Due minuti all’ombra,
di Davide Gariti
Roberto Deidier, nella sua recensione della raccolta, sul
suo blog, parla di perturbazioni, di un’abitudine quotidiana al contatto con qualcosa, di necessità di misurarsi con il
mondo ma, soggiunge, anche di limpidezza del discorrere e, soprattutto, di una quasi
sabiana onestà nei confronti della vita. Tutto vero. Ma direi anche di più. Come
il grande poeta triestino, solo se letto superficialmente, può apparire
tradizionale, anzi addirittura convenzionale, così anche la poesia di Davide
Gariti può sembrare facile, diluita in un discorrere quasi da colloquio
quotidiano, se non con gli altri, certo con sé stesso. Bisogna invece leggerlo e rileggerlo. Perché,
a una prima lettura, le sue sembrano le confessioni o divagazioni di un
adolescente che scopre il mondo. E forse lo è, Gariti, un adolescente, ma come
lo era, per esempio, un Corazzini: nel senso che lascia crescere la sua
esperienza del mondo e degli altri, senz’aspettarsi niente, c’è sempre, anzi,
un tu a cui sembra rivolgersi, ma non si capisce se un amore, un altro corpo,
un’altra voce, o il corpo, la voce di sé
stesso, come ricettacolo prezioso dei corpi e delle voci del mondo in cui si
sente immergere, affondare. Custodisce,
poi, la memoria di questo sprofondamento come qualcosa che più che non ancora finita
non è nemmeno per davvero cominciata. Si avverte in questo atteggiamento la
paura e insieme la curiosità di chi non si sia ancora sentito sporcato dal
contatto della vita, degli altri, del sesso, che ne resti anzi attratto,
esaltato, come un beato uscire da sé stesso. E se mi si permette la brutalità
dell’immagine – ma il poeta stesso sembra autorizzarla: “pestando il seme che
andrà / giù” – Gariti vive la sua poesia quasi come un’eiaculazione in cui il
seme sono le sue parole, testimoni e insieme traccia della vita che si respira
intorno, sopra la terra, sotto, nelle cortecce degli alberi, nell’aria che si
respira. Qui, però, interviene il lavoro della scrittura, perché questa
esperienza, che potrebbe anche assomigliare all’esperienza di un mistico, è
controllata dal linguaggio che la esprime, che anzi ha pudore di rivelarsi
troppo. Va pertanto indovinata, percepita tra gli scarti della coscienza, dai
buchi sfuggiti al controllo, nei momenti in cui quasi inavvertitamente si
rivela. Come osserva giustamente anche Deidier. Le paure prossime, le insidie
di un probabile fallimento, nell’esperienza, dell’esperienza, e cioè il timore,
e l’angoscia, di restare a mani vuote, senza ricompense, per il dono di aprirsi
al mondo, sono tuttavia là che aspettano: il “ciclostilo ciclostilato” sembra
ingabbiarlo o perfino minacciarlo. “E’ finito un anno./ Quando?” Delusione o
consapevolezza della fine, della conclusione, com’è nella natura delle cose e
dunque anche dell’esperienza umana. Ma bisogna sbirciare sotto il rigo. Non bisogna
lasciarsi scivolare sulla superficie dei versi. Gariti ama nascondersi dietro
un racconto fluido, quasi dimesso, quotidiano. I sussulti li lascia indovinare,
le crepe mostrano un intonaco maldestro, buttato sul muro a nasconderne i punti
di rottura. Confesso che all’inizio mi pareva una scrittura perfino banale. E
invece bisogna origliare nell’attesa dello squarcio, della confessione
improvvisa, dell’indicibile a lungo soffocato e finalmente pronunciato. Ma sta
lì il lato più avvincente di questa poesia: nell’attesa di quell’esplosione che
sembra non arrivare, e quando arriva spalanca una scena di emozioni violente,
eppure delicate. E allora uno immagina con che violenza potrebbe alla fine
scatenarsi il suo furore, la sua ossessione di unirsi a chi lo chieda complice o che lui stesso implori di assecondarlo in
quest’avventura, confondersi con lui nell’esperienza di un tuffo nelle cose, di
cui non si conosce né la portata né l’esito. Fosse anche solo l’esperienza di
osservare un cane che passa, una foglia che cade, o una bocca che aspetta, come
fosse, l’esperienza di questa unione, della partecipazione a ritmi vitali
appena subodorati, indovinati, non solo un atto dello sguardo, ma qualcosa di
più, quello che Goethe, in “Stella”, chiama un risarcimento che la natura ci
offra per il guasto di averci dato l’esistenza: la natura (“fuoco / andato a
male”) sembra, di fatti, tuttavia, ferirci invece da sempre, e forse senza mai
darci, se non per un’illusione, quel sospirato risarcimento. A questo punto il lettore è assalito da una
grande voglia di abbracciarlo, l’adolescente che si rivela nei versi di Davide
Gariti, e dirgli: “fratello, mi assomigli”. L’ombra corrucciata di Baudelaire
ci perdonerà questo plagio.
Fiano Romano, 12 settembre 2016
Nessun commento:
Posta un commento