo compito. Pizzarro, contrariato, gli chiede allora almeno di
aiutarlo nel compito che lui stesso
eseguirà: e precisa meglio la propria volontà, lo ucciderà lui stesso, Rocco da
parte sua gli scaverà la tomba.
I
contorti cromatismi che introducevano la sortita di Pizzarro introducono anche
l’irrompere di Leonore, che ha udito tutto, sulla scena, non appena Rocco e
Pizzarro si sono allontanati. Si fa strada in lei la volontà di salvare il
prigioniero, chiunque egli sia. Lo dirà nel duetto con Rocco, mentre gli scava
la fossa. E’ una pagina mirabile, la grande aria di Leonore. Ma la sua analisi
ci porterebbe ora lontani dall’assunto. Passiamo perciò al Finale del primo
atto.
Comincia
con un’apertura degli archi di visionaria modernità. Su un pedale della tonica,
si bemolle, intonata da violoncelli e contrabbassi, gli altri archi
sovrappongono via via statici accordi dissonanti che risolvono poi sulla
dominante fa. Sembra prefigurare la polifonia di Ligeti. O comunque il
procedere per fasce della musica elettronica. Ritornati alla tonica, gli
accordi sono esposti in figure di semicrome, con andamento di basso albertino.
Sopra s’innalza, per note ribattute e gradi congiunti, il canto dei
prigionieri. Tutta la pagina è condotta con un grande respiro sinfonico. E si
conclude pianissimo, i prigionieri rientrano nelle loro celle, Rocco e Leonore
si preparano a scendere nella cisterna dov’è rinchiuso il prigioniero, i
timpani contrappuntano sottovoce, cupi, lo smorzarsi dell’orchestra: la discesa
nell’inferno è cominciata.
Potremmo
fermarci qui. Il resto lasciandolo all’analisi individuale del lettore. Ma c’è
ancora un punto da chiarire, indicare l’origine del semitono tematico, che
percorre l’intera partitura. L’introduzione strumentale del secondo atto ce la
rivela. Si tratta dell’elaborazione di una cantata del 1790, dunque di un
Beethoven appena ventenne, per la morte di Giuseppe II. Fu probabilmente il
manoscritto che Beethoven mostrò a Haydn, quando gli chiese di diventare suo
allievo. E’ una pagina a dir poco profetica, come scrive bene Kinderman[60]. L’effetto
dirompente è ottenuto contrapponendo gli archi ai fiati, alla tonica tenuta per
quattro ottave (i contrabbassi suonano un’ottava sotto il do grave dei
violoncelli) dagli archi succedono gli accordi tenuti dei fiati. E l’accordo
tenuto è figura già qui, come poi nel Fidelio,
della tomba, e dunque della morte. La tonalità è quella di do minore. Nel
catalogo beethoveniano la cantata figura catalogata come WoO 87 [61]. La
pagina è usata poi, nel 1805, come abbozzo per l’introduzione al terzo atto del
Fidelio, diventato nel 1806 e nel
1814 secondo atto. Naturalmente 15 anni dopo la scrittura di Beethoven s’è
fatta più complessa. Alla tonica degli archi, che ora è fa, si contrappongono
accordi, la prima volta consonanti, la seconda dissonanti dei fiati: l’accordo
dissonante viene lasciato sospeso, ma è proprio nella successione dei due accordi
dei fiati che, nei suoni estremi acuti, il semitono compare, nel secondo a
stabilire la dissonanza: do-re bemolle. Con movimento inverso a quello dei
fiati, gli archi, all’estremo grave, viole, violoncelli e contrabbassi,
intonano cupamente il semitono discendente, ribattendone tre volte il grado
superiore: mi-mi-mi-mi bemolle, campo
armonico e ritmo dell’introduzione sono impostati. Nella cantata il semitono
superiore dei fiati manca, i flauti restano fermi sul mi bemolle, gli oboi
intonano una seconda aumentata: mi bemolle-fa diesis (Beethoven ama da subito
gli accordi alterati, il fa diesis fa parte del seguente accordo: corno: si-do;
fagotto: do; clarinetto: do-mi bemolle; oboe: la-fa diesis; flauto: do-mi
bemolle; il fagotto intona, naturalmente, il do grave).
Nell’ouverture
Leonore n. 2, che, come poi la n. 3,
anticipa l’azione musicale dell’opera, il semitono fa la sua comparsa alla
sesta battuta, in cui la scala discendente degli archi, partita tre battute
prima dal sol acuto, risolve inaspettatamente sul fa diesis invece che sul fa
naturale, dirottando così la percezione tonale che finora s’era saldamente
impiantata sul do maggiore. Il procedimento assomiglia moltissimo al
procedimento analogo del primo tempo dell’Eroica,
quando alla settima battuta i violoncelli risolvono inaspettatamente, dal re,
invece che sul do, sul do diesis. Il semitono, in tutti e due i casi, ha
funzione tematica.
Che
cosa si vuole dire con ciò?
Soprattutto
questo: che sarebbe errato leggere una partitura beethoveniana seguendo un
unico percorso di lettura, e ancora più immaginandosi di trovare conferma di
idee formali estranee al pensiero musicale di Beethoven. Il suo, infatti, è un
pensiero che si evolve via via che si forma, e ciò non è affatto in
contraddizione col fatto che Beethoven usasse schizzare prima di comporre
qualsiasi cosa il piano generale dell’opera, salvo a modificare strada facendo
ordine di percorso e contenuti musicali. Il piano generale significa prima di
tutto un campo armonico, un ritmo. Il campo del Fidelio, l’abbiamo visto, è do maggiore. Ma a un certo punto
Beethoven decide di assegnarli non già la funzione di tonalità principale,
quanto piuttosto di quella d’arrivo, e chi sa che in questa decisione non abbia
influito la composizione del Finale della Quinta
Sinfonia, visto che il piano prende corpo nell’ultima rielaborazione
dell’opera, quando il lavoro sulla Quinta
è finito. Ma un ruolo deve averlo giocato anche la composizione dell’op. 53, in
do maggiore, e dell’op. 57, in fa minore, visti retrospettivamente come due
pannelli contrapposti di un’unica concezione (il do maggiore dell’op. 53 è una
tonalità irrequieta, mobilissima, e quanto all’Adagio molto centrale,
mostra un certa affinità con figure egualmente statiche e sospese del Fidelio; il fa minore dell’Appassionata affonda in un clima tragico
e concitato com’è quello, però molto diverso, del secondo atto del Fidelio. Per ciò che riguarda il ritmo,
non è improbabile che uno dei motivi che spinse Beethoven a eliminare le prime
tre ouvertures fosse, oltre a quello di avere una pagina più snella e più
simile a un’introduzione, quello di mettere maggiormente in evidenza il ritmo
di marcia. Abbiamo così tre momenti dell’opera caratterizzati da un ritmo di
marcia. L’ouverture, l’ingresso di Pizzarro e il Finale dell’opera. Tra un
momento e l’altro la marcia o il suono ribattuto compaiono più volte, anche
sinistramente, nel duetto Pizzarro-Rocco, nel canto dei prigionieri, nel primo
atto; nel quartetto e nel Finale del secondo atto. Nel Finale, raggiunta
finalmente la tonalità di do maggiore, la marcia rivela la sua natura di inno
alla libertà e si contrappone, trionfalmente, alla sinistra, sulfurea marcetta
dell’ingresso di Pizzarro, esibendo sfacciatamente il ritmo e l’inciso tematico
della Marsigliese. Qualche anno dopo,
anche l’Inno alla Gioia avrà il ritmo di una marcia.
Roma,
domenica 5 giugno 2005.
[1] Vorlesungen über die Aesthetik,
trad. it. Estetica, Torino, Einaudi, 1963, p. 59.
[2] Teatro e spettacolo nel
primo ottocento, Roma-Bari, Editori Laterza, 1991.
[3] Da Theodor W. Adorno, Beethoven.
Filosofia della musica. A cura di Rolf Tiedemann. Torino, Einaudi, 2001.
(v. Bibliografia)
[4] E’ noto che il carattere
asemantico della musica impedisca di considerarla non metaforicamente un
linguaggio. Tuttavia la tensione per un significato inequivoco della
musica, codificata attraverso secoli di ricerca di formule significanti, se non
altro, un affetto, vale a dire un sentimento, uno stato d’animo, si fa
in Beethoven talmente violenta - al tempo stesso in cui d’altra parte rivendica
invece l’autonomia dei processi formali - che la musica di Beethoven sembra
sforare il livello del linguaggio non solo invadendo il campo della
rappresentazione della passione, ma addirittura suggerendo il movimento
astratto del pensiero. La libertà non è soltanto un concetto politico
retoricamente perorato dalla musica (per
es. Fidelio), ma una conditio sine qua non della stessa musica, e
ciò proprio nel momento in cui il processo formale tende a imporsi come necessario:
la necessità, appunto, della libertà, in quanto è solo alla fine
del processo liberamente e gradualmeomente costruito che quella libertà ci si
rivela come la necessità formale di quella singola e unica opera.
[5] Cfr. Cesare Munari, Storia
del teatro, Roma, Bari, Editori Laterza, 200312, cap. 22°, Germania,
culla del repertorio europeo, e 23°, Verso il teatro borghese, pagg.
175-188.
[6] I numeri rinviano alla
numerazione dei frammenti nell’ed. curata da Rolf Tiedemann.
[7] Adorno si riferisce al
passo di Hegel riportato nell’intestazione della presente dispensa.
[8] Adorno intende dire che
nell’opera beethoveniana il particolare è costruito sempre in funzione
dell’evolversi della forma nel suo insieme.
[9] Hermann Scherchen
(1891-1966: fu costretto a emigrare nel 1933), grande direttore d’orchestra,
amico di Adorno, e sostenitore instancabile e appassionato della Nuova
Musica. E’ il fondatore del Festival d’Aix-en-Provence. Il loro - di
Adorno e di Scherchen - interesse per la musica di Beethoven, e di riflesso per
quella di Mahler, nasce proprio dalla consapevolezza che nella musica
beethoveniana si trovano le radici della Nuova Musica.
[10] Qui si fa riferimento non
solo alla Logica di Hegel, ma al presupposto inderogabile del De
Interpretatione di Aristotele, secondo il quale le parole, da sé, non danno
senso, perché il senso è dato dall’articolazione del periodo. Dire “uomo” non
significa niente, ma se dico “l’uomo è un animale che parla”, dico una frase
che ha senso. In musica, sostiene Adorno, il senso, analogicamente, non è dato
dai singoli temi, bensì dall’articolazione dei temi nel corpo della forma.
[11] Beethoven, citato da Paul
Bekker, Beethoven, Berlin, 1912: “Caro mio, gli effetti stupefacenti che
molti ascrivono al genio naturale dei compositori, si ottengono spesso abbastanza
facilmente con il giusto uso e risoluzione dell’accordo di settima diminuita”.
Adorno lo ridiscute nel frammento 197.
[12] E, si aggiunga, la
predilezione di Beethoven per la terza, per un procedere per terze discendenti,
evitando la dominante: cfr. il primo tempo dell’op. 106 e le Variazioni
op. 34. In ciò Beethoven suggerisce a Brahms la scappatoia per sfuggire alle
trappole dell’armonia romantica. Ma sembra anche illuminare di luce abbagliante
l’aspro e complesso diatonismo di Mahler.
[13] Qui si fa esplicita
l’avversione di Adorno per Wagner. Ma una volta tanto il grande compositore
sbugiarda l’ideologia del critico che lo accusa di ideologia: quanto Adorno
afferma del modello beethoveniano non può essere assunto che come utopia del
comporre, ma l’anarchico Wagner sa perfettamente che quell’utopia non è
realizzabile se non nel sogno o nell’annientamento di tutti i suoi presupposti,
vale a dire nel mito, e sia pure un mito moderno, vale a dire dell’epoca
post-religiosa. Il che non significa di un’epoca senza religione, ma nella
quale appunto la religione da testimonianza di una ricerca della verità scade a
sostegno delle illusioni, e rinvia dunque alle kalende greche il confronto,
insopportabile, con la realtà. A suo modo, nel momento in cui la libertà non
può essere additata che come speranza, Beethoven ha antiveduto questo processo:
in ciò Wagner non fa che proseguire, lucidamente, sulla strada già tracciata.
La storia, e il fallimento, delle avanguardie darmstadtiane s’inserisce in
questo quadro. Da questa prospettiva un’opera come il Pli selon pli di
Pierre Boulez acquista la lancinante e folgorante chiarezza di una resa
incondizionata.
[14] Preposizione latina:
riguardo a, in relazione a, nei confronti di.
[15] E di fatti è Kant, se
mai, e non Hegel, come crede Adorno, e cerca di dimostrarlo non senza
forzature, il filosofo più affine alla musica di Beethoven, non fosse che per
il predominio e il prevalere di un principio etico su qualunque altro.
[16] Fidelio, terzetto
Florestan, Leonore, Rocco, atto II. Florestano, ristorato dall’acqua e dal pane
offertigli da Leonore ringrazia e aggiunge: “Euch werde Lohn in bessern Welten
(Abbiate ricompensa in mondi migliori)”.
[17] Autocitazione dal saggio
su Wagner: “Con ciò | l’ansia di morte
del Tristano | anche la wagneriana metafisica della morte ha pagato il
suo tributo all’inafferrabilità della gioia, che dopo Beethoven vale per ogni
grande musica”.
[18] Il problema sollevato en
passant da Adorno è immenso: indubbio che qualunque opera attinga il bello
è bella senza bisogno di precisarne le connotazioni. Tuttavia come mai mai la
percezione estetica mette in campo gerarchie tra un’opera percipita come
“perfetta” e un’altra che, pur bella, sembra meno compatta, meno riuscita?
Restando a Beethoven: Eroica e Seconda. La Seconda è una sinfonia bellissima.
E tuttavia l’Eroica sembra possedere una marcia in più: quale?
[19] Riferimento a una poesia
di Stefan George: “Prima che voi afferriate il corpo su questa stella, / vi
invento il sogno sotto stelle eterne”.
[20] Nonostante i molti spunti
interessanti di analisi, ecco un passo tipicamente ideologico di Adorno.
Proseguendo il cammino percorso nella Filosofia della musica moderna, il
libro, mai compiuto, su Beethoven ha per sottotitolo: Filosofia della musica.
Beethoven è innalzato a modello del concetto di musica, anzi della musica come
pensiero, filosofia, appunto. Ma per far ciò - nonostante intuizioni
folgoranti come quella che il contenuto di una musica si realizza nella
sua sintassi - Adorno deve prefigurarsi ciò che nel suo modello
beethoveniano è propulsivo, nuovo, in una parola progressivo,
individuandolo nella costruzione tematica. Quanto la musica non si adegua, o
non sembra adeguarsi, a tale modello, gli appare deviante, come nella Missa
solemnis, o di livello estetico inferiore, come nelle ouvertures. Sfugge ad Adorno, la necessità sentita
da Beethoven di strutturare un’opera anche secondo le sue funzioni di
comunicazione: la struttura di un’opera teatrale, anche inglobando al suo
interno forme strumentali, non sarà quella di una sinfonia, e così una
bagattella non potrà aspirare alla complessità nemmeno di un rondò. In qualche
modo, come già aveva fatto Croce, Adorno sottovaluta il peso del genere nella
costruzione di un’opera: esattamente come un sonetto non si scrive alla maniera
di un poema o di un romanzo, così una bagattella, una scena teatrale, non si
scrivono come una sonata, un quartetto, una sinfonia. Ciò che resta comunque
sempre alla base del comporre beethoveniano è, certo, la logica armonica,
ritmica, tematica che guida la scrittura, ma la logica tematica di un tempo di
quartetto schiaccerebbe l’esile trama di una bagattella. In realtà poi le cose
stanno in maniera assai più intricata e complessa: Alla danza tedesca,
dell’op. 130, sembrerebbe un pezzo caratteristico, e allora il suo tono alto
è dato dalla sua collocazione all’interno di un quartetto, e Beethoven spesso
gode, come faranno anche Schubert e Brahms, che in questo prendono da lui, ad
accostare passi di elevata elaborazione, e dunque di stile sublime, a passi
volutamente - e apparentemente! - semplici o addirittura banali, e dunque di
stile basso. Il movimento che segue la danza tedesca è la
struggente, intensissima Cavatina! Ma tornando alle ouvertures,
la loro apparente semplicità, rispetto alla complessità delle sinfonie,
ubbidisce a una necessità teatrale: quella di individuare i contrasti in
maniera netta, decisa, esagerata. Naturalmente questa è una necessità
beethoveniana, di come Beethoven concepisce il teatro. Ma smentisce tutti i
discorsi vanamente scritti su una pretesa insensibilità teatrale di Beethoven:
Beethoven è talmente sensibile al teatro da scrivere per il teatro in maniera
diversa da come scrive quando compone una sinfonia. Quanto alla presunta rozzezza
delle ouvertures: lo si è scritto anche di Verdi, ma potrebbero Rigoletto,
La traviata, Aida avere introdzioni strumentali più
efficaci di qelle che hanno?. Le ouvertures di Beethoven questo
sono : introduzioni. Si rifletta sul lungo percorso compiuto da Beethoven
attraverso le tre redazioni dell’introduzione alla Leonore, fino alla
definitiva ouverture del Fidelio. Non c’è dubbio che tanto la Leonore
n. 2 che soprattutto la Leonore n. 3 (e forse anche la n. 1) siano dei
capolavori, ma non c’è dubbio, anche, che come introduzione l’ouverture definitiva
del Fidelio funzioni meglio, e non dal punto di vista musicale (anche),
bensì teatrale. Le tre precedenti versioni, anche se bellissime, sono da
Beethoven scartate proprio perché troppo sinfoniche, e dunque inadatte a
svolgere la funzione di introduzione. Alla faccia di chi non saprebbe
scrivere per la scena!
[21] Dal ciclo di Lieder, su
poesie di Chamisso, Frauenliebe und -leben, il secondo Lied.
[22] Versi finali della morte
di Isotta.
[23] Fidelio, Florestan
nel terzetto Florestan, Leonore, Rocco del II atto.
[24] Quacosa sembra sfuggire
ad Adorno. La tristezza, lo spreco di sé, che connota tante pagine di Schumann
(e di Schubert, di Chopin, perfino di Brahms) è un sentimento del qui,
dell’adesso, molto vicino all’angoscia di Kirkegaard, in goni caso legato al
soggetto che la esprime, alla sua vicenda personalissima. In Beethoven, mai: il
soggetto, in Beethoven non è mai l’individuo, l’artista che scrive, ma l’intera
umanità. I romantici guardano la vita dall’interno della vita. Beethoven sembra
oltrepassarla e guardarla dall’altra parte, un po’ come Bach. In tal senso il
compositore classico più vicino ai romantici non è, naturalmente, Beethoven, ma
Mozart.
[25] E’ un pensiero
fondamentale, un’idea che percorre la cultura tedesca dal Medio Evo in poi. An
dei ferne Geliebte di Beethovrn ne è un’icona imprescindibile. L’amata è
appunto lontana, assente. Così come la Isolde di Gottfried per Tristan,
o Suleika per Hafiz nel Divano goethiano. C’è una parola che, più che
definire, coglie questo sentimento tipicamente tedesco del desiderio
dell’assente: la Sehnsucht, malamente tradotta in italiano con nostalgia.
“Nur wer die Sehnsucht kennt, weiss was ich leide (solo chi conosce la
nostaglia, sa che cosa io soffro)”, canta Mignon nel Meister goethiano.
Qui Adorno rivela le radici profondamente tedesche del suo pensiero. Il mondo
dell’irraggiungibile è sempre il migliore dei mondi possibili. In fondo una
simile Sehnsucht , ma proiettata nel futuro, sta alla base anche del
pensiero di Marx. Tocca perfino il divino Mozart, la seduzione di questo
ambiguo, infernale, demoniaco desiderio di perdersi dietro un fantasma del
desiderio stesso: Selim, che alla conclusione del Ratto, rivolgendosi a
Costanze, le dice: “Prega Dio di non pentirti un giorno di avere rifiutato il
mio amore”. E non sono purissima Sehnsucht i “bei momenti” della
Contessa? Il fatto è che l’arte tedesca è costruita sulla lacerazione tra
l’interiorità e il mondo, sull’esperienza primordiale di una perdita. A
cominciare dai corali di Lutero. O dall’idea, profondamente e tipicamente
luterana, che il peccato originale non fu un peccato di orgoglio, bensì un
peccato di concupiscenza, e dunque, come analizza mirabilmente Kirkegaard nel
saggio sul Don Giovanni, all’interno di Aut-Aut, .un’esperienza
della finitezza del tempo, del finire della stessa esperienza, in un presente
talmente istantaneo e immobile da confondersi con il suo annientamento, e
dunque con la morte Detto questo, la musica tedesca, forse la più grande musica
della musica occidentale, resta una musica della perdita, dell’assente
desiderato. Una musica che vorrebbe illudersi, o illuderci, ma non può, o non
sa farlo, che la congiunzione con l’amato è ancora possibile. Da qui la sua
demoniaca lucidità nello scoperchiare le finzioni dell’illusione consolatoria.
Restano aperte due vie, emblematicamente incarnate in Beethoven e Wagner: o
quella della Ragione, che contro ogni evidenza, si ostina a sperare, o quella
che si arrende alla nullità del reale. Sono poi così opposte?
[26] Devo la suggestione del
presente paragrafo ai capitoli 22° e 23° della Storia del Teatro di
Cesare Molinari, cit., pagg. 175-202 e al primo capitolo, bellissimo, di Teatro
e spettacolo nel primo ottocento di Claudio Meldolesi e Ferdinando Taviani,
cit., pagg. 3-101.
[27] Il termine con cui in
tedesco si designa il regista è regisseur, che in francese significa amministratore, ma perché in Germania è
appunto il Dramaturg, l’amministratore del teatro, colui che monta tutto lo
spettacolo, che mette in scena
l’opera da rappresentare: e proprio riguardo a quest’ultimo aspetto i francesi
lo dicono perciò metteur en scène.
[28] Anche Beethoven pensa che
il teatro debba essere una sorta di scuola della vita, e perciò lo
scandalizzava il libertinismo mozartiano.
[30] La commedia goethiana
viene rappresentata nel teatro del castello di Eszterháza il 30 maggio 1778,
dunque nella prima versione col finale lieto del ménage à trois. Sovrintendeva agli spettacoli del castello Franz
Joseph Haydn. A proposito di cultura teatrale tedesca, in questo caso anche
ungherese! Cfr. la monumentale monografia di H. C. Robbins Landon, Haydn. Chronicle and Works.
Haydn at Eszterháza 1766-1790, London, Thames and Hudson, 1978, pag. 95.
[31] I dolori del giovane
Werther.
[32] Il precettore ovvero i
vantaggi dell’educazione privata.
[33] La donna sventurata.
[34] I soldati.
[35] I gemelli.
[36] Giulio di Taranto.
[37] Ifigenia in Tauride.
[38] I masnadieri.
[39] Per questo paragrafo v.
Jean Mongrédien, La musique en France des Lumières au Romantisme, 1789-1830,
Paris, Flammarion, 1986, in particolare le pagg. 48-154, dedicate al teatro (ma
egualmentepreziose le pagg. 34-47, dedicate alla “musique révolutionnaire”,
così importante per Beethoven), e Roberto Tessari, Teatro e spettacolo nel
Settecento, Roma-Bari, Editori Laterza, 1997. Utilissimo Gerhard Dietel, Musikgescichte in
Daten, Kassel, Bärenreiter, 1994.
[40] La tragedia di Euripide
s’intitola, più correttamente, Ifigenia
fra i Tauri. La Tauride non esiste.
[41] La commedia era finita
nel gennaio del 1773, e la Comédie Française l’annuncia per il carnevale. Viene
aggiornata all’anno seguente. Ma nel febbraio del 1774 la prima della commedia
viene ulteriormente aggiornata. Finalmente va in scena il 23 febbraio 1775, e
Beaumarchais rimpolpa il testo con numerose allusioni alle disavventure della
messa in scena. E’ un fiasco. Alla fine di giugno la commedia è pubblicata con
l’aggiunta di una Lettre modérée sur la
chute et la critique du Barbier de Seville (lettera moderata sulla caduta e
la critica del Barbiere di Siviglia).
[42] Le mariage de Figaro viene letto dal Beaumarchais alla Comédie
Française il 29 settembre 1781. Censura
favorevole di Coqueley de Caussepierre. Ma sorgono intrigi e ostacoli a corte.
Il re si oppone alla rappresentazione. L’anno seguente c’è una seconda lettura
della commedia alla presenza del Granduca di Russia, del maresciallo Richelieu
e della duchessa di Villeroy, ma nell’estate la seconda censura (di Suard),
contrariamente alla prima, è sfavorevole. Il 13 giugno 1783 Le mariage dovrebbe essere rappresentato
sulla scena dei Menus-Plaisirs a
Versailles. Ma all’ultimo momento il re
proibisce la rappresentazione. Nell’estate c’è una terza censura, favorevole,
della commedia. Il 26 settembre Le
mariage è rappresentato privatamente a Gennevilliers, presso il duca di
Fronsac, con l’accordo del re. Nell’autunno si ha una quarta censura,
riservata, della commedia. Il 15 gennaio 1785
Desfontaines emette una quinta censura del Mariage, favorevole a prezzo di taluni “adoucissements”
(addolcimenti). Il 22 marzo si ha una sesta censura, definitiva, interamente
favorevole. Alla fine del mese un “tribunale di decenza e di gusto” composto da
uomini politici e scrittori concede l’avallo definitivo. Ai primi d’aprile
cominciano le prove e il 27 aprile va in scena la trionfale prima. Il 19 agosto
c’è la famosa ripresa del Barbier al
Trianon, in cui Maria Antonietta, anche per manifestare il proprio dissenso
dalle posizioni del marito, recita la parte di Rosina. Da notare la rapidità
con cui Mozart coglie l’attualità della
commedia: Le nozze di Figaro vanno in
scena a Vienna il 1 maggio 1786. Per le notizie, in dettaglio, cfr.
Beaumarchais, Théâtre, Paris,
Garnier,1980, pagg. xv-xxi.
[43] Si fa poco conto del
fatto che proprio nel Ratto Mozart
opera, per la prima volta, l’innesto di forme alte, tragiche, della musica
teatrale nel corpo di un’opera comica. O per lo meno, la prima volta in maniera
riuscita: La finta giardiniera è un
esperimento tiuscito a metà. In ogni caso Mozart individua bene il problema,
già fin dall’Idomeneo. Ma lì si
trattava d’innestare forme comiche
(il sublime quartetto del terzo atto “Andrò ramingo e solo”) nel corpo
dell’opera tragica. La novità dell’opéra-comique stava nel fatto che le
forme musicali, nate per la commedia, erano divenute neutre quanto a
connotazione di genere e si offrivano pertanto egualmente efficaci a connotare
un’azione tragica quanto una vicenda comica. Il massimo dello sconfinamento o,
se si preferisce, dell’estraniamento di genere, sarà attuato, nel 1797, dalla Medea di Cherubini, e nel 1805 proprio
dal Fidelio beethoveniano, che in ciò
si lascia alle spalle, quanto a tensione tragica, i pur notevoli esperimenti,
sullo stesso soggetto, di Gaveaux, Paër e Mayr, collocandosi se mai su un piano
affine a quello di Cherubini, e non solo il Cherubini della Lodoïska e delle Deux Journnées, ma proprio quello della Médée. E non è un caso che alla fonte di Gaveaux, Paër e Mayr,
oltre che di Beethoven, ci sia lo stesso libretto di Bouilly, ma che sia anche
di Bouilly il libretto del cherubiniano Les
deux journées. La vitalità del genere, del resto, si misura anche col fatto
che vi appartengano opere assai più tarde come Carmen e Manon.
[44] Cfr., per tutta questa parte, Gerhard Dietel,
Musikgeschichte in Daten, Kassel, Bärenreiter, 1994, pagg. 508-573.
[45] Siate avvinti, o milioni!
/ Questo bacio a tutto il mondo!
[46] Noi vogliamo con fiducia
/ contare sull’aiuto di Dio! / La speranza dolcemente mi sussurra: / saremo
liberi, troveremo pace.
[47] Parlate piano! State
calmi! / Siamo spiati da orecchi e da sguardi.
[48] Pracarri |soldati francesi|
che scappate dalla Lombardia / se vi danno qualche momento di guardare indietro
/ date un’occhiata e fate mente con che allegria / si festeggia questo vostro
san Michele |29 settembre, data di scadenza
degli affitti, a Milano|. // E sì che tutto il mondo sa che andate via /
per lasciare il posto ad altri forestieri / che per quanto fossero pieni di
cortesia / vorranno anche loro roba e danari. // Ma ne avete fatte mò tante
voialtri furfanti / col ladroneggiarci e e accopparci gente su gente / col pelarci,
tribolarci, cacarci addosso, // che alla fine ci avete ridotto al punto puttana
/ di non potere neanche essere indifferenti / sulla scelta del boia che ci
scanna. (Gli osannatori attuali della guerra in Iraq sono serviti)
[49] No, non v’inginocchiate più come schiavi, / (i prigionieri si alzano) / la rigidezza
del tiranno mi stia lontana. / Cerca il fratello i suoi fratelli, / e se può
aiutare, aiuta volentieri.
[50] Chiunque tu sia, voglio
salvarti, / per Dio, no, non sarai una vittima.
[51] D. Arasse, Le théâtre de la guillotine: la leçon des
images, in AA. VV., Lo spettacolo
della Rivoluzione francese, a cura di P. Bosisio, Roma, Bulzoni, 1989,
pagg. 207-208, cit. da Roberto Tessari, Teatro
e spettacolo nel Settecento, Roma.Bari, Editori Laterza, 1997, pagg.
295-206.
[52] Nouveau tableau de
Paris, voll. 6, Paris, Pougens et Cramer, 1798, vol. II, p. 150, cit. da R. Tessari.
Cit., pag. 216.
[53] Cfr. Giorgio Agamben, Homo sacer, Torino, Einaudi, 1995.
[54] La verità osai
arditamente dire, / e le catene sono la mia ricompensa.
[55] Anton Schindler, Biographie von Ludwig van Beethoven, Münster, 1840, pag. 58. Cit.
da Giovanni Biamonti, Catalogo
cronologico e tematico delle opere di Beethoven comprese quelle inedite e gli
abbozzi non utilizzati, Torino, ILTE, MCMLXVIII, pagg. 479-80.
[56] Rielaborazione della
“TABLE I: The Gaveaux and Beethoven versions of Fidelio (Leonore)” della
voce Fidelio del Grove, Opera, cit.
[57] Attenzione! opéra in francese è maschile.
[58] Oh amici, non questi
suoni! Nona Sinfonia, IV, battute
216-221.
[59] Sfogherò la mia vendetta!
/ Te, te chiama il tuo destino! / Nel suo cuore scavare…
[60] William Kinderman, Beethoven, Oxford
University Press, 19972, pagg. 20-27.
[61] WoO significa Werk ohne
Opus, opera senza numero d’opera.
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