sabato 10 settembre 2016

Beethoven, il teatro



DINO VILLATICO

BEETHOVEN

Musiche per la scena

E quand’anche l’arte si limitasse a questo, a porre di fronte all’intuizione il quadro delle passioni, e quand’anche addirittura le lusingasse, vi è già in ciò una capacità di addolcimento, in quanto viene per lo meno portato a coscienza nell’uomo ciò che altrimenti egli è solo immediatamente. Poiché ora l’uomo osserva i suoi impulsi e le sue inclinazioni, e mentre prima questi lo avevano irriflessivamente travolto, ora egli li vede fuori di sé ed incomincia a sentirsi libero nei loro confronti poiché gli si contrappongono come qualcosa di oggettivo.

G. W. F. Hegel[1]


Coloro che continuano a ragionare in termini di “teatralità”, che credono, cioè, che esitano dei requisiti capaci di abilitare un’opera alle scene, mancando i quali l’opera sarebbe pura letteratura, magari alta, ma non teatro, coloro che credono che tali requisiti possano essere individuati attraverso la sola lettura dell’opera, non solo proiettano nel passato il poco teatro che conoscono, come se fosse l’unico teatro possibile, ma perdono il senso storico della dialettica fra teatro vigente e teatro potenziale.

Claudio Meldolesi, Ferdinando Taviani[2]


1.  Le riflessioni di Adorno[3].

Quanto segue sono frammenti dai frammenti del libro mai compiuto di Adorno su Beethoven. Ciascuno di essi si presta a numerose e feconde riflessioni, a integrazioni, contraddittori, confutazioni, entusiasmi. Mai, come in queste pagine, il pensiero musicale beethoveniano è stato meglio indagato appunto come vero e proprio pensiero. La musica di Beethoven tende infatti a stabilire con capillare precisione la costruzione dei procedimenti formali, al punto che la precisione di tali procedimenti sembra coincidere, analogicamente, con la precisione semantica del linguaggio. Come se Beethoven avesse scoperto una doppia articolazione della musica equivalente alla doppia articolazione del linguaggio[4]. Non aveva tutti i torti Wagner nell’individuare nella musica di Beethoven una volontà di dire, ma tale volontà non va nella direzione del dramma, o non solo nella direzione del dramma, bensì in quella del pensare. Non che fosse ignota ai musicisti precedenti la capacità della musica di evocare l’extramusicale, di farsi rappresentazione, imitazione, di un fenomeno naturale o di un moto dell’animo. Vicino a Beethoven, si pensi solo alla mirabile introduzione della Creazione di Haydn (musicista molto più intellettuale, di quanto storici e critici abbiano creduto e voluto supporre). Pagina che deve essere rimasta impressa a lungo nella mente di Beethoven, insieme all’introduzione dell’ultima Sinfonia in re maggiore, la cosiddetta London. La loro suggestione feconderà l’attacco della Nona. Dramma e pensiero, anzi, per Beethoven sono complementari, inscindibili. In ciò rivelandosi vero erede di una tradizione teatrale tipicamente tedesca: quella di Lessing, Schiller e Goethe, tanto per intenderci[5].
Le riflessioni di Adorno costituiranno dunque il punto di partenza del nostro viaggio nel teatro di Beethoven[6].

29, 4. La chiave per comprendere l’ultimo Beethoven consiste probabilmente nel fatto che in questa musica la presentazione della totalità come già compiuta divenne insopportabile per il suo genio critico. La via materiale presa da questa consapevolezza all’interno della musica di Beethoven è quella della contrazione.

30. Il procedimento critico di Beethoven, la famosa “autocritica” deriva dal senso critico della musica stessa, il cui principio è in sé la negazione immanente di tutte le sue posizioni. Non ha nulla a che fare con la psicologia di Beethoven.

31. … Forse anche in Beethoven la necessità è quella prodotta soltanto dalla coscienza, in un certo senso una necessità di pensiero. … L’arte è più reale della filosofia poiché dichiara l’identità come apparenza[7].
A questo riguardo cfr. l’appunto su Rembrandt in questo quaderno:
“Con questo finisce il desiderio di tutto il mondo”. Sull’autoritratto di Rembrandt alla Frick Collection: in questo quadro mi sembra fissata un’esperienza borghese originaria. Si potrebbe quasi chiamarla l’esperienza della legge del valore. Scambio degli equivalenti significa qui: non esiste nessuna felicità che non si debba pagare con la stessa quantità di dolore. Conoscere la vita significa qui: sapere che a ogni desiderio di felicità viene presentato il conto. Il pittore è però colui il quale si dimostra ancora all’altezza di questa esperienza. La sua fortuna è quella di partecipare al bilancio della felicità che non lascia nulla in avanzo. Lo sguardo stoico del medico è quello del pittore sull’oggetto. Tanta rovina quanta felicità. La forza particolare della consolazione nel rapporto da vicino, senza eccitazione - si potrebbe dire: pratico - con rovina e morte. La grandezza di quadri del genere consiste nel fatto che sono stati dipinti al cospetto della loro esperienza.

49. In musica ogni particolare è ambiguo, sibillino, mitico - e il tutto è chiaro. Questa è la trascendenza della musica. Ma partendo dalla chiarezza del tutto si può identificare l’ambiguità del particolare[8].

50. Dopo un’esecuzione della Leonore n. 2 diretta da Scherchen[9] mi è diventato chiaro il seguente, forse decisivo anello di congiunzione della mia costruzione: la negazione del particolare in Beethoven, la sua nullità, ha la sua causa oggettiva nella natura del materiale: è nullo in sé, non solo nell’immanenza del movimento della forma in Beethoven[10]. Questo significa che nella musica tonale quanto più si scende in ogni particolare, tanto più questo è mero esemplare del suo concetto. Una triade minore espressiva dice: io sono qualcosa, voglio dire qualcosa, ma è solo il suono qui presentato, per così dire eteronomo (cfr. a questo proposito l’osservazione di Beethoven sull’effetto dell’accordo di settima diminuita utilizzato abilmente, che viene erroneamente attribuito al genio naturale del compositore[11]). L’autonomia di Beethoven non può sopportarlo: è proprio il punto in cui si concretizza musicalmente la categoria dell’autonomia. Egli trae la conseguenza da due cose, dall’aspirazione del particolare a essere qualcosa e dalla sua effettiva nullità. Il suo significato viene salvato dalla sua nullità: il tutto in cui perisce realizza il significato - proprio questo - che il particolare attribuisce erroneamente a sé. Questo è il nucleo della dialettica di parte e tutto in Beethoven. Il tutto mantiene la falsa promessa del particolare.

53. La nullità del particolare, il fatto che il tutto significa ogni cosa e - come alla fine dell’op. 111 - retrospettivamente evoca in quanto compiuti, dettagli che non sono mai esistiti, resta una questione centrale di ogni teoria su Beethoven. Qui c’è in sostanza il fatto che non esiste nessun valore “di natura” e che esso è dovuto soltanto al lavoro. Si uniscono qui motivi protoborghesi (quello ascetico) e critici: il superamento del momento individuale nella totalità. In Beethoven il particolare deve rappresentare sempre la materia naturale non lavorata, in certo qual modo preesistente:da qui le triadi[12]. Proprio la sua non qualificazione (a differenza del materiale altamente qualificato del romanticismo) rende possibile il completo superamento nella totalità. La negatività del principio viene alla luce nei temi diatonici di natura, nei falsi fenomeni primordiali di Wagner. In Beethoven è possibile:
1) grazie all’omogeneità del materiale. Nei suoi più piccoli tratti ogni cosa si differenzia grazie alla parsimonia del tutto. La banalità vale sempre solo relativamente ad un principio già contrapposto al materiale divenuto banale.
2) in Wagner ciò che è nullo deve significare qualcosa in quanto individuale; in Beethoven mai[13].
Il più grande esempio relativo a questo argomento è l’inizio della ripresa dell’Appassionata (I tempo, b. 151). Se isolato, non è affatto convincente. In relazione allo sviluppo, uno dei grandi momenti della musica.

84. Ad[14] Beethoven e rivoluzione francese: … NB Il rapporto di Beethoven con la rivoluzione francese va colto in concetti tecnici, determinati. Vorrei fissare un punto: Beethoven si comporta nei confronti delle forme in maniera assai simile alla rivoluzione francese, che non ha creato una nuova forma di società ma ha soltanto aiutato a imporsi una forma già delineata. In lui non si tratta della produzione di forme ma della loro riproduzione in base alla libertà (anche in Kant c’è un aspetto molto simile[15]). Ma questa riproduzione in base alla libertà ha almeno un tratto fortemente ideologico. Il momento della non-verità consiste nel fatto che pare venga creato un qualcosa che in verità già esiste (questo è esattamente il rapporto fra presupposto e risultato che cercavo di definire). Di qui anche l’aspetto “rozzo”: la pretesa di libertà là dove in verità si ubbidisce. L’espressione del necessario in Beethoven è incomparabilmente più sostanziale di quella della libertà, che ha sempre un qualcosa di finto (vedi gioia a comando). La libertà è reale in Beethoven solo come speranza. Questo è uno dei nessi sociali più importanti. Da confrontare ad es. “Dir werde Lohn”[16] con la fine del Fidelio. “Inafferrabilità della gioia”[17].

108. L’inizio della Leonore n. 3 suona come se fosse stato raggiunto il mare in fondo al carcere.

159. La posizione di eccellenza del primo tempo dell’Eroica. E’ davvero il pezzo di Beethoven, la più pura espressione del principio, il più accurato, l’assoluto capolavoro a cui conducono tutte le opere precedenti. Forse uno degli impulsi più essenziali di Beethoven è quello di non ripetere questo pezzo. Qui bisognerebbe aggiungere osservazioni dialettiche su “perfezione” nell’arte[18].

172. Uno dei mezzi formali più formidabili di Beethoven è quello delle ombre. L’Andante dell’Appassionata inizia come se si piegasse sotto la forza del primo tempo e rimane lì sotto; forse questo senso della forma ha scacciato l’Andante favorì dalla Sonata Waldstein: l’introduzione al rondò, che lo sostituì, trattiene il fiato. Nell’ombra è però anche la prima variazione dell’Arietta dell’op. 111. La voce animata non osa quasi tendersi verso il tema che appare, che è. L’elemento dell’“angoscia” - l’espressione appare nell’Arioso dell’op. 110 |recte: Adagio| del Quartetto in si bemolle maggiore |op. 130, Cavatina, b. 42|, ma vale anche per l’Arioso dell’op. 110 e per il passo in mi bemolle maggiore delle variazioni sull’Arietta !bb. 119 sgg.| - ha qui il suo posto. I momenti dell’angoscia in Beethoven sono quelli in cui la soggettività “afferra” il suo essere estraneo. “Prima che voi afferriate il corpo su questa stella”[19] l’angoscia domina. Quartetto del Fidelio.

175. Come esiste un musicalmente stupido, così riguardo Beethoven - ad esempio nell’Eroica - si insinua in me un concetto del musicalmente intelligente, e questo sia nel procedimento in sé sia in una espressione. che ne deriva, cleverness, vivacità, furbizia. P. es. le interpolazioni nella I parte dello sviluppo, la cui cellula tematica appare dapprima a pag. 23 del primo tempo dell’Eroica. Occorrerebbe approfondirlo. NB qualcosa di operistico, come spesso in Fidelio. Intenzione di ciò che porta avanti. “Intelligenza”, come elemento soggettivo, compare per superare l’oggettiva forza di gravità, la staticità della cosa stessa. “Spirito”. Affinità con il principio del dilettevole, forse perfino del galante.

176. Il contenuto della musica è trasformato in categorie sintattiche. P. es. il momento drammatico dell’Eroica - il tema con le semicrome che irrompe sull’accordo di settima diminuita |I tempo bb. 65 sgg.| - un’interruzione del secondo episodio dell’esposizione poi ripreso, una congiunzione di congiunzione, simile a una secondaria, una proposizione concessiva. Tali mezzi sono decisivi per la costruzione del nesso musicale.

198. Le ouvertures da concerto rappresentano spesso un’ulteriore semplificazione rispetto allo stile sinfonico. L’oggetto poetico non porta in Beethoven a una pittura lussureggiante, bensì, proprio all’opposto, conduce a una riduttiva drasticità a scapito dei caratteri di mediazione. Spoglia antiteticità: da nessuna parte l’elemento classicistico è più forte che qui. L’ouverture del Coriolano, anche quella dell’Egmont sono in Beethoven come movimenti sinfonici per bambini. Un po’ così è Guglielmo Tell. Perciò emergono qui un effetto convincente, ma anche certe debolezze di Beethoven, che egli altrove ha grandiosamente dominato. Quindi, carattere decisivo di questi pezzi per il momento critico nei confronti di Beethoven. Una certa rozzezza, incompiutezza del dettaglio à la Haendel e quindi qualcosa di vuoto. (Soprattutto l’ouverture dell’Egmont, nonostante l’impronta lucida,, o a causa di essa, profondamente insoddisfacente). La forza convincente del sinfonico assume qui qualcosa di brutale, tedesco, ostentato, perché in certo qual modo le manca il materiale di cui potrebbe occuparsi. Si mostra l’intreccio del lucido e pomposo, usurpatorio nell’Empire. Cfr. soprattutto la parte in fa maggiore, 4/4, dell’ouverture Egmont |Allegro con brio; Eulenburg, partiturina, pp. 34 sgg.| dove la semplificazione porta alla rozzezza da fanfara. Ancora trionfo senza conflitto. Una coda di questo tipo presupporrebbe uno sviluppo molto più dialettico - invece quello di questo pezzo è solo accennato[20].

310. Ciò che è davvero caratteristico in Schumann - e poi in Mahler e Alban Berg - è il non-potersi-trattenere, il regalarsi via, il buttarsi via. Il principio romantico significa qui abbandonare il carattere di possesso dell’esperienza, addirittura l’Io. La nobiltà ha qui un contenuto non ideologico: il disgusto per il carattere privativo del privato. Si sente per così dire lo sfruttamento fin nel principium individuationis e ci si allontana. In Schumann la coscienza è giunta molto vicino a questo. Così, sulle parole “anche se il mio cuore dovesse spezzarsi, spezzati, o cuore, che importa”[21] (il testo di Frauenliebe und -leben, che provocò lo scherno borghese, ha un profondo significato. “Masochismo” non dice abbastanza. L’identificazione con la donna mira a un comportamento che dichiara guerra al carattere di appropriazione del patriarcale e del maschile, Hölderlin ha tratti simili. Forse è proprio qui l’idea del Biedermeier).  Oppure, espresso in modo immediato negli scritti di Schumann: “La ricchezza della gioventù. Ciò che so lo getto via; ciò che possiedo lo regalo. Florestano”. Questo motivo si trova però allo stato più puro nella Fantasia in do maggiore, il cui ultimo tempo è del tutto simile al lasciarsi-spingere-in-mare. Nella differenziazione di questo gesto rispetto a quello wagneriano così simile, naufragare, affondare, inconsapevolmente, suprema letizia[22] è quasi racchiusa la verità filosofica. La differenza tra interiorizzazione ed ebbrezza dei sensi è davvero troppo convenzionale per arrivarci. Schumann è molto meglio che interiore. Il gesto è soltanto molto discreto: prendo congedo. Non vorrei disturbare di più (borghese. Schumann è tanto migliore di Wagner quanto è più borghese). La morte è il togliersi un peso (anche in Schubert), l’abbandonare se stesso perché non si può sopportare l’ingiustizia della vita, ma non l’identificarsi con l’ingiustizia della morte. Vi è piuttosto un momento di fede, che però non ha nulla a che fare con la fede nel potere di ciò che esiste - del destino - ma risiede nella teologia.
Proprio questo tratto segna un limite di Beethoven o un momento in cui il romanticismo lo supera effettivamente. L’opera rappresentata da Beethoven è quella che si trattiene. Nella sua totalità vi è la positività del possesso, che supera la negatività di tutti i singoli momenti. Il suo sigillo espressivo è l’ostinazione - cui però è collegato l’umano. L’umano in Beethoven è connesso con la misura come nel Goethe vecchio. “Potessi mai ricompensarti!”[23]. Schumann è privo di misura, se non può ricompensare dà se stesso. E però resta di nuovo indietro rispetto a Beethoven perché per così dire si rende il mondo troppo facile. Questa riflessione dialettica rappresenta il presupposto per comprendere l’ultimo Beethoven.[24]

364. Oggi non c’è più l’esperienza dell’addio: essa sta alla base dell’humanitas: presenza del non presente. Humanitas come funzione di rapporti di circolazione. E: esiste ancora speranza senza addio?[25]

2. Il teatro tedesco, tra settecento e ottocento[26].

Il movimento dello Sturm und Drang prende la sua denominazione non a caso da un’opera teatrale, il dramma di Klinger, del 1777.  Ma nel 1774 era uscito il romanzo di un giovane scrittore di  Francoforte appena venticinquenne, che avrebbe cambiato la scrittura romanzesca europea: I dolori del giovane Werther. Johann Wolfgang Goethe, nel suo romanzo, vuole già rappresentare il mondo, la totalità del mondo in cui si sente immerso, e parte da qui: dall’analisi di un disagio, o, come scrisse, di una “malattia”. Il suo teatro era ancora più innovativo. A parte l’abbozzo del Faust, una commedia come Stella, del 1775, porta sulla scena l’inadeguatezza, o piuttosto la labilità, fino alla crisi estrema del fallimento di qualunque rapporto d’amore, fondato com’è sempre sulla sostanziale incomunicabilità degli uomini tra loro. Il vincolo sociale appare allora, al giovane Goethe, edificato sulla convenzione di una specie di patto di convivenza e di reciproca tollerabilità, patto che viene messo in crisi ogni volta che uno dei soggetti venga invaso e posseduto da qualche passione. Ovvio l’influsso di Rousseau, e più ancora di Herder, ma la visione goethiana dei meccanismi sociali è assai più articolata e meno manichea di quella del filosofo ginevrino. Tornando alla commedia, più che conteso da Cecilia e da Stella, Fernando si riconosce incapace di scegliere tra le due donne alle quali è appartenuto: è stato, infatti, prima l’amante di una, Cecilia, e poi dell’altra, Stella. Il dovere sociale entra in conflitto con la scelta individuale della felicità o, più prosaicamente, del proprio egoistico piacere. L’indecisione, o piuttosto l’ incapacità di assumere un ruolo definito nei confronti delle due donne, il che equivarrebbe a scegliere la convivenza con una delle due e a escluderne l’altra, arriva al punto che Fernando pensa di abbandonarle entrambe, perché si sente inadeguato ad affrontarle simultaneamente, e a prendere una decisione che comporterebbe la felicità di una a prezzo dell’infelicità dell’altra. Esse decideranno allora di restare entrambe sue. Ma non è una conclusione. E’ la sospensione di una conclusione. Il ménage à trois dispiacque naturalmente alle autorità civili e religiose del tempo, la commedia venne tolta dalle scene. Pubblicata nel 1776, dovette essere immaginata e scritta l’anno prima, vale a dire un anno dopo il Werther. Ma è il segno dell’alto grado di tensione della scena tedesca negli ultimi decenni del secolo XVIII. Goethe, con finale cambiato, fa rappresentare Stella a Weimar nel 1806. Nel frattempo c’era stato il viaggio in Italia e il vincolo d’amicizia e di collaborazione con Schiller. Il nuovo finale è tragico. Fernando si tira un colpo di pistola alla testa, come Werther, e Stella si avvelena. Cecilia, e sua figlia Lucia, restano così un’altra volta sole. Il finale tragico rende palese ciò che il finale lieto mascherava con l’allegoria dell’amore equamente diviso tra tutti e tre. Di fatto nessun personaggio ama realmente chi crede di amare, ma ciascuno ama un fantasma del proprio desiderio d’amore: tutti e tre colgono l’attimo di un piacere intenso, lacerante, il cui ricordo è il “risarcimento” della reale solitudine in cui vivono (lo dice Cecilia, parlando della Natura, ma riferendosi di fatto al proprio sentimento d’estraneità al mondo). Ora, quell’attimo intensissimo, fulminante, di piacere è lo stesso che, nelle Affinità Elettive, Edorado e Carlotta afferrano l’uno nelle braccia dell’altra, immaginando però, e sentendo, ciascuno, tra le braccia, non il corpo del consorte, bensì quello invano desiderato dell’amato Capitano, da parte di Carlotta, e dell’amata Ottilia, da parte di Edorado. Un amplesso tra marito e moglie diventa pertanto, nella fantasia e nei sensi di chi lo compie, l’adulterio
fortemente desiderato da entrambi, ma respinto e rimosso per il rispetto, non ipocrita, bensì sinceramente sentito da entrambi, delle regole sociali. E se il maschio, Edoardo, presto soccombe all’impeto della passione, la donna, Carlotta, resta salda nella difesa e protezione del vincolo coniugale, soffrendo ancora più del marito, perché anche l’attrazione era da lei sentita con maggiore violenza. In questo modo, i legami e le attrazioni degli elementi naturali paiono a Goethe il sostrato dei legami e delle attrazioni che sconvolgono la vita emotiva degli uomini, i meccanismi della chimica si fanno specchio dei meccanismi delle passioni. Sembrerebbe dunque possibile controllarli, regolarli. Ma è un non fare i conti con l’imprevedibilità dei casi. Il figlio di Edoardo e Carlotta, nato con gli occhi del Capitano e il viso di Ottilia - tanto il pensiero di una passione può influire sul seme e sull’ovulo di due coniugi, da fargli commettere adulterio nell’atto stesso con cui assolvono al loro dovere coniugale - il figlio che testimoniava l’illiceità di quell’atto, muore annegato nel lago, cadendo in acqua proprio dalle braccia di Ottilia.
L’irrequietezza, la spregiudicatezza della rappresentazione teatrale e romanzesca nella Germania preromantica è dì un livello d’incandescenza inimmaginabile altrove: eppure le sue radici sono francesi. E del resto, quanto a spregiudicatezza, il romanzo francese non è da meno. Due sono in Germania i centri teatrali principali, e in tutt’e due le città a capo del teatro c’è una figura tra le più rappresentative della cultura, della poesia, del romanzo e del teatro tedesco: Lessing ad Amburgo (dal 1767 al 1769) e Goethe a Weimar (dal 1791 al 1817). La loro funzione è quella di Dramaturg, una figura ignota in Italia e in Francia. Il loro compito non è solo scrivere testi per la scena, ma scegliere anche nuovi testi, curarne l’allestimento, scegliere e preparare gli attori, dirigerne la recitazione[27]. Una sintesi dunque di funzioni negli altri paesi separate: scrittore, amministratore, regista, scenografo, attore (Goethe prendeva parte ai suoi spettacoli, ammiratissimo, anche come attore: recitò per esempio la parte di Oreste, a Eltersburg, il 6 aprile 1779, nella prima versione, in prosa, dell’Ifigenia in Tauride): personaggi come Wagner, Piscator, Reinhardt, lo stesso Brecht, non si capiscono bene se non si comprende anche il molteplice ruolo di Dramaturg che rivestivano in tutti i teatri dove operavano. Tanto Lessing che Goethe, inoltre, guardano come a un modello, sentito attualissimo, al teatro di Shakespeare. Wilhelm Meister, il protagonista del romanzo omonimo, è, oltre che un giovane di cui il romanzo racconta la formazione, come dice Goethe, l’“apprendistato”, è prima di tutto un uomo appassionato di teatro e l’apprendistato al quale deve sottomettersi è appunto un apprendistato teatrale, in cui riconosce via un apprendistato della vita, la sua formazione teatrale viene perciò a coincidere con la sua formazione esistenziale, la sua educazione alla vita[28]. Ebbene, proprio nelle pagine del Meister leggiamo la prima, e più profonda, interpretazione moderna del personaggio di Amleto.
Ma non sta tanto nella cura messa nell’allestire gli spettacoli la novità dell’agire di Lessing e di Goethe, quanto piuttosto nell’innalzamento dello spettacolo a dignità culturale. La rivoluzione di Lessing, continuata da Goethe, sta infatti nell’attribuire alla rappresentazione teatrale la stessa importanza culturale ed estetica della pagina stampata. Anzi, il salto di pensiero compiuto da entrambi è proprio nel considerare teatro la rappresentazione, non il testo. Certo che il testo è anche letteratura, anche poesia. Ma la sua vera realizzazione, l’estrinsecazione più efficace della sua sostanza letteraria e poetica si ha sulle scene. Sono già qui le radici del pensiero teatrale di Wagner. Ma, prima di Wagner, anche di Beethoven. E’ il  nodo di questa ricerca: leggere il Fidelio come grande opera di teatro. Contrariamente alle critiche mosse da più parti alla sua struttura drammatica, il Fidelio, e si cercherà di dimostrarlo, s’inserisce assai bene in questa stagione tedesca di sperimentalismo teatrale e anzi, ne è un anello indispensabile, come già scriveva anni fa Fedele d’Amico[29] Ma tutta l’Europa era in fermento, anche l’Italia, altrimenti non si spiegherebbe un fenomeno come Rossini. In Inghilterra poi il teatro stava compiendo una evoluzione ancora più radicale, ma simile a quella tedesca. Del resto gli spettacoli di attori inglesi in Germania erano comunissimi. L’attore, a differenza dell’Italia, dov’è pur sempre poco più di un guitto (il che non esclude, anzi quasi le reclama, singole figure significative già nel primo settecento, come, per esempio, l’attore Lelio, vale a dire Luigi Riccoboni, che emigrato in Francia diventa il portavoce di Marivaux), l’attore, dunque, in Germania, in Francia, acquista prestigio culturale, è anche un intellettuale, è ammirato oltre che per la sua bravura anche per la sua cultura (già durante settecento: la grande attrice Adriana Lécouvreur, colei che ha inventato la recitazione moderna parlata, invece che declamata, era amica di intellettuali e di uomini di potere, amica, tra gli altri, di Voltaire, e veniva favorevolmente accolta dai migliori salotti di Parigi; proprio la sua frequentazione dei philosophes, assai più del fatto che fosse un’attrice, le meritò l’avversione della Chiesa, che volle il suo cadavere sepolto fuori della terra consacrata di un cimitero, condanna che indignò Voltaire). In Inghilterra, ancora oggi, il Re può innalzare un attore, proprio per i suoi meriti teatrali, al rango dell’aristocrazia conferendogli un titolo nobiliare. Si va a teatro, insomma, con la stessa disposizione d’animo con cui si legge un libro, si ammira il capolavoro di un grande pittore, si ascolta la musica di un grande compositore. Haydn ebbe a Vienna, nel 1809, funerali degni di un capo di Stato: fu lo stesso Napoleone a ordinare che fossero i più solenni e degni del grande uomo che scompariva con lui. Ma già due decenni prima, a Londra, Haydn aveva avuto accoglienze trionfali, e n’era stato commosso, a vedersi onorato con gli onori che si danno a un generale d’armata, a un uomo di stato. Si pensi invece al nostro povero Cimarosa, costretto a lasciare Napoli e a rifugiarsi in varie città, perché colpevole di avere ammirato Napoleone. Alla fine, malato e senza soldi, muore solo come un cane a Venezia: eppure era stato l’unico compositore italiano a capire la novità e la grandezza di Mozart. Ma la classe dirigente italiana, da sempre classe di un paese dalle abitudini servili, non ha mai perdonato la libertà d’opinione né sopportato che qualcuno tra i suoi amministrati osasse pensare con la propria testa.
 La ferita che Goethe incide sulla pagina, o infligge sulla scena, è’ la ferita, ancora aperta, inflitta al lettore del suo romanzo dal suicidio di Werther. Ci fu subito un equivoco. Goethe aveva steso l’analisi di una malattia: ma il malato venne, impropriamente, scambiato per un eroe. Il punto, dunque, che forse Goethe aveva sottovalutato, non come scrittore, bensì come scrittore che si rivolge a un pubblico di lettori, dei quali i più giovani erano malati proprio della stessa malattia di Werther, stava forse nel fatto che quella malattia aveva un fondamento reale nel disagio intellettuale, politico, sociale di chi guardasse senza illusioni al caos di quegli anni (e il caos rivoluzionario era ancora là da venire: ma Goethe e i suoi amici, come vedremo, lo avevano colto in anticipo, e in ogni caso l’ingiustizia sociale feriva gli animi più sensibili e le menti più pensanti). La commedia Stella, riscritta più tardi come tragedia, cerca pertanto una conciliazione utopica, o piuttosto una fuga fantastica, fiabesca, nell’irreale mondo dei desideri appagati, proprio il mondo che Goethe sa irrealizzabile, riconoscendo nella nostra società il mondo dell’inconciliabile (nel Fidelio si riconosce la stessa dialettica!). “Noi siamo tue”, dice Cecilia a Fernando, e si riferisce a se stessa e a Stella, le due donne tra cui l’uomo non sa scegliere. L’inadeguatezza sta in questa indecisione: davanti alla vita, davanti all’obbligo di una scelta, l’uomo, e dovremmo dire il maschio, sceglie la fuga. La vera scelta perciò la compiono le donne, come avverrà più tardi nella più matura Ifigenia in Tauride (stesura definitiva, in versi, nel 1787, dopo una prima rielaborazione nel 1780, e un’altra, di nuovo in prosa, nel 1781). Anche in Fidelio, guarda caso, a sciogliere il nodo drammatico è una donna. Beethoven era un ammiratore incondizionato e un lettore accanito di Goethe, sicuramente conosceva l’Ifigenia e molto probabilmente anche Stella[30]. Ma il finale conciliante, con la proposta, non solo allora, e non solo per i benpensanti, scandalosa, di un tranquillo e sereno ménage à trois (lo scandalo stava, e sta, forse, più nel fatto che lo si propone tranquillo e sereno che nel fatto di accettare un rapporto amoroso tra due donne e un uomo) dispiacque, come s’è detto, alle autorità religiose e civili di Weimar e Goethe fu costretto a sostituire la soluzione lieta con una soluzione tragica del conflitto (vale a dire a lasciare il conflitto insoluto, e ideologicamente insolubile: ideologicamente, perché ne veniva esclusa l’unica soluzione reale), col suicidio dell’uomo e dell’amante: dove il lato più tragico non è la morte dei due amanti, ma la solitudine della moglie, Cecilia, inutilmente conciliante. Ma cerchiamo di mettere un po’ d’ordine e di configurare i confini del rinnovamento teatrale tedesco.
Prima di tutto alcune date.
1764, Minna von Barnhelm di G.E. Lessing;
1772, Emilia Galotti di G. E. Lessing;
1773, Götz von Berlichingen di J. W. Goethe
1774, oltre a pubblicare Die Leiden des jüngen Werther[31], e a cominciare la prima stesura del Faust (il cosiddetto Urfaust), Goethe scrive Clavigo, una cupa storia d’intrigo amoroso tratta dalla vita del Beaumarchais, l’autore delle tre famosissime commedie che ruotano intorno al personaggio di Figaro: Il barbiere di Siviglia, Le nozze di Figaro e La madre colpevole;
         Der Hofmeister oder Vortelle der Privaterziehung[32] di J. M. R. Lenz;
1775, Stella di J. W. Goethe (prima versione, col finale lieto);
         Der leidende Weib[33] di F. M. Klinger;
1776, Die Soldaten[34] di J. M. R. Lenz;
         Die Zwillinge[35] di F. M. Klinger;
         Julius von Tarent[36] di J. A. Leisewitz;
1777, Sturm und Drang di F. M. Klinger;
1779, Nathan der Weise di G. E. Lessing;
         Iphigenie auf Tauris[37] di J. W. Goethe (prima versione, in prosa);
1781, Die Räuber[38] di J. C. F. Schiller.
Si disegna un percorso intricato e complesso: dalla distanza quasi sapienziale, profondamente ironica e tuttavia eversiva, di Lessing, al furore giovanile di Schiller, coevo del raggiunto equilibrio classico di Goethe. Tuttavia un grande teatro, proprio perché irruente, contraddittorio, lancinante, vertiginosamente utopistico e ciononostante profondamente radicato nella realtà del proprio tempo, il teatro tedesco del tardo settecento anticipa tutte le contraddizioni del successivo teatro europeo. Inutile dire che, a parte la luminosa figura di Lessing, i drammi più significativi appaiono oggi quelli di Goethe e di Schiller. L’idea che si vorrebbe qui suggerire è che il Fidelio di Beethoven, opera di grandissimo teatro, s’inserisce in questo filone, ma contemporaneamente, anche, con un occhio più che spalancato sul teatro rivoluzionario francese. L’occhio alla Francia, del resto, non lo chiudono nemmeno gli Stürmer. Goethe meno che mai. Per comprendere questa relazione, bisognerà fare lo sforzo, difficile soprattutto per un italiano, di non considerare il teatro musicale un settore separato del teatro. Esso anzi, almeno in Germania, ma anche in Francia, è immerso nel clima di un’epoca che mescola tutte le carte teatrali: per il Goethe del Wilhelm Meister sono teatro anche i funambolismi e le acrobazie dei saltimbanchi (sarebbe dovuto arrivare il secolo xx, e Picasso!, perché si comprendesse la profonda verità dell’intuizione goethiana). Ma non a caso, più tardi, nel 1819, Giovanni Berchet, sul “Conciliatore”, introdurrà, in un dialogo sul teatro “romantico”, il coreografo Salvatore Viganò a difendere la legittimità teatrale del balletto: e si trattava di una ripresa milanese delle Creature di Prometeo di Beethoven!

3. Il teatro francese tra settecento e ottocento.

Il teatro francese del declinante sec. XVIII e dei primi decenni del secolo successivo non conta tra i suoi testi capolavori paragonabili a quelli del coevo teatro tedesco, di cui pure in qualche modo è il modello, e tuttavia è proprio il teatro francese a porsi come esemplare punto di riferimento del teatro europeo, in particolare il teatro musicale, che venne ad assumere quasi un ruolo di guida per qualsiasi genere di teatro. In particolare l’opéra-comique[39], che finì col porsi come il tipo ideale di teatro rivoluzionario e borghese, il che non sarà di poco peso per la successiva evoluzione del genere, fino alla Carmen compresa. Un semplice elenco può illustrarne l’incidenza, la frequenza e l’importanza.
L’avventura della Tragédie può dirsi conclusa con l’Iphigénie en Tauride di Gluck nel 1779, anche se due anni dopo Piccinni, sempre a Parigi, fa rappresentare a sua volta una sua versione musicale, su diverso libretto, della stessa tragedia che Guimond La Touche aveva mandato in scena nel 1757 al Théâtre-Français, traendone l’argomento dalla quasi omonima tragedia di Euripide[40]. La tragedia di Guimond La Touche riscosse un notevole successo e restò in repertorio fino al 1831. Quanto al rinvio della prima dell’opera di Piccinni, esso è dovuto alle pressioni dello stesso Gluck, che fece prevalere, a ragione, il proprio diritto di precedenza, dato che l’opera gli era stata commissionata prima che a Piccinni. La scena tragica, in musica, percorrerà, però, dopo Gluck, ma anche dopo Piccinni, dopo Salieri, Traetta, Jommelli, e perfino dopo Cimarosa, altre strade. Già in qualche modo prefigurate dalla Clemenza di Tito mozartiana. Vale a dire, attuando l’innesto delle forme dell’opera buffa nel corpo del melodramma tragico. Il processo può darsi definitivamente attuato con Rossini. Ma, anche in questo, il teatro musicale tedesco percorre una sua strada singolare, parallelo a quello dell’opera italiana, della quale, comunque, pur tenendosi a distanza, non rifiuta a priori modelli e strutture, ma avvertendo, come sempre, fin da Telemann e Bach, una maggiore affinità e sentendosi più in sintonia con la musica e con il teatro francese.
Prima della vampata rivoluzionaria, che sconvolge tanto la scena musicale che quella teatrale, il teatro “parlato” francese offre, però, la rappresentazione di due testi, che presto intrattengono un rapporto strettissimo con il teatro musicale. Si tratta di due commedie, d’intrigo e d’impianto abbastanza tradizionali, ma di contenuto ideologico esplosivo (all’epoca parve anzi eversivo), entrambe dovute alla penna di un fortunato avventuriero: Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais (Parigi, 1732-1799). Il barbiere di Siviglia, 1775[41] (nella ripresa del 1785 il ruolo di Rosina è recitato dalla regina Maria Antonietta), e Le nozze di Figaro, 1784, 27 aprile, un trionfo[42]. Paisiello compone il suo Barbiere nel 1782, sette anni dopo la prima parigina della commedia, e Mozart le sue Nozze nel 1786, appena l’anno dopo la rappresentazione parigina, e la pubblicazione del testo. Segno d’un clima intellettuale ed emotivo che si respirava nell’aria: l’opera di Paisiello venne scritta per il teatro di Pietroburgo. La grande Caterina, del resto, non nascondeva le sue simpatie per Voltaire e per i philosophes. Il dibattito teatrale trovava dunque immediato riscontro anche sulla scena del melodramma. E sarà così fino a Ottocento inoltrato; dopo Wagner, anzi, è la scena musicale a offrirsi come modello del teatro parlato, anzi del teatro tout court. Ebbene, tale identificazione, tra teatro musicale e teatro parlato, trova una sua prima affermazione proprio nel teatro francese degli anni rivoluzionari. E ne è genere conduttore l’opéra-comique, in cui parola recitata e parola cantata si pongono come forme complementari della strutturazione drammatica. Proprio per influsso dell’opéra-comique, già prima della rivoluzione, il Singspiel tedesco subisce una radicale trasformazione per opera di Mozart: in tal senso Il ratto dal serraglio è una pietra miliare del teatro tedesco, senza la quale non ci sarebbero né Il flauto magico, dello stesso Mozart, né il Fidelio, né Il franco cacciatore, né perfino Wagner[43].
Ma sono altri, e d’altro genere, i titoli che determineranno un cambiamento di repertorio e di gusto, nel teatro musicale francese, durante la rivoluzione. Titoli che al pubblico di oggi dicono forse poco, tranne qualcuno, ma che invece attuarono un vero e proprio ribaltamento del gusto in tutta Europa, Italia compresa.
Eccone un sommario elenco cronologico, comprese le musiche di circostanza, che tanto peso avranno per la formazione di certi stilemi di marcia beethoveniani, ma anche per le numerose marce che animano il teatro rossiniano.

1790       François-Joseph Gossec, Te Deum. Rielaborazione di una partitura del 1779, composta per i Concerts Spirituels di Parigi, interamente trasformata per la Fête de la Fédération al Champ de Mars in occasione del centenario della presa della Bastiglia. E’ il primo esempio di musica celebrativa, solenne, grandiosa e fastosa: oltre mille uomini nel coro, una grande orchestra di fiati, bande de tambours e pièce d’artillerie. C’è già il modello del beethoveniano Wellingtons Sieg, oder die Schlacht bei Vittoria (La vittoria di Wellington, o la battaglia di Vittoria),
1791                                          Luigi Cherubini, Lodoïska. Reca il sottotitolo di comédie-héroïque. La partitura fu a lungo, per Beethoven, un livre de chévet.
1792        Claude-Joseph Rouget de l’Isle, La Marseillaise.
                Ignaz Pleyel, La Révolution du 10 Août 1792, ou le Tocsin allégorique. Immenso l’apparato strumentale. Coro a 4 voci, orchestra, trombe, tamburi e pifferi, 7 campane e cannoni. Citati e contrapposti, una melodia di Grétry (“Ô Richard, ô mon roi”), come canto dei realisti, e il canto rivoluzionario “ça ira”.
               François-Joseph Gossec, Marche lugubre. Modello per Cherubini e Beethoven.
               Jean-François Lesueur, La caverne ou le repentir. Drame-lyrique in tre atti. Tipica opera rivolzionaria “à sauvetage”.
1793        Etienne-Nicolas Méhul, Chant du départ.
               André-Ernest-Modeste Grétry, La rosière républicaine ou La fête de la vertue. Opéra-comique. Si conclude con il ballo della Carmagnole
1797       Etienne-Nicolas Méhul, La chasse du jeune Henri. Brano descrittivo, nato come ouverture a un’opera perduta, su libretto di Bouilly. Alla base di composizioni simili (comprese le tre ouvertures beethoveniane intitolate Leonore) e del futuro poema sinfonico.
               Luigi Cherubini, Médée.
1799              Etienne-Nicolas Méhul, Ariodant. Opéra-comique dedicata a Cherubini. La musica è sviluppata da un motivo base., indicato dal compositore come “cri de fureur”, grido di furore. L’interesse del procedimento sta nel fatto che la drammaturgia viene costruita con una logica sinfonica. Non si tratta tanto di subordinare l’azione allo sviluppo tematico, quanto di strutturare tematicamente il procedere dell’azione. Beethoven ne tiene il dovuto conto. Ma sono anche gettate le premesse di uno sviluppo che da una parte conduce a Rossini e, trascurando Bellini e Donizetti, da questo punto di vista irrilevanti, a Verdi, dall’altra a Wagner.
1800              Luigi Cherubini. Les deux journées, ou Le porteur d’eau. E’ il modello immediato del Fidelio, quanto al rapporto tra drammaturgia e strutturazione musicale. Beethoven ha comunque già composto la sua prima Sinfonia e sta lavorando al balletto Die Geschöpfe des Prometheus (le creature di Prometeo) op. 43, la cui contraddanza finale (in realtà una danza composta in precedenza) offrirà il tema alle Variazioni op. 35 per pianoforte e al Finale dell’Eroica.
               François Adrien Boieldieu, Le califfe de Bagdad. Opera in un atto, dalle Mille e una notte.
1804              Jean-François Lesueur, Ossian, ou Les bardes. Opera in 5 atti.
1807                                         Gaspare Spontini, La Vestale. Tragédie-Lyrique in tre atti che prelude ormai al futuro grand-opéra.[44]

Ma lo spettacolo, durante la rivoluzione, non era solo quello che si andava a vedere nei teatri. Erano spettacolo le rivolte, le parate militari, l’esecuzione delle pene capitali. Anzi, proprio dalla spettacolarizzazione dei suoi momenti decisivi la rivoluzione traeva l’efficacia di una propaganda politica accattivante. Non solo ogni rappresentazione era sottoposta a un rigido controllo di censura, ancora più che nell’ancien régime. Ma i discorsi stessi degli oratori all’assemblea erano teatro. Era teatro la pittura. Ogni momento della vita pubblica era regolato da specifiche regole di scenografia e coreografia. In fondo la vocazione totalizzante e totalitaria è tipica di qualsiasi rivoluzione. Non è da ciò che si misura la reale incidenza di trasformazione di una rivoluzione, o in senso autoritario o in senso democratico. E’ indubbio che il bonapartismo fosse una sorta d’imposizione autoritaria degl’ideali rivoluzionari di libertà, uguaglianza e fraternità. E Beethoven se ne accorge subito, non tanto e non solo, durante la composizione dell’Eroica, ma anche dopo, a catastrofe avvenuta e Congresso di Vienna in atto, quando innalza un inno alla libertà celebrando l’eroismo di una donna che muore combattendo Napoleone, Leonore Prohaska. “Wir kampfen für Freiheit”, gridano i soldati che vanno a morire sul campo di battaglia, sterminati da Napoleone. Non si dimentichi che dei 600.000 uomini della campagna di Russia ne tornarono indietro solo 40.000. Beethoven visse la propria condizione di testimone, ma anche di vittima, di quella meteora, con animo lacerato. La sua sordità divenne definitiva e irreversibile proprio durante i bombardamenti di Vienna. E’ in questo clima storico che nasce la sua musica, la testimonianza forse più alta cui mai una artista, Dante compreso, abbia dato forma delle irrisolvibili contraddizioni del proprio tempo: perciò in Beethoven è tragica anche la gioia, o comunque frenetica, dionisiaca, perché non è una gioia reale, ma la speranza di una gioia, vale a dire la speranza della libertà di tutti gli uomini:

                                    Seid umschlungen, Millionen!
                                    Diesen Kuss der ganzen Welt![45]

Beethoven non rinnegò mai gli ideali repubblicani e giacobini della rivoluzione. Il che non gl’impediva di stringere amicizia con gli esponenti più in vista e più influenti dell’aristocrazia viennese, e dell’aristocrazia russa e ungherese residente a Vienna. Ma ora quella stessa rivoluzione che proclamava ai quattro venti la libertà dei popoli invadeva con gli eserciti le terre di quei popoli e li assoggettava. In tal senso l’atteggiamento di Beethoven sugli eventi rivoluzionari e la sua riflessione sulla storia non sono molto diversi da quelli manifestati da Büchner nel Dantons Tod (la morte di Danton). O, un secolo dopo, da Majakovskij, Esenin, Blok sulla rivoluzione d’ottobre. E’ in questo contesto convulso, tragico, di stragi spaventose e di ancora più spaventose repressioni, che va immersa tutta l’attività di Beethoven, compositore attento quanto altri mai ai venti del proprio tempo. E i venti del suo erano tra i più tempestosi mai registrati dalla storia d’Europa. Se non ci si immerge, anche con l’animo, e non solo con l’erudizione, in questo clima d’incandescenti passioni, di furori, di speranze frustrate, non si capisce nemmeno quanto c’è di più profondo nel furore, ma anche nella dolcezza, della musica di Beethoven. Non si comprende, soprattutto, la ferita dolorosa che le guerre napoleoniche infliggono alla sua fede repubblicana. Napoleone era il suo eroe, l’uomo ideale, e gli si rivela, invece, come ebbe a dire, “un uomo come tutti gli altri”. Beethoven è l’artista dell’umanità affratellata, ma è anche, forse soprattutto, un tedesco, fiero della propria tradizione musicale, e culturale, un tedesco erede di Lessing. L’idea che Beethoven ha della fratellanza umana non è quella di una generica universalizzazione o, come oggi si direbbe, di una globalizzazione che appiattisca tutti gli uomini in un generico esemplare di uomo. Beethoven crede che la fratellanza non schiacci l’individualità, ma la esalti. Il coro dei prigionieri, nel Fidelio, non è un coro amorfo di carcerati, ma un coro di singoli che subiscono ciascuno un diverso grado d’ingiustizia, e tutti la ingiustizia massima di essere privati della libertà. Perciò dalle voci del coro se ne distaccano due: una, di tenore, che si apre alla speranza di essere presto liberato:

                                    Wir wollen mit Vertrauen
                                    Auf Gottes Hilfe bauen!
                                    Die Hoffnung flüstert sanft mir zu:
                                    Wir werden frei, wir finden Ruh’.[46]

L’altra, di basso, dice:

                                    Sprecht leise! Haltet euch zurück!
                                    Wir sind belauscht mit Ohr und Blick![47]

Alla speranza, per lui illusoria, del primo prigioniero, costui contrappone la paura del suddito di una tirannide, la fragilità di colui che è stato seviziato, il terrore del perseguitato, la frustrazione di chi ha avuto i nervi spezzati, il panico e l’accondiscendenza della vittima. E’ un momento terribile: Beethoven sembra anticipare la situazione di un Lager. Ritorneremo su questo punto. L’episodio che dà lo spunto  a Bouilly, per scrivere la sua Leonore, fonte del Fidelio, avvenne sotto il Terrore. Recentemente, in occasione della rappresentazione di un Fidelio alla Scala, i pennitenguli da sempre ossequienti al potere di turno scrissero che Beethoven non inneggiava agli ideali rivoluzionari, ma anzi li deprecava, perché il carcere portato sulla scena era un carcere della rivoluzione. E’ una lettura deformante, non solo di Beethoven, ma anche del libretto di Bouilly per Gaveaux. Che un giudice della Repubblica, infatti, com’era Bouilly, denunci i soprusi di un governatore, sta se mai a indicare proprio la fedeltà di Bouilly a quegli ideali. Fu lui stesso ad aiutare la donna, che poi chiamò Leonore, a liberare il marito ingiustamente carcerato. Naturale che in una rivoluzione si compiano dei soprusi, ma è tipico di una vera rivoluzione denunciarli. In ogni caso il discorso sul Terrore è un discorso assai complesso che non può essere liquidato con qualche trucco ideologico, né da una parte né dall’altra. Né per deprecarlo né per giustificarlo. Torneremo anche su questo punto. Ma per Beethoven la questione era un’altra. Egli guardava alla rivoluzione dal di fuori, un po’ come Herder e come Kant.

Un poeta italiano, Carlo Porta, espresse, nei confronti della rivoluzione, sentimenti simili, mettendoli in bocca a un popolano milanese che vedeva scappare via i francesi, sapendo che però sarebbero arrivati, a sostituirli, gli austriaci:

                                    Paracar che scappee de Lombardia
                                    Se ve dan quaj moment de vardà indree
                                    Dee on’oggiada e fee a ment con che alegria
                                    Se festeggia sto voster sant Michee.

                                    E sì che tutt el mond sa che vee via
                                    Per lassà el post a di olter forastee
                                    Che per quant fussen pien de cortesia
                                    Voraran anca lor robba e danee.

                                    Ma n’avii faa mò tant violter balloss
                                    Col ladrann e coppann gent sora gent,
                                    Col pelann, tribolann, cagann adoss,

                                    Che infin n’avii redutt al punt putanna
                                    De podè nanca vess indiferent
                                    Sulla scerna del boja che ne scanna[48].

I pensieri dei soldati della Leonore Prohaska non devono essere molto diversi. “Combattiamo per la libertà”, come a dire: meglio morti che schiavi vostri. E’ uno dei canti più commoventi di Beethoven: a cappella, senza strumenti, e solo voci maschili, un unico ritmo da cima a fondo, con la consapevolezza che la morte è preferibile alla mancanza di libertà. Potrebbe essere il canto di un dramma di Brecht: ma la bellezza di Beethoven, è che il canto è cantato senza livore, e non solo per se stessi. Una bellezza la cui realtà era completamente ignota a Brecht. Si annota, per osservare e far riflettere sul fatto che il teatro di Beethoven (e dunque non solo il Fidelio, ma tutta la musica composta per la scena, in particolare quelle per l’Egmont goethiano e queste, appena ricordate, per il dramma Leonore Prohaska) nasce sempre come palcoscenico per un confronto di idee, e in ciò Beethoven non appare affatto come una figura isolata, ma s’inserisce nello sviluppo del teatro tedesco dall’illuminismo al romanticismo e ne condivide gli orientamenti, vi partecipa con animo acceso. Non sarà mai abbastanza sottolineata la preminenza che ha nel teatro tedesco, anche oggi, l’idea del dramma, da non confondersi tuttavia con una manifesta perorazione ideologica, che sarà invece più facile riscontrare, se mai, nel teatro francese e ancora più in quello italiano, proprio perché più che teatro di idee il teatro francese e italiano si pongono e vogliono offrirsi al pubblico come teatro di passioni. L’idea individuata dal dramma tedesco agisce e viene discussa dai personaggi come problema, non già come perentoria affermazione di un principio. Esemplare in ciò il Tasso goethiano (tragedia bellissima, che si amerebbe vedere rappresentata più spesso in Italia). Il dissidio che lacera il Tasso, tra passione (al limite della follia - platonicamente la matrice d’ogni più alta poesia, ma anche della filosofia) e intelletto, vale a dire riconoscimento della necessità delle convenzioni sociali e dunque cedimento all’ordine, alla regola della vita collettiva, rinunciando al disordine, alla libertà dell’impulso vitalistico soggettivo, trova un’estrinsecazione teatrale nella figura di un personaggio contrapposto, Antonio Montecatino, tutto teso al controllo razionale delle proprie passioni e dunque predisposto ad accettare le regole della convivenza civile. Ma ciò non significa che Antonio sia un personaggio privo di passioni: le controlla, il che è tutt’altra cosa. Così come il Tasso non è affatto un individuo che si abbandona sconsideratamente alle proprie passioni, ne è invaso, posseduto, spesso sopraffatto, ma non ignora la necessità di un distacco, di una calma, l’opportunità di regolarle, controllarle. L’ordine invocato, però, la regola riconosciuta indispensabile per una vita tranquilla, gli appaiono come il mondo di un sogno, l’utopia di un’umanità ideale, ma inesistente. E’ di nuovo il conflitto di Werther. Non tanto tra passione e ragione, quanto tra individuo e collettività, e, più profondamente, tra vitalità animale e linguaggio. Il tragico sta proprio in questo, nell’insanabilità del conflitto. L’esito non può essere che la sconfitta di chi lo subisce: il suicidio di Werther, la follia del Tasso. Antonio guarda precipitare l’amico nella pazzia e se ne commuove, ma sa anche che una simile commozione è impotente, sterile come qualsiasi pietà: consola e gratifica chi la prova, non salva chi ne è l’infelice oggetto. Felicità e infelicità non sono merce di scambio, sono una condizione del vivere. Il mutamento è possibile solo attraverso un atto estremo della volontà: il suicidio (Werther), la rinuncia (Faust), la solitudine (Tasso). I personaggi beethoveniani sono più compatti, ma non ignorano il conflitto, e in ogni caso c’è sempre conflitto tra essi. Anche l’eroica, granitica Leonore ha un momento di sconforto, in cui crede perduta ogni speranza: quella che nella grande aria del primo atto le sembra così lontana. Ed è quando scesa nelle segrete del carcere, colta dall’orrore delle condizioni in cui è tenuto il prigioniero a lei ancora sconosciuto, con un atto deciso della volontà, prende una decisione estrema: “Chiunque tu sia, voglio salvarti”. L’insopportabilità dell’ingiustizia la conduce a riconoscerla in chiunque la subisca, non conta più l’individualità di chi la subisce, ma il fatto che qualcuno la subisca, e allora chiunque di coloro che la subiscono deve essere salvato. Il dovere di salvare l’inerme, l’oppresso, non nasce più dall’amore per il marito, ma dalla comprensione del male che viene attuato, e allora l’amore che spinge a spezzare le catene dell’ingiustizia non è più l’amore egoistico per la persona amata, ma l’amore per tutta l’umanità. In altre parole il male inflitto al singolo si rivela come male inflitto ad altri singoli, e dunque la liberazione di uno solo non basta ad annientarlo: le catene che vanno spezzate sono le catene di chiunque sia incatenato.

                              Nein, nicht länger knieet sklavisch nieder,
                             
                  (Die Gefangenen stehen auf.)

                              Tyrannenstrenge sei mir fern.
                              Es sucht der Bruder seine Brüder,
                              Und kann er helfen, hilft er gern[49].

Il principio morale che deve guidare il comportamento di ciascuno non è gridato, ma semplicemente esposto, come una verità ovvia. Il ministro non dice che l’uomo deve aiutare l’altro uomo, ma che se può aiuta, come non potesse fare altrimenti, una sorta d’istinto o, piuttosto, una natura, come si mangia, si dorme, si vive. Non è eccezionale la solidarietà, l’amore, eccezionale è il crimine. O almeno è questo il sogno, la speranza di Beethoven. La sublime tensione di questo momento del Fidelio sta tutta qui: nella naturalezza con cui viene detta la cosa più grande, nella semplicità con cui si afferma la vera sostanza dell’uomo, si chiarisce, cioè, che cosa sia essere un uomo.

                           Wer du auch seist, ich will dich retten,
                           Bei Gott, du sollst kein Opfer sein[50].

Ebbene, tutto ciò è profondamente intriso dallo spirito non solo dell’illuminismo tedesco (il Faust nasce dall’indignazione di Goethe per le condanne delle ragazze madri e dalla pietà della loro sorte), ma anche, e soprattutto, della Rivoluzione e del teatro della Rivoluzione, erede in questo di certo patetismo del teatro precedente, confluito perfino nell’opera italiana (La Cecchina, ossia La buona figliola, Goldoni-Piccinni,1760; La Nina pazza per amore, Paisiello, 1789).
 Ma la realtà, più che patetica (Beethoven segue la corrente, quando non protesta per il titolo dell’op. 13, e siamo nel 1797), era tremenda.
“Nel dicembre 1789, Verminac de Saint-Maur manifesta la propria ostilità alla proposta appena avanzata nell’Assemblea Nazionale dal deputato J. I. Guillotin, mirante a far compiere le esecuzioni dei condannati a morte per mezzo d’un ‘semplice meccanismo’, l’ipotesi poteva anche essere fi-losofica e umanitaria, ma la macchina in sé avrebbe potuto rivelarsi troppo spettacolare, e suscitare i peggiori istinti del popolo: ‘La novità di questa macchina, il fascino del suo funzionamento non mancheranno di attirare in piazza l’orribile curiosità della gente; distraendosi dalla lezione sanguinosa che gli si vorrebbe impartire, il popolo finirebbe col battere le mani al verificarsi d’un vero e proprio colpo di scena; che dico? Si spingerebbe forse sino al punto di mancanza di senso morale da desiderare la massima frequenza di queste terribili rappresentazioni’. Una simile intuizione risulta confermata, quattro anni più tardi, da Camille Desmoulins in persona, nel numero IV del Vecchio Cordigliere: ‘A fianco della ghigliottina sotto la quale cadevano le teste coronate, sulla stessa piazza e nello stesso tempo, veniva ghigliottinato anche Pulcinella, e il fatto suscitava lo stesso interesse. Non era l’amore della Repubblica ad attirare ogni giorno tanta folla sulla piazza della Rivoluzione, ma la curiosità per l’allestimento di quel nuovo tipo di dramma, che non poteva avere che una sola rappresentazione. Sono sicuro che la gran parte del pubblico di questo spettacolo si divertiva, e che riusciva a vedere solo lame di cartone, e attori che fingessero di fare i morti’.
“Dunque, ben lungi dall’essere quello ‘strumento per morti rapide e discrete’ che diverrà progressivamente a partire dalla fine del XIX secolo, la ghigliottina della Rivoluzione si accampa al centro di un ‘grande rito teatrale’”[51]
Lo scenografo di questi grandi spettacoli era un grande pittore: Jacques-Louis David. E un grande, importante uomo di teatro come Louis- Sébastien Mercier, che rinnova le scene, il tipo di allestimenti e la drammaturgia del teatro francese, avviandolo  a quel tipo di dramma e di commedia, in cui prenderà forma, nel secolo XIX, il dramma borghese (da Dumas padre e fils, al Verdi della Traviata e al Bizet di Carmen, a Becque, a Ibsen, a Hauptmann, ma prima ancora influendo enormemente sull’opéra-comique), può scrivere nel 1798: “Il Terrore non aveva cambiato per nulla certe abitudini. Andando a teatro in carrozza, ci si imbatteva quasi sempre nella carretta che trasportava i resti delle sventurate vittime cadute durante il giorno sotto la fatale mannaia. Ci si limitava, allora, a chiudere le cortine della carrozza, e si proseguiva imperterriti, per correre ad ammirare le esibizioni degli attori in voga”[52].
Da questo scenario di orrori reali e rappresentati si leva il grido di libertà di Florestano, l’anelito di fratellanza universale di Leonore. Se Beethoven rappresenta un carcere che sembra anticipare le nefandezze di un Lager nazista, non è perché abbia anticipato i tempi, ma perché coglie un carattere fondamentale di qualsiasi reclusione: la privazione della libertà, il degrado dell’individuo a puro oggetto, l’imposizione del potere non più solo ai comportamenti dell’uomo, ma alla sua stessa vita, alla sua nuda esistenza, per assoggettarlo integralmente e incondizionatamente al dominio di un potere tirannico e omicida[53]. Qualche anno dopo (10 dopo la prima versione del Fidelio e appena tre dopo l’ultima), nel 1815 Beethoven scrive le musiche di scena per il dramma di Friedrich Duncker Leonore Prohaska. E’ la storia, vera, di una ragazza che si arruola volontaria in abiti maschili nell’esercito prussiano per combattere gli invasori francesi e che muore a Donnenberg nel 1813 per le ferite ricevute in battaglia. Il primo numero è un coro maschile a cappella. Bellissimo! Il testo dice: “Wir bauern und sterben”, noi costruiamo e moriamo. E qualche verso più avanti: “Wir sterben für Freiheit und Liebe”, moriamo per la libertä e l’amore. Il tema ricorda molto da vicino l’attacco della Sonata in si bemolle maggiore op. 106. Probabilmente Beethoven, che ha letto Kant, non ha capito gran che delle sue idee filosofiche. Ma ha colto in pieno il nodo tematico della Critica della ragion pratica, vale a dire l’essenza della fondazione di una morale per Kant. Tale essenza sta nel principio che l’uomo non può, non deve mai essere degradato a strumento, a mezzo, ma deve costituire, sempre, per l’altro uomo, un fine. La musica di Beethoven sembra l’esplicazione di tale principio. E nel caso, perché il principio venga rispettato, morire. E’ incredibile la quantità e la complessità di pensiero francese e tedesco che confluisce in questo atteggiamento di Beethoven, che potrebbe anche sembrare rigido, moralistico, o quanto meno ideologico (ma non lo è, come non lo è l’affermazione del principio universale che fonda l’universalità, non già di una morale, bensì di un’esigenza morale: Nietzsche di tale esigenza abolirà la pretesa che una morale particolare s’innalzi a morale universale, ma non la percezione che anche l’assenza di morale sia a suo modo una posizione morale, e n’è spia lo stile concitato, risentito e alto, quando ne scrive). L’inno alla gioia di Schiller s’intitolava originariamente An die Freiheit, alla libertà. Goethe intitola la propria autobiografia Dichtung und Wahrheit, poesia e verità, non poesia e realtà, poesia e vita. E nel Fidelio, Florestano prigioniero, così spiega la propria prigionia:
                          
                           “Wahrheit wagt’ ich kühn zu sagen,
                           Un die Ketten sind mein Lohn“[54].

Verità, libertà, gioia sono intercambiabili. Pochi versi più in là, nella zona più concitata della sua aria, Florestano vede un angelo che viene a liberarlo, che lo conduce all’agognata “Freiheit”, cioè la libertà, e quest’angelo è sua moglie, Leonore. Come cantano i soldati della Leonore Prohaska: moriamo per la libertà e l’amore. L’una non c’è senza l’altro. “Seid umschlungen”, abbracciatevi. La grandezza, e la bellezza, della musica di Beethoven sta nel fatto che l’appello civile, l’appello politico, non si restringe a perorazione retorica, ma s’innalza a principio filosofico, lo stesso che aveva mosso la plebe parigina ad assaltare la Bastiglia: “Liberté, Fraternité, Egalité”, e non solo tra gli individui, ma anche tra i popoli. Lo choc delle guerre napoleoniche fu per Beethoven che Napoleone tradiva quel principio, ecco perché Beethoven poteva poi inneggiare a una ragazza sassone morta per combatterlo. L’atteggiamento non è diverso da quello di un Manzoni che distingue tra oppressori tedeschi e popolo tedesco. Ciò che Beethoven ha in più, rispetto a tutti costoro, è la tensione con cui anela alla libertà. Non rappresenta la bellezza della gioia, la grandezza della verità, l’ebbrezza della libertà, ma l’impeto dell’aspirazione alla verità, alla libertà, alla gioia. E’ una visione lontana, una speranza. Mai una realtà. La realtà sono il carcere di Florestano, il primo, terribile, tempo della Nona, lo struggimento inconsolabile della Cavatina, nell’op. 130. E’ proprio la durezza, la violenza del dolore, a chiedere che ci sia una “ricompensa” diversa dal carcere e dalla morte. Un “risarcimento”, come dice la Cecilia goethiana. La storia della musica beethoveniana, e in particolare del Fidelio, è la ricerca di questa “ricompensa”. Alla lettera: un pareggiamento dei conti, come dice bene la parola italiana.


4. Esempi di analisi drammaturgica e musicale del Fidelio.

Una volta, durante il terzo rifacimento dell’opera, Beethoven ebbe a dichiarare che se il Fidelio non gli avrebbe fatto, può darsi, ottenere la gloria, sicuramente gli avrebbe fatto conseguire la corona del martirio (viene una certa tristezza a pensare che, teatralmente, Beethoven aveva invece ragione e avevano torto i costumi teatrali del suo tempo, e in particolare gli impresari del suo tempo: un po’ come si resta amareggiati sapendo che per Les Noces Stravinsky avrebbe voluto i pianoforti sulla scena, ma Diaghilev si oppose sostenendo che avrebbero disturbato i danzatori! non tutti hanno la fortuna d’incontrare un Viganò, la cui modernità non solo fu compresa da Beethoven, e viceversa, ma più di un secolo dopo s’incontra con l’intelligenza di una Pina Bausch, per una nuova coreografia delle Creature di Prometeo).
Del martirio fanno fede ben quattro ouvertures. Le tre chiamate Leonore, e quella definitiva che introduce l’ultima versione dell’opera. La prima non venne mai eseguita. Beethoven la fece suonare da una piccola orchestra in casa del principe Lichnowsky e già durante l’esecuzione si accorse che non aveva un carattere abbastanza incisivo. Gli amici che ascoltavano furono d’accordo con lui. La notizia è riferita da Schindler[55] e quindi va presa con le pinze. L’ouverture che venne eseguita la sera del 20 novembre 1805 è quella conosciuta come Leonore n. 2 op. 72a. Per la ripresa del 1806 Beethoven scrisse una nuova ouverture, la più famosa, oggi, quella conosciuta cioè come Leonore n. 3 op. 72b. Mahler ebbe la sciagurata idea d’inserirla tra il primo e il secondo quadro del secondo atto, e la pratica si protrae fino a Bernstein (che tuttavia ha forse inciso l’edizione più entusiasmante dell’opera). L’idea è sciagurata perché blocca l’azione drammatica, quando invece proprio per ottenere un effetto di maggiore concitazione teatrale Beethoven abolisce il pur bellissimo episodio di Leonora che, dopo avere sopportato la tensione di affrontare Pizzarro, sviene e Florestan ancora in catene non può soccorrerla, quando rinviene i due sposi cantano il sublime duetto di ricongiungimento. In effetti il tormento di Beethoven è proprio quello di trovare l’ouverture teatralmente più efficace. Esclusa in partenza la prima Leonore, per una supposta inefficacia espressiva, le altre due sono due splendide pagine sinfoniche, soprattutto la terza, ma appunto troppo ingombranti, troppo sviluppate, per una semplice funzione d’introduzione all’opera. Ecco perché poi per l’edizione del 1814 Beethoven ne scrive una quarta brevissima e, a differenza delle altre che sono piene di agganci tematici e addirittura anticipano l’esito finale sia armonico che drammatico – do maggiore e liberazione dei prigionieri – dell’opera, in essa Beethoven non sembra introdurre apparenti agganci tematici con il resto dell’opera (ma dalla battuta 21 alla battuta 30, il semitono, ch’è l’intervallo tematico del Fidelio, acquista un’evidenza sinistra). Tutt’e tre le Leonore sono in do maggiore e anticipano, dunque, come s’è detto, la risoluzione armonica della partitura. Proprio per evitare quest’anticipazione, che avrebbe rovinato l’effetto di sorpresa con cui nel Finale dell’opera irrompe la tonalità di do maggiore (proprio come nel Finale della Quinta Sinfonia) Beethoven sceglie per l’ultima ouverture la tonalità di mi maggiore, piuttosto lontana da do maggiore, ma ad esso legata da una parentela alquanto stretta, essendo la dominante del suo relativo minore. Il piano tonale dell’opera è calcolatissimo. Per creare una relazione armonica tra l’ouverture e il primo numero del primo atto, Beethoven sposta il duetto Jaquino-Marzelline, in la maggiore, al primo posto, e colloca al secondo posto l’aria di Marzelline, in mi bemolle maggiore, che invece apriva le due precedenti versioni dell’opera. Abbiamo così un movimento mi-la, che esplicita la relazione col do maggiore del Finale, ma ne attenua l’evidenza impostando sulla tonica la non già il modo minore, che rinvierebbe subito a do maggiore, bensì il modo maggiore. Inoltre, nel corso del duetto, al la maggiore insistente e affermativo di Jaquino, Marzelline risponde in si minore: in tal modo esplicita il proprio rifiuto, allontanandosi dalla tonalità e dal modo di Jaquino e pone un’altra volta in evidenza, dopo l’ouverture, l’intervallo tematico di semitono, passando prima da la a la diesis, la sensibile di si minore, e risolvendo subito tale grado nella sua tonica si. L’intervallo di semitono percorre tutta la partitura, come un filo nascosto, segreto, un’ombra cupa che minaccia la stabilità tonale (Beethoven impara la tecnica da Haydn: Sinfonie 103 e 104, inizio della Creazione, Haydn però in genere prepara la dissonanza, mentre Beethoven ama enunciarla ex abrupto, come nell’attacco della sua Prima Sinfonia). Il semitono sembra un intervallo simbolico e ossessivo, nella musica beethoveniana, alla faccia di chi legge la sua musica come posseduta da un inossidabile diatonismo. Negli anni in cui lavora al Fidelio, tale intervallo acquista un rilievo speciale nell’op. 57, la cosiddetta “Appassionata”, lì si presenta come urto dissonante tra do e re bemolle. Ma lo si ritrova anche nell’introduzione della Quarta Sinfonia, come una sorta di discesa agl’inferi (che riascolteremo nel Fidelio!), le terze discendenti che si susseguono spostano ciascuna di un semitono discendente la probabile triade, di modo che non è mai chiaro in che tonalità si voglia sostare, tutta quanta l’introduzione sembra configurarsi pertanto come un’invenzione atematica (com’è giusto per un’introduzione) sul semitono, e Alban Berg è ancora di là da venire. Il semitono assume un carattere addirittura di enigmatico disorientamento nella XX Variazione Diabelli, perché ad esso si riduce ormai l’intero tema che costituisce il fondamento della variazione. Il duetto Jaquino-Marzelline, però, ci fa capire anche un altro aspetto della drammaturgia musicale beethoveniana: la caratterizzazione armonica dei personaggi. Ogni personaggio è individuato in un suo preciso campo armonico: Florestan occupa il campo cupo di fa minore (la stessa tonalità dell’Appassionata), Pizzarro è confinato nel campo di re, minore quando esterna il proprio livore e maggiore per l’urlo belluino di trionfo; Leonore, nella sua grande aria, oscilla tra il tragico sol minore con cui attacca il cromatico recitativo e il mi maggiore dell’aria, invoca in essa la speranza, che Leonore vedrà alla fine realizzarsi allo squillo delle trombe e nel do maggiore liberatore del Finale, di cui pertanto la tonalità di mi maggiore, e cioè della speranza, appare come una sorta di prefigurazione (ma mi maggiore è anche la tonalità dell’ouverture, che dunque solo adesso cogliamo come un vero e proprio ritratto di Leonore, la quale però nell’aria lascia che quel mi maggiore della speranza tocchi più volte pericolosamente il cupo do diesis minore della disperazione – op. 27 n.2).
Ma prima di proseguire nell’analisi dei piani tonali del Fidelio, confrontiamo le diverse stesure dell’opera, tenendo presente anche il modello di Bouilly-Gaveaux da cui Beethoven parte. I rimaneggiamenti sono profondi. E tendono tutti a una maggiore concitazione drammatica. Ma in tutte e tre le versioni la coerenza tonale è mantenuta come una funzione importante della stessa drammaturgia. Anzi, gli spostamenti dei numeri tendono a mettere in evidenza proprio tale organica pianificazione dei percorsi tonali (e poteva essere diversamente per un compositore che aveva fatto dell’impostazione armonica la vera cellula generatrice dell’invenzione tematica e dunque il centro del suo sistema di comporre? si faccia caso che quasi sempre un tema beethoveniano, almeno all’origine, non è quasi mai caratterizzato da un’invenzione melodica invadente, ma si riduca spesso quasi solo all’individuazione di un campo armonico e alla sua scansione ritmica, op. 53, op. 57, per esempio; nella Missa Solemnis il tema può addirittura limitarsi a un accordo, come accade all’accordo di mi bemolle maggiore – lo stesso dell’Eroica – per il Credo).


Le diverse versioni del Fidelio (Leonore) confrontate con l’opéra-comique di Bouilly e Gaveaux.
Le versioni del 1806 e 1814 sono mostrate con riferimento ai  numeri della versione del 1805.[56]

Gaveaux, 1798            Beethoven, 1805                              Beethoven. 1806         Beethoven, 1814

Léonore, ou L’amour  Fidelio (J. von Sonnleithner)            Leonore, oder Der      Fidelio (Sonnleith-
conjugal                                                                               Triumph der eheli-      ner. rev. Breuning, 
                                                                                             lichen Liebe (Sonn-     G. F. Treitsche)           leithner, rev. G. F.
                                                                                             von Breuning)
                                    Ouverture: Leonore n.2, Do             Ouverture: Leonore     Ouverture : Fide-        n. 3, Do                                                         lio, Mi

Atto 1                                      Atto 1                                         Atto 1                          Atto 1

Aria (Marceline)          1. Aria (Marzelline) “O wär ich       1.  1805/1                    1.   1805/2      
                                    schon”, do, Do.
Duetto (Marceline/      2. Duetto (Marzelline/Jaquino)        2.  1805/2                    2.   1805/1
Jaquino)                       “Jetz, Schätzen”, La
                                    3. Terzetto (Marzelline, Jaquino,      3.  1805/4                    3.   1805/4
                                    Rocco) “Ein Mann ist bald genom-
                                    Men“, Mi b
                                    4. Quartetto (Marzelline, Leonore,  4.   1805/6                   4.   1805/5
                                     Jaquino, Rocco) “Mir ist so wun-
                                    derbar“, Sol
Aria (Roc) Chanson    5. Aria (Rocco) “Hat man nicht       5.   1805/7                   5.   1895/6
                                    auch Gold beineben“, Si b
                                    6. Terzetto (Marzelline, Leonore,     6.   1805/8                   6.   1805/7
                                    Rocco) “Gut, Sönchen, gut”, Fa

                                                Atto 2                                   7.   1805/9                   7.   1805/8

                                    7. Marcia, Si b (forse esclusa).         8.   1805/11                 8.   1805/9
                                    8. Aria (Pizzarro) “Ha! welch ein     9.   1805/10                 9.   1805/11 con
                                    Augenblick”, re/Re                                                              un nuovo recit.
                                    9. Duetto (Pizzarro, Rocco) “Jetzt,  10. 1805/3                   “Abscheulicher!
                                    Alter”, La                                                                             Wo eilst du hin?”
Duetto (Marceline,      10. Duetto (Marzelline, Leonore)    11. 1805/12
Léonore)                      “Um in der Ehe froh zu leben”, Do
Aria (Léonore) “Ro-    11. Recit. e aria (Leonore) “Ach                                          10. Nuovo Finale.
mance”                        brich noch nicht… Komm,
                                    Hoffnung”, sol, Mi
Aria (Léonore) “Air”   12. Finale (Marzelline, Leonore,
Coro (prigionieri)        Rocco, Jaquino, Pizzarro, prigio-
                                    nieri, Si b

         Atto 2                             Atto 3                                         Atto 2                          Atto 2

Recit. e aria (Flore-     13. Recit. e aria (Florestan) “Gott!  12. 1805/13                 11. 1805/13 con
stan) “Romance”         welch Dunkel hier… In des Lebens                                          una nuova sezione
                                    Frühlingstagen”, fa, La b, fa                                                finale: “Und spür
                                                                                                                                 ich nicht linde”, Fa
Duetto (Léonore,        14. Melodram e duetto (Leonore,    13. 1805/14                 12. 1805/14
Roc)                            Rocco) “Nun hurtig fort”, la
Terzetto (Léonore,      15. Terzetto (Leonore, Rocco,         14. 1805/15                 13. 1805/15
Florestan, Roc)            Florestan) “Euch werde Lohn”, La
                                    16. Quartetto (Leonore, Florestan,  15. 1805/16                 14. 1805/16
                                    Rocco, Pizzarro) “Er sterbe!”, Re
Duetto (Léonore,        17. Recit. e duetto (Leonore, Flo-   16. 1805/17                 15. 1805/17 senza
Florestan)                    restan) “Ich kann nicht fassen… O                                      recit.
                                    namenlose Fruede“, Sol
Coro fuori scena
Coro “Final, Choeur    18. Finale (Leonore, Marzelline,      17. 1805/18                 16. 1805718 ma
général”                       Rocco, Florestan, Jaquino,                                                   largamente rielabo-
                                    Pizzarro, Fernando, prigionieri,                                            rato.
                                    popolo), do, Do.


Nella tavola qui sopra delle diverse versioni sono segnate anche le tonalità fondamentali dei singoli numeri (iniziale maiuscola per il modo maggiore, minuscola per quello minore). Anche a una rapida scorsa il percorso tonale appare saldamente concepito in funzione di una tenuta organica, si sarebbe tentati di dire “coerente”, del campo tonale. Tutta la partitura sembra ruotare intorno al campo armonico di do maggiore (è la tonalità dell’op. 53), di cui le altre tonalità appaiono come una sorta di espansione, e di tale espansione fa parte anche la ricerca del contrasto. Ed è per questo che le prime tre ouvertures sono tutt’e tre in do maggiore. Incorniciando l’opera con un’apertura e una chiusura entrambe in do maggiore, Beethoven addita in questa tonalità il perno del dramma. La cosa non deve meravigliarci. Do maggiore è una tonalità tutt’altro che solare, apollinea. Proprio l’assenza di alterazioni in chiave la predispone ad accoglierle tutte. Il che può farle assumere anche un carattere altamente drammatico, il che non significa necessariamente tragico, come per esempio nel primo tempo dell’op. 53 o nella fuga del terzo quartetto dell’op. 59, tempi assai mossi e armonicamente imprevedibili (ma il modello poteva già trovarsi nel Finale dell’ultima sinfonia mozartiana). In ogni caso la tonalità di do maggiore è assunta in vista della conclusione affermativa dell’opera, sia dal punto di vista drammatico che musicale.
La lettura della partitura del Fidelio, come quella di qualsiasi altra partitura beethoveniana, offre un campo privilegiato e fecondo a qualsiasi tentativo di analisi. Non è il caso di procedere pagina per pagina. Si indicheranno solo taluni punti, come modelli di altre possibili analisi. Ma cominciamo dal piano generale.

Atto primo: Mi, La, do-Do, Sol, Si b, Fa, Si b, re-Re, La, sol-Mi, Si b.
Atto secondo: fa-La b-fa, la, La, Re, Sol, Do.

In un’opera di tale cupezza sorprende la prevalenza delle tonalità maggiori. E in ogni caso il modo minore non impregna mai per intero un numero, nel primo atto, e nel secondo solo uno, il terribile duetto dello scavo nella cisterna. Perfino il cupissimo fa minore del grido di Florestan si apre, nella zona centrale del suo monologo (non è una vera e propria aria, vedremo) a un rasserenante la bemolle maggiore. Ma si andrebbe fuori strada se si scambiasse pedantescamente il modo maggiore come modo della positività e il modo minore della negatività. In parte è così, e proprio Beethoven ha messo in luce ed esasperato questo aspetto della configurazione di un modo, ma solo come meta di un percorso, non già come carattere specifico del modo. In ogni caso, soprattutto nel Fidelio, il modo maggiore è continuamente minacciato di sprofondare in qualche catastrofe armonica, attivata dal dissonante intervallo di semitono. Se Bach amava trasgredire le regole dell’armonia e raddoppiare, per esempio, la sensibile, Beethoven non è meno audace nell’introdurre comportamenti armonici anomali e inattesi: indeterminatezza tonale, settime e none sospese, quinte vuote, terze che non risolvono su nessuna triade. Ovvio che tanto l’uno quanto l’altro possono permettersi tali libertà perché per entrambi l’organizzazione tonale dell’armonia è indiscutibile, “quanto un dogma”, ebbe a dichiarare lo stesso Beethoven. Ma la tonalità da essi accettata è quella organizzata all’interno del sistema temperato equabile, e dunque con largo impiego dell’enarmonia. L’accordo di settima diminuita (ma anche di quinta e di quarta), il ricorso alla sesta napoletana, sono tra gli strumenti messi in atto più frequentemente per provocare il brivido di una sorpresa armonica o per ristabilire i confini della trasgressione. Ciò vale anche per le relazioni armoniche tra un movimento e l’altro di uno stesso pezzo, e dunque anche per i numeri di un’opera teatrale. Ma il Fidelio è un opéra-comique[57] tedesco. O piuttosto, il tipo teatro musicale tedesco da confrontarsi con l’opéra-comique. Il Singspiel, dopo Mozart, ha perso il carattere leggero, che lo faceva assomigliare al vaudeville, per trasformarsi sempre più in un vero e proprio opéra-comique in lingua tedesca: in questa direzione si muoverà anche Weber, anzi nell’Euryanthe, sotto l’influsso di Rossini, abolisce anche i dialoghi parlati, e dunque il passo verso Wagner è compiuto. In ciò, ma solo in ciò, Wagner non aveva poi tutti i torti nel sostenere che Mozart, Beethoven e Weber gli avevano indicato la strada per la costruzione di un’opera tedesca. Tornando al Fidelio, bisogna tener presente che tra un numero e l’altro, dunque, non c’è musica, perché i dialoghi sono recitati e non cantati. Ciò farebbe presupporre un legame armonico meno vincolante tra un numero e l’altro. Ma Beethoven non riesce a rinunciare all’organizzazione globale anche, o piuttosto soprattutto, del percorso armonico di un’opera. L’invenzione tematica beethoveniana, è bene ricordarlo, nasce prima di tutto come invenzione armonica. E dunque anche i numeri di un Singspiel o di un opéra-comique devono percepirsi armonicamente correlati. Del resto non dimentichiamo che la pratica concertistica del tempo prevedeva lo smembramento di una sonata, di una sinfonia, di un quartetto, di un concerto solistico, nei singoli movimenti, tra i quali l’interprete o gli interpreti infilavano svariati brani virtuosistici: poteva così accadere che tra un tempo e l’altro di una sinfonia o di un quartetto s’inserisse l’esibizione di un tenore o di un violinista. L’esigenza di organicità sentita da Haydn, da Mozart e ancora di più da Beethoven, è un’esigenza allora inattuale, in anticipo sulla prassi esecutiva del tempo (ci riflettano i patiti troppo dogmatici delle cosiddette prassi esecutive “originali”, spesso rischiano di retrodatare le intenzioni di un compositore: Beethoven è più moderno dei pianisti del suo tempo, il che però non vuol dire che debba essere suonato come se fosse Brahms, anzi, per certi aspetti Brahms è meno moderno di Beethoven!). Il primo a capire il senso di tale esigenza di organicità armonica fu Liszt. Ma il discorso su Liszt ci porterebbe ora troppo lontano. Basti accennare al fatto che proprio il tipo di elaborazione tematica attuata da Liszt, il fatto di partire cioè da un disegno astratto di altezze, che poi s’incarnano in figure tematiche diversificate ritmicamente, se da una parte è la diretta conseguenza dell’influsso che esercita su Liszt l’elaborazione tematica dell’ultimo Beethoven, dall’altra prefigura, e forse addirittura glielo suggerisce, il sistema dodecafonico di Schoenberg. Dobbiamo pertanto immaginare la successione dei numeri del Fidelio non già come pezzi che per il fatto di essere separati da dialoghi parlati non siano in qualche relazione armonica tra di loro, ma anzi che proprio perché si trovano di fatto a essere separati dai dialoghi parlati, riconnettono organicamente la successione interrotta con la relazione armonica tra un pezzo e l’altro.
Il primo atto si apre in mi maggiore e si chiude in si bemolle maggiore, passando per la maggiore, do minore, do maggiore, sol maggiore, si bemolle maggiore, fa maggiore, di nuovo si bemolle maggiore (tonalità centrale e predominante dell’atto, a creare l’urto dissonante tra si e si bemolle, e cioè l’intervallo tematico di semitono, urto enfatizzato dal si naturale dell’ouverture in mi maggiore, e dunque la sua dominante, e il si bemolle, tonica del Finale dell’atto), re minore, re maggiore, la maggiore, sol minore, mi maggiore. La tonalità dell’aria di Leonore, mi maggiore, la stessa dell’ouverture, riappare non a caso proprio prima del Finale, che è in si bemolle maggiore, a ribadire la dissonanza tra si e si bemolle.
Il passaggio più ardito è proprio quest’ultimo, ma non inspiegabile: si bemolle è la tonica di cui fa è la dominante, e in Beethoven la dominante riafferma la tonica, e quanto a fa, è il secondo grado abbassato di mi maggiore. Riecco l’amata sesta napoletana! E’ possibile anche un altro percorso: la quinta mi-si di mi maggiore, diventa quinta diminuita con l’abbassamento di si a si bemolle, intervallo da Beethoven amatissimo. Inoltre la tonalità di si bemolle maggiore è prefigurata dal sol minore con cui Leonore attacca il recitativo della sua grande aria, e pertanto il percorso degli ultimi due numeri non è da mi maggiore a si bemolle maggiore, ma da sol minore (relativo minore di si bemolle maggiore), con un percorso cromatico accidentatissimo, a mi maggiore, e da mi maggiore al relativo maggiore di sol minore, e cioè a si bemolle maggiore. Né si deve dimenticare, come è stato visto nel corso sulle strategie compositive, che per Beethoven la tonalità non è un punto fisso dal quale si proceda linearmente a successivi punti tonali, ma è bensì un campo nel raggio della cui tonica, con maggiore o minore tensione, entrano in azione gli altri gradi, imponendosi di volta in volta o come sensibili secondarie o attraverso altre funzioni come nuovi centri di attrazione tonale. Sembrerebbe il percorso di una sonata o di una sinfonia. Ma questo di fatto fa Beethoven, trasferisce sulla scena la costruzione musicale della sinfonia, non per entrare in urto con la drammaturgia del testo, ma anzi per enfatizzarne le tensioni. Se poi si pensa che il Finale è costruito sul canto dei prigionieri, l’organicità del percorso armonico acquista una valenza simbolica: Beethoven visualizza, cioè, già nell’azione musicale, l’azione che si svolge sulla scena, preparando così il terreno a Wagner, ma ancora di più a Berg. Nel senso che l’azione teatrale è già contenuta nell’azione della musica. La musica, insomma, agisce, si fa dramma, narrazione, conflitto. Non in maniera descrittiva (questo lo faranno i romantici, ma nemmeno tutti), bensì con strumenti esclusivamente musicali: la costruzione della forma musicale. Non è il singolo particolare musicale a descrivere un gesto, un’azione, ma è il processo stesso con cui si attua la forma musicale a porsi come struttura analogica dell’azione teatrale. Perfino Verdi, sotto questo aspetto, ne resta soggiogato, e per la battaglia finale del Macbeth non pensa al chiasso scatenato di un’orchestra tutta piatti, trombe, corni, tromboni, e timpani: le trombe ci sono, ma per attaccare il soggetto di una fuga. Come per il grande Haydn, che Verdi amava, a rappresentare il Caos c’è il calcolatissimo cromatismo di un ordinato do minore che sfocia nel do maggiore in cui appare la luce, così per Verdi a rappresentare la mischia disordinata di una battaglia c’è l’ordine sovrano del contrappunto.
Il secondo atto del Fidelio ha un percorso armonico più stringato del primo.
Il cupissimo fa minore che lo comincia è in stretta relazione con il si bemolle che chiudeva il primo atto. Il recitativo di Florestan parte da questo terribile fa minore e si muove cromaticamente fino ad adagiarsi sul la bemolle maggiore dell’aria, la cui conclusione è però in fa maggiore. Segue il melodram, cioè il melologo, e il duetto tra Rocco e Leonore che scavano la fossa del condannato: la minore, relativo minore della dominante di fa. Il suono cupo del controfagotto si fa udire un’altra volta (lo si era udito nella marcetta che precedeva l’ingresso di Pizzarro, nel primo atto): eccolo l’inferno di Pizzarro, il Lager del Tiranno, che la marcetta del primo atto ci aveva fatto presagire. Ed è in questo inferno, il cui orrore sembra intirizzirle le ossa, che Leonore si risolve a salvare il prigioniero, chiunque egli sia. Si rende conto che il suo compito non è solo salvare il marito, ma che, come donna, e dunque come membro dell’umanità (i tedeschi direbbero Mensch), deve impedire che chiunque altro faccia la fine di suo marito, prende cioè coscienza che si può liberare qualcuno dalla condizione degradata in cui l’ingiustizia lo confina, solo combattendo l’ingiustizia, qualunque ingiustizia, per proclamare con forza il diritto universale della libertà, per dichiarare che non c’è dignità umana senza libertà, e non c’è uguaglianza senza giustizia. Si passa quindi al terzetto in la maggiore. Il concitatissimo quartetto che segue è in re maggiore: re è la tonica di Pizzarro, che qui crede di vedere realizzarsi il suo trionfo, e di vedere finalmente appagata la sua ansia criminale di vendetta, ma vede invece crollargli d’un tratto addosso tutta la macchina persecutoria attivata. In sol maggiore è il duetto di ricongiungimento dei due sposi e in do maggiore il grande Finale dell’opera.
Solo poche osservazioni sui singoli numeri. Più che altro come suggerimenti di un’analisi tutta da fare.
Intanto tutt’e tre le grandi arie che caratterizzano i personaggi principali del conflitto sono in forma sonata. Naturalmente una sonata come ormai la elabora Beethoven, vale a dire con un tema in perpetua trasformazione. Si cercherebbero invano i profili di due temi distinti, magari contrapposti. Nell’aria di Pizzarro, per esempio, il semitono gioca un ruolo determinante a delineare il carattere sulfureo, demoniaco del personaggio. L’ingresso di Pizzarro è però preceduto da una marcia in si bemolle maggiore. Beethoven ha innalzato la marcia, che è un pezzo caratteristico, e dunque di livello inferiore al livello della sonata, a pezzo di uguale dignità di qualsasi altro movimento della sonata. Nell’op. 26, una sonata per pianoforte, l’adagio è sostituito da una marcia funebre (ne terrà conto Chopin) e così pure nell’Eroica. Sia l’una che l’altra sono pezzi di altissima elaborazione e di grande impatto emotivo. Qui, nel Fidelio, invece, Beethoven sembra voglia serbare alla marcia che annuncia l’ingresso di Pizzarro il tono di un pezzo caratteristico, la funzione appunto, di una musica da parata, di una musica d’occasione, e sembra volere creare sulla scena l’effetto di una vera e propria banda militare. L’attacco è vertiginoso: solo due colpi di timpano, piano, raddoppiati da violoncelli e contrabbassi pizzicati e dal controfagotto (come anticipazione della discesa nell’inferno della cisterna dov’è racchiuso Florestan: anche lì un controfagotto segna, infatti, come s’è visto, l’ingresso nel dominio del male). La marcia che segue è una marcetta, scrittura raffinatissima, ma una marcetta, sembra prefigurate certe sinistre marcette mahleriane. Il male fa il suo ingresso presentato da una marcetta di tono minore, come uno sberleffo, una smorfia di disgusto. L’effetto è sinistro, come quasi tutto, in quest’opera, prima della liberazione finale. E’ sinistra anche la quotidianità di Rocco, di Marcellina, di Jaquino. Non è vero che Beethoven cominci con lo scrivere un’opera comica e non sappia che cosa fare e poi, appena precipita nel tragico, trovi la sua strada. E’ vero invece che il livello “comico” è il livello della quotidianità, della banalità del quotidiano. Rocco, Marcellina, Jaquino sono i secondini di un carcere che sembra una perfetta prefigurazione del Lager nazista. Ma a loro l’orrore di quanto si compie là dentro non sembra fare impressione. Anzi, Rocco può perfino inneggiare alla forza dominante del denaro, nella vita, senta sentirsene turbato, e lo fa a ritmo di marcia. Accetta il denaro anche per coprire un crimine: si rifiuta di compierlo, ma non di occultarlo. Nella versione del 1806 Beethoven aveva eliminato l’aria cosiddetta “dell’oro”, di Rocco, probabilmente per dare retta agli amici che la ritenevano estranea al carattere dell’opera, ma nel 1814 la reinserisce, e con ragione, perché disegna un carattere comune, quello di una persona buona, ma che per timore, e per avidità, non sa opporsi al sopruso, al crimine di chi detiene il potere. Come ha scritto Hanna Arendt il male non è sublime, ma banale. Goebbels adorava i canarini. I secondini e i kapò dei Lager nazisti non si sentivano minimamente scossi da quanto vedevano e facevano. Al processo di Norimberga si scusarono dicendo che ubbidivano agli ordini. Questo vuole rappresentarci Beethoven: la complicità di molti, della moltitudine dei pavidi, dei corrotti, dei voltagabbana, degli egoisti, degli indifferenti, nel costruire l’edificio di una tirannide. L’indifferenza colpevole di chi assiste al male e non solo non lo combatte, non lo ostacola, ma non se ne indigna, finge di non vederlo, o si autoconvince di non vederlo, non è meno colpevole della colpa di chi commette il crimine. Beethoven non poteva certo conoscere l’orrore dei campi di sterminio nazisti (e poi di quelli bosniaci, e cambogiani, e giapponesi, e americani). Ma conosceva l’esistenza del carcere. Sapeva che non c’è società che non preveda la reclusioni di una parte dei propri componenti, e sapeva anche che spesso la reclusione è immotivata, ingiusta, o che è motivata solo dalla volontà di reprimere chiunque si opponga all’azione di chi detiene il potere. Conosceva, dunque, che cosa sia la privazione della libertà. E porta sulla scena la sua indignazione, il suo dolore, la sua angoscia per uno spettacolo umano, troppo umano, che degrada l’uomo alla condizione di recluso, di oggetto. “O Freunde, nicht diese Töne!”[58] Tornando all’aria di Pizzarro, ci si soffermi alle battute 8-14: c’è una successione tesissima di semitoni, alle parole:

                           “Die Rache werd’ ich kühlen!
                                       Dich, dich rufet dein Geschick!
                                       In seinem Herzen wühlen…”  [59]

La concitazione, la rabbia del suo canto è bene espressa proprio da questo accavallarsi di semitoni: la-si bemolle, do diesis-re, re-mi bemolle, fa diesis-sol, sol diesis-la, fino all’esplosione di un urlo, il suono insieme di rabbia, di furore e di trionfo tenuto sulla tonica re per due battute e mezzo. Un autoritratto impressionante. Del resto l’orchestra aveva introdotto la deflagrazione della sua malignità con un passo contorto, attorcigliato, dei primi violini: la-si bemolle, fa diesis-sol, re diesis-mi, si diesis-do diesis.
Ancora più sconvolgente il duetto seguente con Rocco.
Pizzarro gli chiede di uccidere Florestan. Ma non lo fa capire subito. Gli dice solo che resta ancora un servizio da fare. Rocco non capisce e gli chiede di spiegarsi meglio. Lo dice con una musica che ricorda molto da vicino Papageno. La citazione non è casuale. Papageno, nel Flauto Magico, è il popolo austriaco, il popolo allo stato di natura. E solo con la complicità di un popolo un tiranno può esercitare il suo potere. Qui Rocco è il popolo che si fa complice dei misfatti di un tiranno. Quando capisce, prova orrore: “O Herr!”, la-sol diesis, di nuovo il semitono, ma qui a denotare lo sconcerto di Rocco. Ma lo sconcerto non lo incita alla ribellione. Ha accettato, poco prima, la borsa di denaro che Pizzarro gli ha offerto e non ha nessuna intenzione di restituirla. Cerca di aggirare la richiesta compromettente. Si scusa: togliere la vita non è il suo compito. Pizzarro, contrariato, gli chiede allora almeno di aiutarlo nel compito che lui stesso eseguirà: e precisa meglio la propria volontà, lo ucciderà lui stesso, Rocco da parte sua gli scaverà la tomba.
I contorti cromatismi che introducevano la sortita di Pizzarro introducono anche l’irrompere di Leonore, che ha udito tutto, sulla scena, non appena Rocco e Pizzarro si sono allontanati. Si fa strada in lei la volontà di salvare il prigioniero, chiunque egli sia. Lo dirà nel duetto con Rocco, mentre gli scava la fossa. E’ una pagina mirabile, la grande aria di Leonore. Ma la sua analisi ci porterebbe ora lontani dall’assunto. Passiamo perciò al Finale del primo atto.
Comincia con un’apertura degli archi di visionaria modernità. Su un pedale della tonica, si bemolle, intonata da violoncelli e contrabbassi, gli altri archi sovrappongono via via statici accordi dissonanti che risolvono poi sulla dominante fa. Sembra prefigurare la polifonia di Ligeti. O comunque il procedere per fasce della musica elettronica. Ritornati alla tonica, gli accordi sono esposti in figure di semicrome, con andamento di basso albertino. Sopra s’innalza, per note ribattute e gradi congiunti, il canto dei prigionieri. Tutta la pagina è condotta con un grande respiro sinfonico. E si conclude pianissimo, i prigionieri rientrano nelle loro celle, Rocco e Leonore si preparano a scendere nella cisterna dov’è rinchiuso il prigioniero, i timpani contrappuntano sottovoce, cupi, lo smorzarsi dell’orchestra: la discesa nell’inferno è cominciata.
Potremmo fermarci qui. Il resto lasciandolo all’analisi individuale del lettore. Ma c’è ancora un punto da chiarire, indicare l’origine del semitono tematico, che percorre l’intera partitura. L’introduzione strumentale del secondo atto ce la rivela. Si tratta dell’elaborazione di una cantata del 1790, dunque di un Beethoven appena ventenne, per la morte di Giuseppe II. Fu probabilmente il manoscritto che Beethoven mostrò a Haydn, quando gli chiese di diventare suo allievo. E’ una pagina a dir poco profetica, come scrive bene Kinderman[60]. L’effetto dirompente è ottenuto contrapponendo gli archi ai fiati, alla tonica tenuta per quattro ottave (i contrabbassi suonano un’ottava sotto il do grave dei violoncelli) dagli archi succedono gli accordi tenuti dei fiati. E l’accordo tenuto è figura già qui, come poi nel Fidelio, della tomba, e dunque della morte. La tonalità è quella di do minore. Nel catalogo beethoveniano la cantata figura catalogata come WoO 87 [61]. La pagina è usata poi, nel 1805, come abbozzo per l’introduzione al terzo atto del Fidelio, diventato nel 1806 e nel 1814 secondo atto. Naturalmente 15 anni dopo la scrittura di Beethoven s’è fatta più complessa. Alla tonica degli archi, che ora è fa, si contrappongono accordi, la prima volta consonanti, la seconda dissonanti dei fiati: l’accordo dissonante viene lasciato sospeso, ma è proprio nella successione dei due accordi dei fiati che, nei suoni estremi acuti, il semitono compare, nel secondo a stabilire la dissonanza: do-re bemolle. Con movimento inverso a quello dei fiati, gli archi, all’estremo grave, viole, violoncelli e contrabbassi, intonano cupamente il semitono discendente, ribattendone tre volte il grado superiore:  mi-mi-mi-mi bemolle, campo armonico e ritmo dell’introduzione sono impostati. Nella cantata il semitono superiore dei fiati manca, i flauti restano fermi sul mi bemolle, gli oboi intonano una seconda aumentata: mi bemolle-fa diesis (Beethoven ama da subito gli accordi alterati, il fa diesis fa parte del seguente accordo: corno: si-do; fagotto: do; clarinetto: do-mi bemolle; oboe: la-fa diesis; flauto: do-mi bemolle; il fagotto intona, naturalmente, il do grave).
Nell’ouverture Leonore n. 2, che, come poi la n. 3, anticipa l’azione musicale dell’opera, il semitono fa la sua comparsa alla sesta battuta, in cui la scala discendente degli archi, partita tre battute prima dal sol acuto, risolve inaspettatamente sul fa diesis invece che sul fa naturale, dirottando così la percezione tonale che finora s’era saldamente impiantata sul do maggiore. Il procedimento assomiglia moltissimo al procedimento analogo del primo tempo dell’Eroica, quando alla settima battuta i violoncelli risolvono inaspettatamente, dal re, invece che sul do, sul do diesis. Il semitono, in tutti e due i casi, ha funzione tematica.
Che cosa si vuole dire con ciò?
Soprattutto questo: che sarebbe errato leggere una partitura beethoveniana seguendo un unico percorso di lettura, e ancora più immaginandosi di trovare conferma di idee formali estranee al pensiero musicale di Beethoven. Il suo, infatti, è un pensiero che si evolve via via che si forma, e ciò non è affatto in contraddizione col fatto che Beethoven usasse schizzare prima di comporre qualsiasi cosa il piano generale dell’opera, salvo a modificare strada facendo ordine di percorso e contenuti musicali. Il piano generale significa prima di tutto un campo armonico, un ritmo. Il campo del Fidelio, l’abbiamo visto, è do maggiore. Ma a un certo punto Beethoven decide di assegnarli non già la funzione di tonalità principale, quanto piuttosto di quella d’arrivo, e chi sa che in questa decisione non abbia influito la composizione del Finale della Quinta Sinfonia, visto che il piano prende corpo nell’ultima rielaborazione dell’opera, quando il lavoro sulla Quinta è finito. Ma un ruolo deve averlo giocato anche la composizione dell’op. 53, in do maggiore, e dell’op. 57, in fa minore, visti retrospettivamente come due pannelli contrapposti di un’unica concezione (il do maggiore dell’op. 53 è una tonalità irrequieta, mobilissima, e quanto all’Adagio molto centrale, mostra un certa affinità con figure egualmente statiche e sospese del Fidelio; il fa minore dell’Appassionata affonda in un clima tragico e concitato com’è quello, però molto diverso, del secondo atto del Fidelio. Per ciò che riguarda il ritmo, non è improbabile che uno dei motivi che spinse Beethoven a eliminare le prime tre ouvertures fosse, oltre a quello di avere una pagina più snella e più simile a un’introduzione, quello di mettere maggiormente in evidenza il ritmo di marcia. Abbiamo così tre momenti dell’opera caratterizzati da un ritmo di marcia. L’ouverture, l’ingresso di Pizzarro e il Finale dell’opera. Tra un momento e l’altro la marcia o il suono ribattuto compaiono più volte, anche sinistramente, nel duetto Pizzarro-Rocco, nel canto dei prigionieri, nel primo atto; nel quartetto e nel Finale del secondo atto. Nel Finale, raggiunta finalmente la tonalità di do maggiore, la marcia rivela la sua natura di inno alla libertà e si contrappone, trionfalmente, alla sinistra, sulfurea marcetta dell’ingresso di Pizzarro, esibendo sfacciatamente il ritmo e l’inciso tematico della Marsigliese. Qualche anno dopo, anche l’Inno alla Gioia avrà il ritmo di una marcia.

Roma, domenica 5 giugno 2005.


[1] Vorlesungen über die Aesthetik, trad. it. Estetica, Torino, Einaudi, 1963, p. 59.
[2] Teatro e spettacolo nel primo ottocento, Roma-Bari, Editori Laterza, 1991.
[3] Da Theodor W. Adorno, Beethoven. Filosofia della musica. A cura di Rolf Tiedemann. Torino, Einaudi, 2001. (v. Bibliografia)
[4] E’ noto che il carattere asemantico della musica impedisca di considerarla non metaforicamente un linguaggio. Tuttavia la tensione per un significato inequivoco della musica, codificata attraverso secoli di ricerca di formule significanti, se non altro, un affetto, vale a dire un sentimento, uno stato d’animo, si fa in Beethoven talmente violenta - al tempo stesso in cui d’altra parte rivendica invece l’autonomia dei processi formali - che la musica di Beethoven sembra sforare il livello del linguaggio non solo invadendo il campo della rappresentazione della passione, ma addirittura suggerendo il movimento astratto del pensiero. La libertà non è soltanto un concetto politico retoricamente  perorato dalla musica (per es. Fidelio), ma una conditio sine qua non della stessa musica, e ciò proprio nel momento in cui il processo formale tende a imporsi come necessario: la necessità, appunto, della libertà, in quanto è solo alla fine del processo liberamente e gradualmeomente costruito che quella libertà ci si rivela come la necessità formale di quella singola e unica opera.
[5] Cfr. Cesare Munari, Storia del teatro, Roma, Bari, Editori Laterza, 200312, cap. 22°, Germania, culla del repertorio europeo, e 23°, Verso il teatro borghese, pagg. 175-188.
[6] I numeri rinviano alla numerazione dei frammenti nell’ed. curata da Rolf Tiedemann.
[7] Adorno si riferisce al passo di Hegel riportato nell’intestazione della presente dispensa.
[8] Adorno intende dire che nell’opera beethoveniana il particolare è costruito sempre in funzione dell’evolversi della forma nel suo insieme.
[9] Hermann Scherchen (1891-1966: fu costretto a emigrare nel 1933), grande direttore d’orchestra, amico di Adorno, e sostenitore instancabile e appassionato della Nuova Musica. E’ il fondatore del Festival d’Aix-en-Provence. Il loro - di Adorno e di Scherchen - interesse per la musica di Beethoven, e di riflesso per quella di Mahler, nasce proprio dalla consapevolezza che nella musica beethoveniana si trovano le radici della Nuova Musica.
[10] Qui si fa riferimento non solo alla Logica di Hegel, ma al presupposto inderogabile del De Interpretatione di Aristotele, secondo il quale le parole, da sé, non danno senso, perché il senso è dato dall’articolazione del periodo. Dire “uomo” non significa niente, ma se dico “l’uomo è un animale che parla”, dico una frase che ha senso. In musica, sostiene Adorno, il senso, analogicamente, non è dato dai singoli temi, bensì dall’articolazione dei temi nel corpo della forma.
[11] Beethoven, citato da Paul Bekker, Beethoven, Berlin, 1912: “Caro mio, gli effetti stupefacenti che molti ascrivono al genio naturale dei compositori, si ottengono spesso abbastanza facilmente con il giusto uso e risoluzione dell’accordo di settima diminuita”. Adorno lo ridiscute nel frammento 197.
[12] E, si aggiunga, la predilezione di Beethoven per la terza, per un procedere per terze discendenti, evitando la dominante: cfr. il primo tempo dell’op. 106 e le Variazioni op. 34. In ciò Beethoven suggerisce a Brahms la scappatoia per sfuggire alle trappole dell’armonia romantica. Ma sembra anche illuminare di luce abbagliante l’aspro e complesso diatonismo di Mahler.
[13] Qui si fa esplicita l’avversione di Adorno per Wagner. Ma una volta tanto il grande compositore sbugiarda l’ideologia del critico che lo accusa di ideologia: quanto Adorno afferma del modello beethoveniano non può essere assunto che come utopia del comporre, ma l’anarchico Wagner sa perfettamente che quell’utopia non è realizzabile se non nel sogno o nell’annientamento di tutti i suoi presupposti, vale a dire nel mito, e sia pure un mito moderno, vale a dire dell’epoca post-religiosa. Il che non significa di un’epoca senza religione, ma nella quale appunto la religione da testimonianza di una ricerca della verità scade a sostegno delle illusioni, e rinvia dunque alle kalende greche il confronto, insopportabile, con la realtà. A suo modo, nel momento in cui la libertà non può essere additata che come speranza, Beethoven ha antiveduto questo processo: in ciò Wagner non fa che proseguire, lucidamente, sulla strada già tracciata. La storia, e il fallimento, delle avanguardie darmstadtiane s’inserisce in questo quadro. Da questa prospettiva un’opera come il Pli selon pli di Pierre Boulez acquista la lancinante e folgorante chiarezza di una resa incondizionata.
[14] Preposizione latina: riguardo a, in relazione a, nei confronti di.
[15] E di fatti è Kant, se mai, e non Hegel, come crede Adorno, e cerca di dimostrarlo non senza forzature, il filosofo più affine alla musica di Beethoven, non fosse che per il predominio e il prevalere di un principio etico su qualunque altro.
[16] Fidelio, terzetto Florestan, Leonore, Rocco, atto II. Florestano, ristorato dall’acqua e dal pane offertigli da Leonore ringrazia e aggiunge: “Euch werde Lohn in bessern Welten (Abbiate ricompensa in mondi migliori)”.
[17] Autocitazione dal saggio su Wagner:  “Con ciò | l’ansia di morte del Tristano | anche la wagneriana metafisica della morte ha pagato il suo tributo all’inafferrabilità della gioia, che dopo Beethoven vale per ogni grande musica”.
[18] Il problema sollevato en passant da Adorno è immenso: indubbio che qualunque opera attinga il bello è bella senza bisogno di precisarne le connotazioni. Tuttavia come mai mai la percezione estetica mette in campo gerarchie tra un’opera percipita come “perfetta” e un’altra che, pur bella, sembra meno compatta, meno riuscita? Restando a Beethoven: Eroica e Seconda.  La Seconda è una sinfonia bellissima. E tuttavia l’Eroica sembra possedere una marcia in più: quale?
[19] Riferimento a una poesia di Stefan George: “Prima che voi afferriate il corpo su questa stella, / vi invento il sogno sotto stelle eterne”.
[20] Nonostante i molti spunti interessanti di analisi, ecco un passo tipicamente ideologico di Adorno. Proseguendo il cammino percorso nella Filosofia della musica moderna, il libro, mai compiuto, su Beethoven ha per sottotitolo: Filosofia della musica. Beethoven è innalzato a modello del concetto di musica, anzi della musica come pensiero, filosofia, appunto. Ma per far ciò - nonostante intuizioni folgoranti come quella che il contenuto di una musica si realizza nella sua sintassi - Adorno deve prefigurarsi ciò che nel suo modello beethoveniano è propulsivo, nuovo, in una parola progressivo, individuandolo nella costruzione tematica. Quanto la musica non si adegua, o non sembra adeguarsi, a tale modello, gli appare deviante, come nella Missa solemnis, o di livello estetico inferiore, come nelle ouvertures.  Sfugge ad Adorno, la necessità sentita da Beethoven di strutturare un’opera anche secondo le sue funzioni di comunicazione: la struttura di un’opera teatrale, anche inglobando al suo interno forme strumentali, non sarà quella di una sinfonia, e così una bagattella non potrà aspirare alla complessità nemmeno di un rondò. In qualche modo, come già aveva fatto Croce, Adorno sottovaluta il peso del genere nella costruzione di un’opera: esattamente come un sonetto non si scrive alla maniera di un poema o di un romanzo, così una bagattella, una scena teatrale, non si scrivono come una sonata, un quartetto, una sinfonia. Ciò che resta comunque sempre alla base del comporre beethoveniano è, certo, la logica armonica, ritmica, tematica che guida la scrittura, ma la logica tematica di un tempo di quartetto schiaccerebbe l’esile trama di una bagattella. In realtà poi le cose stanno in maniera assai più intricata e complessa: Alla danza tedesca, dell’op. 130, sembrerebbe un pezzo caratteristico, e allora il suo tono alto è dato dalla sua collocazione all’interno di un quartetto, e Beethoven spesso gode, come faranno anche Schubert e Brahms, che in questo prendono da lui, ad accostare passi di elevata elaborazione, e dunque di stile sublime, a passi volutamente - e apparentemente! - semplici o addirittura banali, e dunque di stile basso. Il movimento che segue la danza tedesca è la struggente, intensissima Cavatina! Ma tornando alle ouvertures, la loro apparente semplicità, rispetto alla complessità delle sinfonie, ubbidisce a una necessità teatrale: quella di individuare i contrasti in maniera netta, decisa, esagerata. Naturalmente questa è una necessità beethoveniana, di come Beethoven concepisce il teatro. Ma smentisce tutti i discorsi vanamente scritti su una pretesa insensibilità teatrale di Beethoven: Beethoven è talmente sensibile al teatro da scrivere per il teatro in maniera diversa da come scrive quando compone una sinfonia. Quanto alla presunta rozzezza delle ouvertures: lo si è scritto anche di Verdi, ma potrebbero Rigoletto, La traviata, Aida avere introdzioni strumentali più efficaci di qelle che hanno?. Le ouvertures di Beethoven questo sono : introduzioni. Si rifletta sul lungo percorso compiuto da Beethoven attraverso le tre redazioni dell’introduzione alla Leonore, fino alla definitiva ouverture del Fidelio. Non c’è dubbio che tanto la Leonore n. 2 che soprattutto la Leonore n. 3 (e forse anche la n. 1) siano dei capolavori, ma non c’è dubbio, anche, che come introduzione l’ouverture definitiva del Fidelio funzioni meglio, e non dal punto di vista musicale (anche), bensì teatrale. Le tre precedenti versioni, anche se bellissime, sono da Beethoven scartate proprio perché troppo sinfoniche, e dunque inadatte a svolgere la funzione di introduzione. Alla faccia di chi non saprebbe scrivere per la scena!
[21] Dal ciclo di Lieder, su poesie di Chamisso, Frauenliebe und -leben, il secondo Lied.
[22] Versi finali della morte di Isotta.
[23] Fidelio, Florestan nel terzetto Florestan, Leonore, Rocco del II atto.
[24] Quacosa sembra sfuggire ad Adorno. La tristezza, lo spreco di sé, che connota tante pagine di Schumann (e di Schubert, di Chopin, perfino di Brahms) è un sentimento del qui, dell’adesso, molto vicino all’angoscia di Kirkegaard, in goni caso legato al soggetto che la esprime, alla sua vicenda personalissima. In Beethoven, mai: il soggetto, in Beethoven non è mai l’individuo, l’artista che scrive, ma l’intera umanità. I romantici guardano la vita dall’interno della vita. Beethoven sembra oltrepassarla e guardarla dall’altra parte, un po’ come Bach. In tal senso il compositore classico più vicino ai romantici non è, naturalmente, Beethoven, ma Mozart.
[25] E’ un pensiero fondamentale, un’idea che percorre la cultura tedesca dal Medio Evo in poi. An dei ferne Geliebte di Beethovrn ne è un’icona imprescindibile. L’amata è appunto lontana, assente. Così come la Isolde di Gottfried per Tristan, o Suleika per Hafiz nel Divano goethiano. C’è una parola che, più che definire, coglie questo sentimento tipicamente tedesco del desiderio dell’assente: la Sehnsucht, malamente tradotta in italiano con nostalgia. “Nur wer die Sehnsucht kennt, weiss was ich leide (solo chi conosce la nostaglia, sa che cosa io soffro)”, canta Mignon nel Meister goethiano. Qui Adorno rivela le radici profondamente tedesche del suo pensiero. Il mondo dell’irraggiungibile è sempre il migliore dei mondi possibili. In fondo una simile Sehnsucht , ma proiettata nel futuro, sta alla base anche del pensiero di Marx. Tocca perfino il divino Mozart, la seduzione di questo ambiguo, infernale, demoniaco desiderio di perdersi dietro un fantasma del desiderio stesso: Selim, che alla conclusione del Ratto, rivolgendosi a Costanze, le dice: “Prega Dio di non pentirti un giorno di avere rifiutato il mio amore”. E non sono purissima Sehnsucht i “bei momenti” della Contessa? Il fatto è che l’arte tedesca è costruita sulla lacerazione tra l’interiorità e il mondo, sull’esperienza primordiale di una perdita. A cominciare dai corali di Lutero. O dall’idea, profondamente e tipicamente luterana, che il peccato originale non fu un peccato di orgoglio, bensì un peccato di concupiscenza, e dunque, come analizza mirabilmente Kirkegaard nel saggio sul Don Giovanni, all’interno di Aut-Aut, .un’esperienza della finitezza del tempo, del finire della stessa esperienza, in un presente talmente istantaneo e immobile da confondersi con il suo annientamento, e dunque con la morte Detto questo, la musica tedesca, forse la più grande musica della musica occidentale, resta una musica della perdita, dell’assente desiderato. Una musica che vorrebbe illudersi, o illuderci, ma non può, o non sa farlo, che la congiunzione con l’amato è ancora possibile. Da qui la sua demoniaca lucidità nello scoperchiare le finzioni dell’illusione consolatoria. Restano aperte due vie, emblematicamente incarnate in Beethoven e Wagner: o quella della Ragione, che contro ogni evidenza, si ostina a sperare, o quella che si arrende alla nullità del reale. Sono poi così opposte?
[26] Devo la suggestione del presente paragrafo ai capitoli 22° e 23° della Storia del Teatro di Cesare Molinari, cit., pagg. 175-202 e al primo capitolo, bellissimo, di Teatro e spettacolo nel primo ottocento di Claudio Meldolesi e Ferdinando Taviani, cit., pagg.  3-101.
[27] Il termine con cui in tedesco si designa il regista è regisseur, che in francese significa amministratore, ma perché in Germania è appunto il Dramaturg, l’amministratore del teatro, colui che monta tutto lo spettacolo, che mette in scena l’opera da rappresentare: e proprio riguardo a quest’ultimo aspetto i francesi lo dicono perciò metteur en scène.
[28] Anche Beethoven pensa che il teatro debba essere una sorta di scuola della vita, e perciò lo scandalizzava il libertinismo mozartiano.
[30] La commedia goethiana viene rappresentata nel teatro del castello di Eszterháza il 30 maggio 1778, dunque nella prima versione col finale lieto del ménage à trois. Sovrintendeva agli spettacoli del castello Franz Joseph Haydn. A proposito di cultura teatrale tedesca, in questo caso anche ungherese! Cfr. la monumentale monografia di H. C. Robbins Landon, Haydn. Chronicle and Works. Haydn at Eszterháza 1766-1790, London, Thames and Hudson, 1978, pag. 95.
[31] I dolori del giovane Werther.
[32] Il precettore ovvero i vantaggi dell’educazione privata.
[33] La donna sventurata.
[34] I soldati.
[35] I gemelli.
[36] Giulio di Taranto.
[37] Ifigenia in Tauride.
[38] I masnadieri.
[39] Per questo paragrafo v. Jean Mongrédien, La musique en France des Lumières au Romantisme, 1789-1830, Paris, Flammarion, 1986, in particolare le pagg. 48-154, dedicate al teatro (ma egualmentepreziose le pagg. 34-47, dedicate alla “musique révolutionnaire”, così importante per Beethoven), e Roberto Tessari, Teatro e spettacolo nel Settecento, Roma-Bari, Editori Laterza, 1997. Utilissimo Gerhard Dietel, Musikgescichte in Daten, Kassel, Bärenreiter, 1994.
[40] La tragedia di Euripide s’intitola, più correttamente, Ifigenia fra i Tauri. La Tauride non esiste.
[41] La commedia era finita nel gennaio del 1773, e la Comédie Française l’annuncia per il carnevale. Viene aggiornata all’anno seguente. Ma nel febbraio del 1774 la prima della commedia viene ulteriormente aggiornata. Finalmente va in scena il 23 febbraio 1775, e Beaumarchais rimpolpa il testo con numerose allusioni alle disavventure della messa in scena. E’ un fiasco. Alla fine di giugno la commedia è pubblicata con l’aggiunta di una Lettre modérée sur la chute et la critique du Barbier de Seville (lettera moderata sulla caduta e la critica del Barbiere di Siviglia).
[42] Le mariage de Figaro viene letto dal Beaumarchais alla Comédie Française il 29 settembre 1781.  Censura favorevole di Coqueley de Caussepierre. Ma sorgono intrigi e ostacoli a corte. Il re si oppone alla rappresentazione. L’anno seguente c’è una seconda lettura della commedia alla presenza del Granduca di Russia, del maresciallo Richelieu e della duchessa di Villeroy, ma nell’estate la seconda censura (di Suard), contrariamente alla prima, è sfavorevole. Il 13 giugno 1783 Le mariage dovrebbe essere rappresentato sulla scena dei Menus-Plaisirs a Versailles.  Ma all’ultimo momento il re proibisce la rappresentazione. Nell’estate c’è una terza censura, favorevole, della commedia. Il 26 settembre Le mariage è rappresentato privatamente a Gennevilliers, presso il duca di Fronsac, con l’accordo del re. Nell’autunno si ha una quarta censura, riservata, della commedia. Il 15 gennaio 1785  Desfontaines emette una quinta censura del Mariage, favorevole a prezzo di taluni “adoucissements” (addolcimenti). Il 22 marzo si ha una sesta censura, definitiva, interamente favorevole. Alla fine del mese un “tribunale di decenza e di gusto” composto da uomini politici e scrittori concede l’avallo definitivo. Ai primi d’aprile cominciano le prove e il 27 aprile va in scena la trionfale prima. Il 19 agosto c’è la famosa ripresa del Barbier al Trianon, in cui Maria Antonietta, anche per manifestare il proprio dissenso dalle posizioni del marito, recita la parte di Rosina. Da notare la rapidità con cui  Mozart coglie l’attualità della commedia: Le nozze di Figaro vanno in scena a Vienna il 1 maggio 1786. Per le notizie, in dettaglio, cfr. Beaumarchais, Théâtre, Paris, Garnier,1980, pagg.  xv-xxi.
[43] Si fa poco conto del fatto che proprio nel Ratto Mozart opera, per la prima volta, l’innesto di forme alte, tragiche, della musica teatrale nel corpo di un’opera comica. O per lo meno, la prima volta in maniera riuscita: La finta giardiniera è un esperimento tiuscito a metà. In ogni caso Mozart individua bene il problema, già fin dall’Idomeneo. Ma lì si trattava d’innestare forme comiche (il sublime quartetto del terzo atto “Andrò ramingo e solo”) nel corpo dell’opera tragica. La novità dell’opéra-comique stava nel fatto che le forme musicali, nate per la commedia, erano divenute neutre quanto a connotazione di genere e si offrivano pertanto egualmente efficaci a connotare un’azione tragica quanto una vicenda comica. Il massimo dello sconfinamento o, se si preferisce, dell’estraniamento di genere, sarà attuato, nel 1797, dalla Medea di Cherubini, e nel 1805 proprio dal Fidelio beethoveniano, che in ciò si lascia alle spalle, quanto a tensione tragica, i pur notevoli esperimenti, sullo stesso soggetto, di Gaveaux, Paër e Mayr, collocandosi se mai su un piano affine a quello di Cherubini, e non solo il Cherubini della Lodoïska e delle Deux Journnées, ma proprio quello della Médée. E non è un caso che alla fonte di Gaveaux, Paër e Mayr, oltre che di Beethoven, ci sia lo stesso libretto di Bouilly, ma che sia anche di Bouilly il libretto del cherubiniano Les deux journées. La vitalità del genere, del resto, si misura anche col fatto che vi appartengano opere assai più tarde come Carmen e Manon.
[44] Cfr., per tutta questa parte, Gerhard Dietel, Musikgeschichte in Daten, Kassel, Bärenreiter, 1994, pagg.  508-573.
[45] Siate avvinti, o milioni! / Questo bacio a tutto il mondo!
[46] Noi vogliamo con fiducia / contare sull’aiuto di Dio! / La speranza dolcemente mi sussurra: / saremo liberi, troveremo pace.
[47] Parlate piano! State calmi! / Siamo spiati da orecchi e da sguardi.
[48] Pracarri |soldati francesi| che scappate dalla Lombardia / se vi danno qualche momento di guardare indietro / date un’occhiata e fate mente con che allegria / si festeggia questo vostro san Michele |29 settembre, data di scadenza  degli affitti, a Milano|. // E sì che tutto il mondo sa che andate via / per lasciare il posto ad altri forestieri / che per quanto fossero pieni di cortesia / vorranno anche loro roba e danari. // Ma ne avete fatte mò tante voialtri furfanti / col ladroneggiarci e e accopparci gente su gente / col pelarci, tribolarci, cacarci addosso, // che alla fine ci avete ridotto al punto puttana / di non potere neanche essere indifferenti / sulla scelta del boia che ci scanna. (Gli osannatori attuali della guerra in Iraq sono serviti)
[49]  No, non v’inginocchiate più come schiavi, / (i prigionieri si alzano) / la rigidezza del tiranno mi stia lontana. / Cerca il fratello i suoi fratelli, / e se può aiutare, aiuta volentieri.
[50] Chiunque tu sia, voglio salvarti, / per Dio, no, non sarai una vittima.
[51] D. Arasse, Le théâtre de la guillotine: la leçon des images, in AA. VV., Lo spettacolo della Rivoluzione francese, a cura di P. Bosisio, Roma, Bulzoni, 1989, pagg. 207-208, cit. da Roberto Tessari, Teatro e spettacolo nel Settecento, Roma.Bari, Editori Laterza, 1997, pagg. 295-206.
[52] Nouveau tableau de Paris, voll. 6, Paris, Pougens et Cramer,  1798, vol. II, p. 150, cit. da R. Tessari. Cit., pag. 216.
[53] Cfr. Giorgio Agamben, Homo sacer, Torino, Einaudi, 1995.
[54] La verità osai arditamente dire, / e le catene sono la mia ricompensa.
[55] Anton Schindler, Biographie von Ludwig van Beethoven, Münster, 1840, pag. 58. Cit. da Giovanni Biamonti, Catalogo cronologico e tematico delle opere di Beethoven comprese quelle inedite e gli abbozzi non utilizzati, Torino, ILTE, MCMLXVIII, pagg. 479-80.
[56] Rielaborazione della “TABLE I: The Gaveaux and Beethoven versions of Fidelio (Leonore)” della voce Fidelio del Grove, Opera, cit.
[57] Attenzione! opéra in francese è maschile.
[58] Oh amici, non questi suoni! Nona Sinfonia, IV, battute 216-221.
[59] Sfogherò la mia vendetta! / Te, te chiama il tuo destino! / Nel suo cuore scavare…
[60] William Kinderman, Beethoven, Oxford University Press, 19972, pagg. 20-27.
[61] WoO significa Werk ohne Opus, opera senza numero d’opera.

Nessun commento:

Posta un commento